Vadda Ghalughara

Vadda Ghalughara: l’Olocausto dei Sikh

Introduzione

Il Vadd Ghalughara (in punjabi: ਵੱਡਾ ਘੱਲੂਘਾਰਾ, “Grande massacro”) fu uno degli episodi più sanguinosi della storia dei Sikh. Il 5 febbraio 1762 un’immensa colonna di famiglie sikh in marcia nel Punjab fu attaccata a sorpresa dalle forze del re afghano Ahmad Shah Durrani (noto anche come Ahmad Shah Abdali), determinato a cancellare dalla regione la presenza Sikh. In un solo giorno furono uccise decine di migliaia di persone – secondo alcune stime contemporanee circa 25-30 mila, forse fino a metà dell’intera popolazione sikh di allora. Questo eccidio, ricordato appunto come Vadd Ghalughara o “Grande Olocausto dei Sikh”, rappresentò l’apice di un’ondata persecutoria che tormentava la comunità sin dalla metà del Settecento. Nonostante la tragedia, la volontà di sopravvivenza dei Sikh non venne spezzata: l’evento segnò anzi una svolta nella coscienza collettiva del Khalsa (la confraternita dei Sikh devoti), rafforzandone l’unità spirituale e alimentando la determinazione a conseguire autonomia politica negli anni successivi.

Per comprendere le cause di questo massacro, occorre inquadrarne il contesto politico e religioso nel Punjab di metà XVIII secolo. L’impero Mughal era in declino e il vuoto di potere era contendibile da varie forze. I Sikh, seguaci di una fede monoteista indipendente nata nel XV secolo, da tempo subivano repressioni: già nel 1746 migliaia di Sikh erano stati massacrati nel cosiddetto Chhota Ghalughara (“Piccolo massacro”), e tra il 1748 e il 1753 il governatore mughal Mir Mannu li perseguitò brutalmente​. Eppure la comunità sikh, ispirata dagli insegnamenti dei Guru e dallo spirito militante del Khalsa fondato dal decimo Guru Gobind Singh (1666-1708), era tutt’altro che domata. Organizzati in gruppi armati chiamati misl (vere e proprie confederazioni militari regionali), i Sikh conducevano una guerriglia costante contro i governanti oppressivi. Verso il 1760 esistevano circa dodici misal autonome, ciascuna guidata da un proprio sardar (capo), ma coordinate nei momenti critici dal consiglio collegiale del Sarbat Khalsa. Figure come Jassa Singh Ahluwalia (capo del misal Ahluwalia) erano emerse come leader carismatici in grado di unire temporaneamente le bande sikh contro il nemico comune. Sul fronte opposto, dal nord-ovest incombeva l’astro nascente di Ahmad Shah Durrani, sovrano dell’Impero Durrani afghano, che dal 1748 compì ripetute invasioni dell’India del Nord. Durrani ambiva a controllare il Punjab e Delhi, e nel 1761 riportò una famosa vittoria sui Maratha a Panipat, imponendosi come nuovo dominatore della regione. Proprio in questa fase i Sikh del Punjab, per quanto minoritari, sfidarono apertamente il potere di Durrani: quando il suo esercito tornava in Afghanistan dopo Panipat carico di bottino e prigionieri, gruppi sikh attaccarono le retrovie afghane, riuscendo persino a liberare circa 2.200 donne hindu che gli Afghani deportavano in schiavitù​. Questo gesto audace – compiuto nel gennaio 1761 – impressionò profondamente Ahmad Shah, al punto da indurlo a considerare i Sikh come una minaccia strategica e a meditare la loro eliminazione definitiva​.

