Il Genocidio dei Moriori
Il genocidio moriori è un evento dimenticato. I Moriori predicavano la non violenza e la risoluzione pacifica dei conflitti, ma questo non li aiutò quando i Maori invasero le isole Chatam, massacrandoli e schiavizzandoli quasi tutti.
Introduzione
Le remote isole Chatham (Rēkohu in lingua Moriori), circa 800 km a est della Nuova Zelanda, furono a lungo la dimora indisturbata di un piccolo popolo polinesiano: i Moriori. Discendenti da antichi navigatori giunti probabilmente dalla Nuova Zelanda intorno al 1500 d.C., i Moriori si adattarono all’isolamento delle Chatham sviluppando una cultura unica. La popolazione raggiunse al massimo circa 2.000 persone (in linea, quindi, con la grandezza delle Chatam) organizzate in diversi clan.
Adottarono uno stile di vita egalitario basato sulla caccia, la pesca e la raccolta, visto che l’agricolutura era molto complessa per questioni meterologiche. Particolarmente distintiva era la loro scelta di rinunciare per sempre alla violenza: già nel XVI secolo il capo Nunuku-whenua aveva promulgato la “Legge di Nunuku” che proibiva guerre e spargimenti di sangue, imponendo la risoluzione pacifica dei conflitti e il divieto assoluto del cannibalismo, molto diffuso in Nuova Zelanda e in Australia. Per circa tre secoli i Moriori rispettarono scrupolosamente questa legge di nonviolenza, forgiando un’identità di “popolo della pace” davvero unica non solo in quei luoghi, ma in tutto il mondo.
Il primo contatto con gli europei avvenne nel 1791, quando la nave britannica HMS Chatham approdò sulle isole e le reclamò per la Corona. L’incontro, diciamocelo, non andò benissimo: per una incomprensione sui rituali di benvenuto, un marinaio inglese uccide per errore un Maoriori di nome Tamakaroro, evento che spinse gli anziani locali a elaborare speciali rituali alternativi per evitare eventi del genere. Nei decenni seguenti piccoli gruppi di balenieri, mercanti e anche alcuni Māori visitarono o si stabilirono sulle Chatham mantenendo ottimi rapporti con i locali e portando, però, alcune malattie sconosciute: si stima che entro il 1835 le epidemie introdotte dagli europei avessero già causato la morte di circa il 10% della popolazione Moriori. Nonostante questi sconvolgimenti, alla vigilia del 1835 la società moriori rimaneva fondamentalmente intatta nei suoi valori pacifici e isolani. Nessuno poteva prevedere che di lì a poco quella pace ancestrale sarebbe stata spezzata nel modo più orrendo.

Il massacro
Nel novembre 1835 giunse alle Chatham la catastrofe sotto forma di un’invasione armata. Circa 900 Māori appartenenti a due iwi (tribù) originarie di Taranaki, Ngāti Mutunga e Ngāti Tama, salparono dall’attuale Wellington su una nave sottratta agli inglesi, la Lord Rodney, alla ricerca di nuove terre. Quei guerrieri Māori erano reduci dalle sanguinose Musket Wars in Nuova Zelanda, conflitti intertribali in cui l’uso dei moschetti aveva scatenato ondate migratorie e faide feroci negli anni ‘20 e ‘30 dell’Ottocento. Spinti dalla fame di terre sicure e convinti, secondo le voci raccolte, che i Moriori non avrebbero opposto resistenza, i due gruppi sbarcarono a Rēkohu nel novembre-dicembre 1835, in due ondate di circa 500 e 400 persone rispettivamente.
Inizialmente i Moriori, ignari delle intenzioni bellicose degli arrivati, seguirono il loro costume sacro di accoglienza: offrirono cibo, riparo e pace ai nuovi venuti, come avrebbero fatto con qualsiasi ospite. Ma questo gesto di generosità fu presto tradito. I guerrieri Māori cominciarono a percorrere l’isola armati, dichiarando unilateralmente di aver preso possesso delle terre e intimando ai Moriori di sottomettersi come vassalli. Di fronte a tali soprusi alcuni giovani Moriori proposero di infrangere la tradizione pacifista e combattere gli invasori, notando di essere superiori di numero. Tuttavia i capi anziani – tra cui Torea e Tapata – si opposero fermamente: violare la Legge di Nunuku avrebbe distrutto l’anima del loro popolo e la loro identità secolare.
