La Tratta di Schiavi dall’Africa Orientale
Introduzione
Per oltre un millennio la tratta di Schiavi dall’Africa Orientale ha connesso le coste swahili dell’Africa orientale alla Penisola Arabica, al Golfo Persico e, per riverbero, all’India occidentale. Non fu una sequenza di razzie episodiche, ma un sistema a lunga durata che poggiava su regolarità geografiche (i monsoni, con i loro calendari di andata e ritorno), su infrastrutture marinare (i dhow, le piccole imbarcazioni a vela latina capaci di cabotaggio e lunghi tratti in altura), e su quadro giuridico e istituzionale che, pur mutando nei secoli, ha regolato la schiavitù come istituzione ammessa ed estremamente lucrativa.
In questo circuito gli schiavi erano impiegati nelle oasi dei datteri in Arabia, nella pesca delle perle del Golfo, come domestici e artigiani nelle città, e come eunuchi nei santuari e nelle corti islamiche. Nell’Ottocento, quando l’arcipelago di Zanzibar divenne un hub di primo piano, l’intero meccanismo emerse progressivamente con chiarezza: afflusso dalle regioni interne (Yao e area del lago Nyasa), concentrazione nel mercato di Stone Town, smistamento verso Oman, Hadhramawt (attuale Yemen), Hejaz (regione della penisola arabica che arriva fino al Sinai) e porti del Golfo, e contemporanea formazione, sull’isola, di una società schiavista “in loco” funzionale alla monocoltura dei chiodi di garofano.
Ma Zanzibar, per quanto vistosa, fu solo l’ultima cerniera di un dispositivo molto più antico, già operante in età abbaside e riformulato più volte dal medioevo all’età moderna. Diciamo che, grazie ai documenti e agli studi fatti sull’ultimo secolo di schiavismo a Zanzibar, siamo riusciti a comprendere anche un buon numero di meccanismi, rotte e violenze più antiche.
Schiavi portati presso i califfati arabi tra VIII e XVI secolo
A partire dall’VIII secolo le fonti arabe menzionano come “Zanj” (neri) gli schiavi catturati in prevalentemente in Sudan e nell’Africa Orientale. La loro presenza non fu sporadica: in età abbaside furono, di fatto, la forza propulsiava di grandi cantieri idraulici, saline e colture intensive nelle pianure umide attorno a Bassora. La rivolta degli Zanj (869–883), cui abbiamo dedicato un articolo, esplose proprio negli acquitrini mesopotamici ed è la spia di una domanda di manodopera servile estesa e capillare. Le reti mercantili che dall’Africa orientale convogliavano centinaia di migliai di africani ridotti in catene verso Aden e Siraf, poi lungo il Golfo fino a Basra.
Nello stesso arco di secoli, tra Mar Rosso e valle del Nilo, Egitto e Hijaz assorbirono flussi destinati a lavori urbani, ai servizi religiosi nelle città sante e, per quote ridotte, all’evirazione per impieghi di custodia. Il diritto islamico regolava la schiavitù in modo articolato, distinguendo tra categorie d’uso, percorsi di manomissione e vincoli religiosi; e tuttavia la prassi economica, soprattutto nei margini di frontiera, piegava spesso la norma alla convenienza.
La castrazione (che forse rappresenta, nell’immaginario europeo, la pratica più orrenda) non fu la regola per gli uomini provenienti dall’Africa orientale, ma una pratica mirata a mercati specifici. laddove effettuata in condizioni rudimentali, comportò rischi operatori molto elevati, mentre in centri più attrezzati la mortalità si riduceva sensibilmente.
LA CASTRAZIONE
Uno degli aspetti più discussi della tratta verso l’Arabia è la castrazione di una minoranza di schiavi maschi destinati a servire come eunuchi (dall’Hejaz alle corti). Due precisazioni sono necessarie:
- Incidenza: la quota era piccola rispetto al totale dei maschi schiavizzati. Non esistono percentuali robuste e generali: le pratiche variavano nel tempo e nello spazio (Sudan, Alto Egitto, Yemen) e riguardavano circuiti islamici di domanda specifici (santuari, corti, alti palazzi). La maggioranza degli uomini era impiegata come bracciantato, portatori, lavoratori domestici e agricoli senza castrazione (anche nei Paesi del Golfo).