Nei mesi successivi, l’attivismo militare sikh crebbe. Tra giugno e settembre 1761 le forze del Dal Khalsa (l’armata confederata dei misal) sconfissero le truppe locali filodurrani a Jalandhar, saccheggiarono le città di Sirhind e Malerkotla e arrivarono ad occupare per breve tempo Lahore, antica capitale del Punjab​. Durante il grande raduno di Sarbat Khalsa tenutosi ad Amritsar per la festività di Diwali (ottobre 1761), i capi sikh emisero un gurmatta (decreto collegiale) in cui decisero di punire severamente i collaborazionisti locali degli Afghani​. Nel mirino vi era soprattutto Aqil Das, capo di una setta religiosa deviata (i Hindali o Niranjania) che, dalle sue basi di Jandiala, forniva informazioni ai governanti islamici contro i Sikh​. Proprio l’azione contro Aqil Das fu la scintilla immediata del conflitto: all’inizio di gennaio 1762 un’armata sikh di diverse migliaia di uomini cinse d’assedio Jandiala per stanare il traditore​. Resosi conto del pericolo, Aqil Das inviò messaggeri frenetici a chiedere aiuto ad Ahmad Shah Durrani​, il quale nel frattempo era già in marcia per la sua sesta invasione dell’India, deciso a “spazzare via i Sikhs dal Punjab”​​. La richiesta di Aqil Das offrì al sovrano afghano l’occasione di colpire i Sikh concentrati in un unico luogo: Durrani accelerò l’avanzata verso Jandiala e raggiunse Lahore all’inizio di febbraio, pronto a scatenare la sua offensiva.

Il Massacro

Quando Ahmad Shah Durrani arrivò con il suo esercito nei dintorni di Jandiala, trovò la città già abbandonata: i Sikh, informati dell’avvicinamento del nemico, avevano levato il campo in fretta per evitare lo scontro diretto​. Il loro obiettivo immediato era mettere in salvo le famiglie che viaggiavano al seguito dei guerrieri. Bisogna infatti considerare che il Dal Khalsa in quella spedizione non era composto di soli soldati: al campo partecipavano anche migliaia di donne, bambini e anziani sikh (non-combatants), che seguivano i loro cari nelle migrazioni stagionali. Di fronte all’inarrestabile avanzata afghana, i leader sikh decisero dunque di ripiegare verso sud, oltre il fiume Sutlej, per condurre il grosso delle famiglie nella relativa sicurezza delle foreste e del deserto del Malwa. L’idea era di nascondere i civili nel wasteland del Malwa e poi tornare indietro con le sole forze combattenti per affrontare gli inseguitori su un terreno a loro favorevole​. Così, tra fine gennaio e inizio febbraio 1762, decine di migliaia di sikh – secondo fonti dell’epoca circa 150.000 persone in totale, di cui 50-60 mila armati e il resto familiari al seguito​ – attraversarono il Sutlej dirigendosi a sud. Si accamparono in alcuni villaggi della regione di Malerkotla (nell’odierno Sangrur, Punjab orientale), tra cui Kup, Rahira, Gujjarwal e Gurm, disseminati in un’area semi-arida di dune sabbiose e boscaglia rada​. La scelta di quell’itinerario si rivelò però fatale: Malerkotla era un piccolo stato feudale a maggioranza musulmana, il cui governante Nawab Bikhan Khan era alleato degli Afghani. Quest’ultimo avvistò i movimenti del grande caravanserraglio sikh (chiamato vāhir, cioè il convoglio di bagagli e civili) attorno ai suoi territori, e immediatamente avvisò le forze afghane e i vicini governanti filo-Durrani della presenza dei Sikh. Al fianco di Bikhan Khan si mosse Zain Khan, il potente faujdar (governatore) di Sirhind, anch’egli deciso a schiacciare i Sikh e vendicare i saccheggi subiti l’anno prima. Ahmad Shah Durrani colse l’occasione: ordinò a Zain Khan e Bikhan Khan di sbarrare la strada ai Sikh frontalmente, mentre egli stesso con la cavalleria afghana li avrebbe attaccati da tergo, chiudendoli in una morsa. Per evitare errori di identificazione nello scontro ormai imminente, Durrani fece distribuire ai suoi alleati indiani dei ramoscelli verdi da portare sul turbante, così che le truppe afghane li distinguessero dai Sikh e non li colpissero per sbaglio​.

Nelle prime ore del mattino del 5 febbraio 1762, mentre i Sikh riposavano accampati presso i villaggi di Kup e Rahira, l’esercito di Ahmad Shah piombò improvvisamente su di loro con un attacco su due fronti. La rapidità di manovra di Durrani fu sorprendente: partito da Lahore solo due giorni prima, egli aveva coperto circa 240 chilometri in 48 ore, attraversando due fiumi, per cogliere il nemico di sorpresa​. Le avanguardie di Zain Khan e Bikhan Khan avevano già ingaggiato alcuni scontri nella notte, ma erano state respinte dalle pattuglie sikh. Tuttavia, con l’arrivo all’alba del grosso della cavalleria durrani (si parla di 30.000 cavalieri afghani di élite)​, la situazione precipitò.