Dopo un acceso consiglio comunitario tenuto a Te Awapātiki, alla presenza di quasi 1.000 persone, prevalse la voce degli anziani: i Moriori decisero, in nome dei loro antichi valori, di non alzare le armi contro i Māori, sperando forse di placarli con la resa e la buona volontà.
Purtroppo, questa scelta di principio si rivelò un tragico errore (almeno per la loro vita terrena). I capi Māori interpretarono infatti l’adunanza di Te Awapātiki come un preludio a una possibile resistenza e decisero di agire d’anticipo: non appena i Moriori, disarmati, tornarono sparsi ai loro villaggi, i guerrieri invasori scatenarono un attacco a sorpresa in tutta l’isola. Seguì uno dei massacri più feroci della storia oceaniana: i Māori si abbandonarono a uccisioni indiscriminate di uomini, donne, anziani e bambini moriori. Un sopravvissuto Moriori ricordò quei momenti con parole agghiaccianti:
«I Māori cominciarono a ucciderci come pecore… eravamo terrorizzati, fuggimmo nella boscaglia, ci nascondemmo in buche sotto terra e in qualsiasi posto pur di sfuggire ai nemici. Fu tutto inutile; ci scoprirono e ci uccisero – uomini, donne e bambini, indiscriminatamente».
Molti Moriori vennero colpiti a morte a sangue freddo, altri furono torturati: cronache tramandano che alcune donne furono impalate a terra con pali acuminati e lasciate agonizzare tra atroci sofferenze. Vi furono anche episodi di cannibalismo: diversi cadaveri di Moriori uccisi vennero mutilati e consumati dai vincitori secondo macabri rituali di guerra. Dal punto di vista degli invasori, tutto ciò era considerato normale “diritto di conquista”: uno dei capi Māori in seguito giustificò così le proprie azioni brutali verso i Moriori:
Prendemmo possesso [dell’isola] secondo i nostri costumi… e catturammo tutta la gente. Non ne scampò neanche uno…»
In pochi giorni circa 300 Moriori – all’incirca un sesto della popolazione – furono sterminati, spesso senza aver opposto alcuna resistenza. I superstiti, stremati e traumatizzati, vennero ridotti in schiavitù. Per un popolo che da generazioni aborriva ogni violenza, la schiavitù era un’umiliazione totale, contraria a ogni loro consuetudine sacra. Eppure, quella divenne la loro nuova condizione: i Moriori divennero servi dei Māori, costretti ai lavori forzati, spesso picchiati e trattati alla stregua di proprietà.
Gli invasori vietarono perfino l’uso della lingua moriori, obbligando i prigionieri a profanare i propri siti sacri e a rinnegare la propria cultura. Fu imposto che nessun Moriori potesse più sposarsi tra loro né avere figli: una crudele strategia per cancellare definitivamente questo popolo. Molte donne moriori vennero date in sposa forzata ai Māori o sfruttate come concubine; alcune furono deportate e vendute altrove nel Pacifico, senza fare mai più ritorno.
Nei decenni successivi al massacro iniziale, decine e decine di Moriori continuarono a morire, non solo per le violenze subite ma anche per le malattie, la denutrizione e soprattutto per quella che essi chiamavano kongenge, ovvero il “morire di disperazione”. In totale, dal 1835 al 1863 si contarono ben 1.560 decessi di Moriori per omicidio, stenti o cause indirette su una popolazione originaria stimata attorno ai 1.700-2.000 individui. Nel giro di una generazione, il popolo pacifico di Rēkohu fu portato sull’orlo dell’estinzione.