 - Mortalità dell’operazione: la letteratura segnala tassi altissimi in certi contesti e periodi. Hogendorn discute testimonianze ottocentesche che parlano anche di mortalità fino al 90% (dati estremi e localizzati), a ricordare il costo umano di una pratica chirurgica eseguita senza anestesia moderna né antisepsi standardizzata. Altri studi sostengono valori diversi; ciò che non cambia è l’idea di rischio elevatissimo. Il punto, insomma, non è trovare “la percentuale giusta” per l’intero Oceano Indiano, quanto capire che l’evirazione fu una tecnologia sociale dell’ordine di corte e del sacro, pagata con vite in misura sproporzionata.
 
Con l’arrivo dei portoghesi alla fine del Quattrocento, il sistema non si interruppe: cambiò in parte itinerari e intermediari, ma continuò a trasferire persone dalle coste swahili ai califfati e ai potentati regionali. In realtà, l’Estado da Índia portoghese preferì concentrarsi sui traffici a più alto margine e più prontamente controllabili. Parliamo quindi di spezie, oro e avorio da Sofala e dal retroterra dello Zimbabwe, e i diritti di passaggio (cartaz) sul cabotaggio locale. Insomma, pratiche meno onerose rispetto a scendere direttamente nella filiera della cattura e dell’inoltro degli schiavi verso l’Arabia.

Quando intervennero, quindi, i Portoghesi lo fecero per lo più come fiscalizzatori (gabelle, concessioni, licenze ai casados) o come potenza navale che imponeva pedaggi e sicurezza alle rotte. Inoltre, mancavano loro proprio gli uomini e le reti terrestri per subentrare a quelle, ben oliate, dei procacciatori swahili.
Di conseguenza, tra XVI e XVII secolo il commercio di schiavi verso il Mar Rosso e la Penisola Arabica rimase prevalentemente in mani arabe e swahili, con i portoghesi a incassare dazi e a presidiare forti come Kilwa o Mombasa senza monopolizzare la tratta.
Solo più tardi, e soprattutto più a sud (Mozambico), la corona e i negozianti luso-africani incrementarono un traffico schiavile “atlantizzato” verso le Mascarene e il Brasile; sul fronte “orientale”, invece, la cacciata portoghese da Mombasa (1698) e l’ascesa omanita riportarono definitivamente la regìa delle rotte nelle mani arabo-omanite.
Schiavismo con l’ascesa omanita
Tra XVII e XVIII secolo la dinastia omanita Ya‘arubi sottrasse ai portoghesi il controllo di snodi chiave sulla costa swahili, culminando nella presa di Fort Jesus a Mombasa. Nel XIX secolo, con il trasferimento del baricentro politico a Zanzibar da parte del sultano Saʿīd bin Sulṭān, l’egemonia omanita si tradusse in un programma economico esplicito: garantire afflussi regolari di schiavi, consolidare il traffico di avorio, ampliare la produzione di chiodi di garofano introdotti su larga scala.
Di fronte a un simile obiettivo, l’entroterra africano si riorganizzò di conseguenza: c’erano carovane armate che attraversavano i corridoi del Kilwa e del Nyasa e guide e capi locali (Yao, Nyamwezi e altri che ho difficoltà a identificare nelle fonti) mediavano catture e vendite.
Il sistema, manco a dirlo, funzionava piuttosto bene. Gli equipaggi dei dhow calcolavano le partenze e i rientri sui monsoni, mentre gli intermediari swahili e arabi gestivano magazzini e punti di concentrazione. I trattati più importanti (Moresby,1822 e Hamerton, 1845) con le potenze europee, che nell’Ottocento lottarono per l’abolizione dello schiavismo dopo averlo praticato in modo rilevante nel corso della Tratta Atlantica. — non vietarono la schiavitù in sé, ma limitarono segmenti del trasporto marittimo, con giurisdizioni ritagliate per meridiani e paralleli.
Si trattava, però, di un commercio troppo ricco, sul quale si basava l’intera economia dell’Impero Omanita. Qualcosa di molto simile, per intenderci, all’economia basata sulla guerra di corsa e sugli schiavi europei degli Stati Barbareschi. Nella pratica, quindi, la tratta si adattò: uso di scali secondari, il classico cabotaggio in notturna e, soprattutto, spostamento del cuore del “business” dalla pura redistribuzione all’impiego interno, via via che le piantagioni di Zanzibar e Pemba assorbivano una quota crescente di arrivi.