I Sikh si trovarono di fronte un nemico molto più numeroso e meglio armato (gli Afghani disponevano anche di artiglieria pesante, da cui i Sikh erano quasi del tutto privi)​. Inoltre, la presenza del convoglio di civili li costringeva a combattere in condizioni sfavorevoli: non potevano usare la consueta tattica mordi-e-fuggi della guerriglia (hit-and-run), né potevano semplicemente dileguarsi, avendo al seguito decine di migliaia di persone indifese​. Jassa Singh Ahluwalia e gli altri 10 capi dei misal presenti decisero perciò di formare uno schieramento difensivo attorno alle famiglie: i guerrieri Sikh circondarono a mo’ di cordone il vāhir (carovana) e cominciarono a retrocedere lentamente, combattendo, nella speranza di aprirsi un varco verso sud-ovest, in direzione di Barnala, dove contavano sull’aiuto di alleati Sikh del Malwa​. Secondo alcune cronache, i leader sikh si aspettavano anche il soccorso del capo del misal Phulkian, Ala Singh di Patiala, la cui roccaforte si trovava non lontano; ma tale aiuto non arrivò mai.

Lo scontro infuriò disperato. Per circa un’ora e mezza i Sikh riuscirono a reggere l’urto, muovendosi compatti e respingendo i ripetuti assalti nemici​. Inizialmente l’avanguardia afghana guidata da Qasim Khan fu respinta e lo stesso governatore Zain Khan non riuscì a spezzare la formazione Sikh​. Nella mischia, il sardar Charat Singh (nonno del futuro Maharaja Ranjit Singh) ferì gravemente il generale afghano Buland Khan, ma venne a sua volta colpito da Jahan Khan; intervenne allora Jassa Singh Ahluwalia, che sferrò un duro colpo a Jahan Khan, mettendolo fuori combattimento​. I cronisti raccontano episodi di straordinario eroismo: ad esempio lo storico Rattan Singh Bhangu narra che molti cavalieri nemici, abbattuti dalla furia sikh, lasciarono sul terreno i loro destrieri ancora vivi, i quali furono catturati e rimontati dai guerrieri Khalsa per continuare la battaglia​. Ma il numero degli aggressori cresceva di minuto in minuto. Durrani, visto l’impasse iniziale, inviò nuovi reparti a rinforzo e infine decise di guidare personalmente l’attacco decisivo con la sua guardia reale (12.000 soldati scelti)​. L’assalto frontale combinato di tutte le forze afghane riuscì infine a disgregare lo schieramento sikh: il cordone difensivo venne sfondato, isolando una parte dei combattenti dal convoglio di civili​. A quel punto il massacro divenne inevitabile. I reparti di Zain Khan e Bikhan Khan – affiancati dai contadini musulmani locali ostili ai Sikh – si lanciarono sulle colonne di profughi, ormai senza protezione, e compirono stragi orribili tra i gruppi di donne, bambini e anziani. Molti civili sikh vennero travolti e trucidati sul posto; altri furono fatti prigionieri. Interi nuclei familiari vennero annientati.

I guerrieri Khalsa, vedendo da lontano le proprie famiglie massacrate, combatterono con rinnovata ferocia: “i Sikh, benché gravemente feriti e coperti di sangue, continuavano a battersi” – scrive un cronista – e persino Ahmad Shah rimase stupito dal coraggio disperato di quei combattenti​. Secondo il racconto di Bhangu, Durrani infuriato inveì contro il governatore Zain Khan per non essere riuscito ad accerchiare i Sikh come pianificato e porre fine alla resistenza: “Non hai mantenuto ciò che avevi promesso… Hai 20.000 cavalieri, eppure non sei riuscito a circondare questi kāfir (infedeli). Tienili bloccati ancora un paio d’ore e io li finirò tutti”​. Il comandante Zain Khan, stremato, avrebbe risposto ammettendo la tenacia nemica: “A vederli sembrano pochi, ma quando si combatte paiono moltissimi!”.