Conseguenze e memoria
Sotto il dominio dei conquistatori, i pochi Moriori sopravvissuti vissero anni di oppressione silenziosa. Il genocidio Moriori andò avanti. La Corona britannica, pur avendo formalmente annesso le Isole Chatham nel 1842, inizialmente fece poco o nulla per intervenire. Solo alla fine degli anni 1850 – dopo oltre due decenni di schiavitù per i Moriori – alcuni missionari e osservatori europei si fecero portavoce della loro causa presso il governo coloniale. Già dal 1850 gli anziani moriori avevano cominciato a inviare petizioni e lettere al governatore della Nuova Zelanda, reclamando giustizia e la restituzione delle proprie terre usurpate. Una di queste, la famosa lettera del 1862 indirizzata al Governatore George Grey, recitava con dignità e dolore:
“Noi siamo gli abitanti originari… i diritti dei Māori non sono giusti, stanno rubando i diritti sulla nostra terra… la nostra legge dice che la terra presa ingiustamente deve essere restituita a chi ne era il proprietario… Basta, venga a ristabilire l’ordine su quest’isola… ciò che accade qui non è conforme alla legge”.
Parole toccanti, che invocavano l’autorità morale e legale dell’Impero britannico contro la “barbarie cannibale” (così veniva definita) dei loro oppressori. Tuttavia, queste suppliche caddero nel vuoto: il governo coloniale rimase inerte fino al 1863. Solo in quell’anno, a trent’anni dall’invasione, un magistrato residente nominato sulle Chatham dichiarò formalmente libera la comunità moriori, ponendo fine alla schiavitù legale dei superstiti. Purtroppo la libertà sulla carta non restituì ai Moriori né le vite perdute né le terre.
Nel 1870, quando ormai la maggior parte dei Māori invasori era rientrata a Taranaki, una speciale Corte per le Terre Nativi fu incaricata di dirimere le dispute di proprietà sulle isole: fu la beffa finale. Il giudice coloniale, ignorando i secoli di pacifica occupazione moriori, applicò rigidamente la logica della conquista armata: stabilì che i Moriori, essendo stati “conquistati” nel 1835, avessero perso ogni diritto di possesso. Conseguentemente il 97% delle terre delle Chatham venne assegnato ai pochi rappresentanti di Ngāti Mutunga (gli invasori recenti), e meno del 3% agli indigeni Moriori superstiti. Quest’ultimi, ormai appena un centinaio di anime, si trovarono praticamente privati di ogni risorsa nel loro stesso luogo natìo. Molti dovettero abbandonare l’arcipelago negli anni seguenti, emigrando verso la Nuova Zelanda continentale in cerca di mezzi di sostentamento.
Nel 1901 sull’isola di Rēkohu restavano solo 31 Moriori purosangue, a fronte di centinaia di coloni europei e Māori. La perdita fu anche culturale: con la morte degli ultimi anziani, andò scomparendo la conoscenza diretta della lingua moriori e delle antiche tradizioni, che sopravvivevano ormai solo in frammenti scritti e ricordi tramandati. L’ultima persona con entrambi i genitori moriori, Tame Horomona Rehe – noto come Tommy Solomon – morì nel 1933, anno preso come riferimento della fine definitiva di questo popolo.
A lungo il genocidio dei Moriori restò un capitolo quasi dimenticato (o travisato) nella coscienza storica neozelandese. Durante il periodo coloniale e fino al ‘900, l’opinione pubblica venne influenzata da resoconti distorti che minimizzavano la tragedia o addirittura confondevano la storia: prese piede il mito secondo cui i Moriori sarebbero stati un’antica razza pre-Māori che abitò l’Isola del Nord neozelandese e che sarebbe stata scacciata e annientata dai Māori prima dell’arrivo degli europei.
Questa leggenda – completamente falsa – venne divulgata persino a scuola: manuali e riviste educative ufficiali, come il School Journal negli anni 1916 e 1946, insegnarono a generazioni di studenti che i Moriori erano una “razza inferiore” sterminata dai Māori molto tempo prima alimentando pregiudizi e confusione. Così la vera storia dell’invasione del 1835 alle Chatham fu a lungo offuscata. Molti discendenti moriori, cresciuti in un clima di stigma e derisione (oggetto di insulti che suonano più o meno come “i Māori vi hanno mangiato tutti”), preferirono celare le proprie origini per evitare discriminazioni.