Alla fine, di fronte alla travolgente superiorità numerica e materiale degli invasori, i Sikh superstiti furono costretti a disperdersi. Molti dei loro capi comunque sopravvissero, sia pure feriti: Jassa Singh Ahluwalia riportò ben 22 ferite, Charat Singh 19​, e praticamente ogni singolo guerriero sikh uscì dallo scontro ferito. Ma il prezzo in vite umane fu spaventoso. Sul terreno, lungo un raggio di circa 50 chilometri attorno a Kup e Rahira, giacevano migliaia di corpi senza vita. Le cifre delle vittime furono probabilmente dell’ordine delle decine di migliaia: fonti contemporanee afghane stimarono circa 25.000 sikh uccisi, mentre cronache sikh parlano di 30.000 o più martiri caduti quel giorno​. Alcuni storici moderni ipotizzano un bilancio leggermente inferiore (attorno a 15.000 morti)​, ma tutti concordano sul fatto che si trattò di un vero e proprio tentativo di genocidio. Oltre alle perdite umane, la nazione sikh subì un danno spirituale incalcolabile: nella confusione del massacro andò perduto anche il manoscritto originale del Guru Granth Sahib, la Sacra Scrittura dei Sikh compilata un secolo prima da Guru Gobind Singh e custodita fino ad allora a Damdama Sahib. Fu una tragedia completa, che nelle intenzioni di Ahmad Shah Durrani doveva segnare l’annientamento definitivo del popolo Khalsa.

Le conseguenze

Il Grande Massacro del 1762 ebbe conseguenze profonde sia nell’immediato che nel lungo termine, sul piano sia materiale che morale. Ahmad Shah Durrani, pur avendo inflitto perdite enormi ai Sikh, non era del tutto soddisfatto: la resistenza accanita incontrata sul campo lo aveva esasperato. Nei giorni successivi al massacro, mentre la sua armata sostava nella zona di Sirhind, egli sfogò la propria ferocia sui superstiti e sulla popolazione sikh restante. Fece setacciare i villaggi del Punjab centrale alla caccia di ogni sikh nascosto: “fino al 15 febbraio 1762 rimase a Sirhind, durante quei giorni fece uccidere tutti i Sikh di diversi villaggi”, caricando poi su carretti le teste mozzate delle vittime per spedirle a Lahore​.

Lungo la marcia di ritorno, i prigionieri sikh vennero brutalmente giustiziati. Quando Durrani fece il suo ingresso trionfale a Lahore il 3 marzo 1762, volle dare un agghiacciante monito alla città: secondo il racconto del viaggiatore inglese George Forster, l’Afghano fece erigere delle minareti (torri) composte con i teschi e i crani dei Sikh uccisi, e fece addirittura “lavare con il sangue dei Sikh” le mura di alcune moschee, ritenute contaminate dalla presenza degli infedeli​. Questo atto di terrore doveva servire a scoraggiare definitivamente la popolazione dalla collaborazione con i ribelli sikh. Nel frattempo Durrani pianificava il colpo di grazia sul piano religioso: consapevole che il fulcro della forza morale dei Sikh risiedeva nella città santa di Amritsar, attorno allo Harimandir Sahib (il Tempio d’Oro) e al suo sacro bacino d’acqua, il sovrano afghano decise di profanare quel luogo sacro.

Già verso fine febbraio 1762 alcune avanguardie afghane avevano razziato Amritsar, ma il vero attacco avvenne due mesi dopo: il 10 aprile 1762, in concomitanza con la festività del Baisakhi, Ahmad Shah piombò su Amritsar con truppe fresche e fece saltare in aria con la polvere da sparo il Tempio d’Oro​. Distruzione dei luoghi sacri simile a quella occorsa ai zoroastrani mille anni prima e nuovamente nel X secolo, oltre che ai Georgiani, agli Armeni e agli Indiani a Nalanda nel 1193.

Per dissacrare ulteriormente il sito, ordinò di riempire di carcasse di mucca e altri rifiuti il sarovar (la vasca sacra) attorno al santuario​. I dormitori dei pellegrini (bunga) vennero rasi al suolo e i monaci guardiani (sevadār) presenti massacrati. La tradizione sikh tramanda che, durante la demolizione del Tempio, una scheggia di marmo colpì Ahmad Shah al naso ferendolo; quella ferita, infettatasi, non guarì mai completamente, tanto che Abdali morì pochi anni dopo tormentato da un’ulcera al naso – interpretata dai Sikh come punizione divina per il sacrilegio commesso​.