Fortunatamente, dagli ultimi decenni del XX secolo è iniziato un percorso di riscoperta e riabilitazione. Nel 1980 un documentario televisivo neozelandese raccontò al grande pubblico la vicenda dei Moriori, sfatando molti miti durati fin troppo a lungo e rivelando che esistevano ancora discendenti viventi di quel popolo pacifico. Questo fu il punto di avvio di un vigoroso movimento di rinascita culturale moriori: nel 1986 sull’isola venne eretta una statua in onore di Tommy Solomon, simbolo della sopravvivenza e dell’orgoglio ritrovato.
Nel 1989 lo storico Michael King pubblicò Moriori: A People Rediscovered, il primo saggio completo dedicato alla storia moriori, che ottenne vasta eco correggendo la narrazione storica nazionale. Negli anni ’90 i Moriori rimasti – ormai consapevoli di non essere “un mito” ma un popolo ancora vivo – si organizzarono in enti rappresentativi (come l’Hokotehi Moriori Trust) e presentarono una formale rivendicazione al Tribunale del Trattato di Waitangi. Nel 2001 il rapporto del Tribunale diede piena ragione ai Moriori, riconoscendo l’ingiustizia subita: dichiarò che la decisione del 1870 di assegnare (quasi) tutta la terra ai Māori invasori era stata gravemente scorretta e che i Moriori avrebbero dovuto conservare almeno metà delle loro terre ancestrali.
Si avviò così un lungo iter di negoziati con il governo neozelandese per un risarcimento storico. Nel febbraio 2020 è stato finalmente firmato un accordo di transazione (Moriori Treaty Settlement) che include una dettagliata ricostruzione ufficiale degli eventi del 1835–1863, un sentito atto di scuse da parte della Corona britannica-neozelandese (ma non da parte dei Maori, autori del massacro) e una serie di compensazioni concrete. Ai Moriori sono state restituite terre di significato culturale sulle loro isole e assegnato un indennizzo finanziario di 18 milioni di dollari neozelandesi, volto a sostenere la rinascita economica e sociale della comunità. Nelle parole del ministro del Trattato Andrew Little, questo accordo serve a “riconoscere i Moriori come veri waina pono (abitanti originari) delle Chatham e a correggere i miti e le falsità sui Moriori perpetrati per generazioni”.
Oggi i circa mille neo-zelandesi che si identificano orgogliosamente come Moriori stanno riscrivendo il finale della loro storia. O almeno ci stanno provando. Sull’isola di Rēkohu è stato inaugurato nel 2005 il Kōpinga Marae, la prima casa di ritrovo moriori dai tempi dell’invasione, il cui design richiama simbolicamente le ali dell’albatros – antico emblema di pace per questo popolo.
Si stanno recuperando, con grande difficoltà, parole della lingua moriori, e me rongo (letteralmente “con pace”) è tornato a essere il saluto benaugurante nelle comunicazioni ufficiali La tragica vicenda del genocidio del 1835, a lungo dimenticata o distorta, è oggi studiata e commemorata con rispetto. Sulle Chatham rimangono siti storici di grande importanza: dai rakau momori, le curiose incisioni dendrografiche sugli alberi che fungevano da memoriali, alle fosse comuni mai dimenticate, fino alle tombe dei pochi sopravvissuti.
La storia dei Moriori, un popolo che scelse la nonviolenza fino alle estreme conseguenze, mi ha affascinato profondamente fin da quando ne sono venuto a conoscenza. Da un lato testimonia la distruzione di una cultura gentile, dall’altro lato insegna che, nonostante tutto, esiste sempre (o quasi) la possibilità di risollevarsi.
Bibliografia
- King, Michael (2000). Moriori: A People Rediscovered. Auckland: Penguin Books.
- Crosby, Ronald D. (2012). The Musket Wars: A History of Inter-iwi Conflict, 1806–45. Auckland: Libro International.
- Petrie, Hazel (2015). Outcasts of the Gods? The Struggle over Slavery in Māori New Zealand. Auckland: University Press.
- Shand, Alexander (1911). The Moriori People of the Chatham Islands: Their History and Traditions. Memoirs of the Polynesian Society, Wellington.
- Belich, James (1996). Making Peoples: A History of the New Zealanders from Polynesian Settlement to the End of the Nineteenth Century. Auckland: Penguin Press.
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