Eppure, nonostante la devastazione, i Sikh non rimasero annichiliti. Già a partire dalla primavera del 1762 iniziarono a riorganizzarsi e a vendicarsi. Dopo appena due mesi dal Ghalughara, in occasione del Baisakhi (aprile 1762), i guerrieri Khalsa superstiti si radunarono nuovamente armati. La prima loro azione simbolica fu quella di colpire i villaggi che avevano collaborato col nemico: i Sikh attaccarono e distrussero le località di Kup, Rahira, Kutba e Bahmania, i cui abitanti musulmani avevano partecipato attivamente al massacro di febbraio​. Le rovine di quei villaggi – ricordano oggi gli storici sikh – testimoniano la rappresaglia della Khalsa​. Intanto piccoli contingenti di guerrieri continuavano a braccare gli Afghani isolati: nell’aprile 1762 la cronaca riporta ad esempio una scaramuccia vittoriosa dei Sikh contro un distaccamento Durrani presso Harnaulgarh (vicino Ambala)​. Ma il vero momento di riscatto arrivò nell’ottobre di quello stesso anno. In occasione della festività di Diwali (ottobre 1762), circa 60.000 sikh – incredibilmente, un numero persino maggiore di quanti ne fossero stati massacrati – si radunarono ad Amritsar fra le macerie ancora fumanti del Tempio d’Oro per rinnovare il tradizionale conclave del Sarbat Khalsa​. Ahmad Shah Durrani, informato della grande adunata, accorse di nuovo da Lahore con il suo esercito per disperderla, determinato a non lasciare scampo ai “ribelli” risorti.

Ne seguì una battaglia campale ad Amritsar (nota come battaglia di Darbar Sahib del 1762) che durò dal mattino fino al calare della notte​. Lo scontro fu duro, ma questa volta i Sikh – animati da uno spirito di rivalsa quasi suicida – riuscirono a mettere in difficoltà gli Afghani. Un ufficiale britannico, il colonnello James Browne, che raccolse testimonianze sull’evento pochi anni dopo, riferisce che al calar delle tenebre Ahmad Shah fu costretto a fuggire furtivamente verso Lahore con i pochi uomini rimastigli, tanto che “il giorno successivo non un solo soldato di Abdali si presentò sul luogo della battaglia” e i Sikh poterono proclamarsi vittoriosi, avendo “finalmente ottenuto vendetta”​.

Questo sorprendente ribaltamento di fronte mostrò che, pur decimata, la nazione Khalsa era tutt’altro che annientata. Durrani stesso, sconcertato dall’ostinazione di quei guerrieri, iniziò a rendersi conto che dominarli stabilmente sarebbe stato arduo. Nel dicembre 1762 il sovrano afghano fece ritorno a Kabul, non senza prima cercare di ricompensare i suoi alleati locali e di riorganizzare il potere nelle città chiave: nominò un nuovo governatore a Lahore (il rājā hindu Kabuli Mal) e insignì persino Ala Singh di Patiala di titoli onorifici, confermandolo nel controllo dei suoi territori (Patiala, Nabha, etc.) in cambio però di un pesante tributo annuale​. Questo gesto riconosceva implicitamente che alcuni capi sikh – come Ala Singh – avevano mantenuto un atteggiamento ambiguo o neutrale durante il conflitto; Ala Singh infatti non aveva contribuito alla difesa dei suoi correligionari, e per salvare il proprio piccolo Stato si era sottomesso ad Abdali pagando cinque lakh di rupie e persino un supplemento per ottenere il permesso di non tagliarsi i capelli (segno distintivo sacro per un sikh) davanti al re vincitore​. La politica pragmatica di Durrani, tuttavia, non poté impedire l’inevitabile: appena Ahmad Shah lasciò il Punjab, i Sikh superstiti emersero nuovamente e colmarono il vuoto di potere. Il governatore di Lahore Kabuli Mal, rimasto isolato, preferì accordarsi con i Sikh piuttosto che opporvisi: secondo una cronaca, egli invitò segretamente i capi Khalsa a prendere di fatto il controllo della città​. Nel corso del 1763 i Sikh tornarono in massa ad Amritsar, dove poterono finalmente dedicarsi alla ricostruzione del santuario distrutto: con lo spirito di servizio collettivo (kar sewa), lavorarono giorno e notte per dragare e purificare il sarovar profanato e per riedificare l’Harimandir Sahib, aiutati ironicamente da manodopera fornita proprio dall’ex governatore filodurrani Kabuli Mal​. Già nella primavera del 1765 Amritsar era tornata agibile e ancora una volta in mano al Khalsa.

Sul piano geopolitico, il fallimento dell’obiettivo di sterminio divenne evidente nei pochi anni successivi. Ahmad Shah Durrani tornò nuovamente in India nel 1764 e 1767 per ulteriori spedizioni, ma non riuscì mai a ricostituire un saldo dominio sul Punjab. Le forze sikh, riorganizzate nei misal, continuarono ad attaccare i funzionari e i posti di guardia afghani con incessanti guerriglie. Nel 1764 gli insediamenti Durrani rimasero confinati nelle città fortificate: in quello stesso anno i guerrieri Khalsa espugnarono Sirhind, uccidendo il governatore Zain Khan (lo stesso regista del massacro del 1762) e prendendo possesso di quel ricco territorio​. Nel 1765, approfittando della lotta di successione tra Ahmad Shah e suo figlio Timur Shah, i misal sikh entrarono infine a Lahore e la occuparono stabilmente, ponendo termine a più di sette secoli di dominio musulmano nella città. Paradossalmente, i devastanti attacchi di Durrani finirono per accelerare l’ascesa dei Sikh come potenza regionale autonoma: superata la prova del Ghalughara, i misal consolidarono la propria autorità sulle varie parti del Punjab, gettando le basi per la futura unificazione sotto il Maharaja Ranjit Singh (che negli anni a cavallo del 1800 avrebbe riunito i misal e fondato il grande Impero Sikh).

Forse però l’eredità più importante del Vadd Ghalughara fu sul piano spirituale e della memoria collettiva. Il trauma del 1762 rimase scolpito nella coscienza del Panth (la comunità dei fedeli sikh) come un sacrificio supremo per la fede e la libertà. I caduti di quel giorno vennero onorati con il titolo di shahid (martiri) e ricordati nelle preghiere comunitarie. Ancora oggi, nelle ardās (invocazioni) quotidiane recitate nei templi sikh, si rende omaggio “a coloro che diedero la vita per il Dharma, ai martiri straziati, segati, fatti a pezzi, che non vacillarono nella loro fede”. La storiografia sikh ottocentesca – come l’opera Panth Prakash di Rattan Singh Bhangu – narrò dettagliatamente l’episodio, tramandando sia gli atti di valore sia le sofferenze patite, affinché le nuove generazioni ne traessero ispirazione. Il termine ghalughara divenne sinonimo stesso di strage perpetrata contro i Sikh: un secolo dopo, nel 1947, i massacri subiti durante la partizione dell’India vennero immediatamente accostati, nella terminologia popolare, ai tragici “olocausti” del XVIII secolo. Sul territorio, la memoria è vivissima: nei luoghi del massacro odierno sorgono monumenti e santuari commemorativi. A Kup-Rahira è stato eretto il Gurdwara Wadda Ghallughara Sahib, i cui alti cupoloni canditi ricordano ogni giorno ai visitatori il sangue versato in quei campi nel 1762.

Ogni anno, il 5 febbraio, migliaia di pellegrini sikh vi si radunano per rendere omaggio ai circa 35-40 mila uomini, donne e bambini “martirizzati in quel Ghallughara”​. Il ricordo del Grande Massacro, lungi dallo scoraggiare il popolo sikh, è divenuto col tempo un richiamo all’unità e al coraggio. Come ha scritto uno storico, “la comunità sikh non potrà mai dimenticare le atrocità commesse da Abdali. Il Vadda Ghalughara è una profonda ferita nel cuore dei Sikh, ma anche una testimonianza eterna del loro spirito indomabile”.

Fonti: Le informazioni e le citazioni sono tratte da cronache coeve e studi storici sul periodo, fra cui testimonianze raccolte da Rattan Singh Bhangu, cronache persiane e memorie di viaggiatori europei (Forster, Browne), nonché da ricerche moderne sull’evoluzione dei misal e sull’impatto del Ghalughara nella storia sikh. Tutte le stime quantitative e i riferimenti a eventi sono corroborati dalle fonti indicate. In particolare, il “Panth Prakash” di Rattan Singh Bhangu e l’opera del colonnello James Browne (1788) costituiscono preziosi resoconti rispettivamente sikh e occidentali dell’epoca, mentre le ricerche di storici contemporanei come Harbans Singh, Ganda Singh e Teja Singh mi hanno aiutato a ricostruire con rigore sia le dinamiche militari sia il contesto socio-religioso di questo cruciale capitolo della storia del Punjab.​

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