Zanzibar nell’Ottocento
La fisionomia zanzibarina del XIX secolo è leggibile nella demografia. A metà secolo, sull’arcipelago vivevano circa 200.000 schiavi su 300.000 abitanti: una proporzione che rende evidente quanto la coercizione fosse divenuta la base della struttura sociale. Nel decennio di massima intensità, gli anni Sessanta dell’Ottocento, gli arrivi annui in porto sono stimati intorno a 20.000 persone; all’incirca 12.000 venivano trattenute come forza-lavoro per le piantagioni di chiodi di garofano, per i lavori urbani e domestici, e per i servizi portuali, mentre il resto era reindirizzato verso Oman, Hadhramawt, Hejaz e i porti del Golfo. La gran parte degli schiavi proveniva dalle regioni Yao e del lago Nyasa. Senza entrare nei particolari più cruenti, l’iter dopo la cattura era ben “codificato”. Dalle aree interne si procedeva in colonne sorvegliate da uomini armati, incatenati a due a due o con collari di legno e con razioni scarsissime.
Il tragitto verso il mare durava settimane. La mortalità complessiva tra cattura, marcia e malattie si collocava verosimilmente tra il 20 e il 30%, con oscillazioni legate a stagione, guerra e fame. Su 1.000 schiavi ridotti in catene, quindi, 200 o 300 morivano nella lunga camminata (e traversata) verso Zanzibar. Sull’isola, il mercato di Stone Town funzionava da concentrazione e smistamento: gli schiavi destinati alle piantagioni erano registrati e marcati a stretto giro, mentre famiglie e individui per il “re-export” (non volevo usare tanti termini commerciali moderni, ma peno che rendano bene l’idea) venivano imbarcati sui dhow compatibilmente con le finestre dei monsoni.
In un rapporto dell’African Institution si legge:
Alcuni gruppi sono talmente malnutriti che le loro ossa sembrano sul punto di bucare la pelle. Bambini di sei anni vengono venduti per 4, 5 o 6 dollari. Il valore di uno schiavo di prima qualità è 50 dollari, quello di una ragazza giovane 60. Le donne con figli hanno un costo inferiore rispetto a quelle senza.Quando uno schiavo muore, il suo corpo viene spesso lasciato a decomporre sulla spiaggia, senza neanche uno straccio o un pugno di terra a coprirlo.
Sul fronte internazionale, il 5 giugno 1873 le pressioni britanniche imposero la chiusura del mercato pubblico di Stone Town e il divieto del trasporto marittimo di schiavi. I traffici non cessarono all’istante, si fecero clandestini.

Solo con la dichiarazione del 6 aprile 1897 la schiavitù fu abolita legalmente nell’arcipelago; alcune zone grigie — come lo status delle concubine — furono chiarite nel primo decennio del Novecento. La struttura sociale, però, mutò lentamente: molti ex schiavi restarono sulle terre dei vecchi padroni come mezzadri o lavoratori legati da debiti, in rapporti asimmetrici che, pur senza lo statuto giuridico della schiavitù, ne conservarono per anni la sostanza.
Il contenzioso internazionale sulle “Muscat Dhows” del 1905, con cui si cercò di regolare l’uso delle bandiere e il diritto di visita in mare, segnò uno degli ultimi capitoli di una lunga stagione in cui diplomazia, commercio e schiavitù si erano tenuti stretti.
I numeri complessivi
Stabilire un totale credibile per l’intero arco temporale che va dall’età abbaside all’Ottocento significa lavorare per forchette e ordini di grandezza che siano coerenti, non per cifre “esatte”. Per il solo XIX secolo, gli specialisti dell’area indo-oceanica convergono su una massa d’ordine di 1,5 milioni di africani orientali schiavizzati nei circuiti “a est”. Questo secolo di picco è ben documentato. Ci sono registri portuali, testimonianze consolari, missioni e le prime serie demografiche sull’arcipelago, quindi la cifra è molto accurata. Tuttavia, estendere 1,5 milioni dell’Ottocento ai dieci secoli precedenti, arrivando quindi a oltre 20 milioni (compresi morti nella traversata) sarebbe un esercizio che poco ha a che fare con la vera ricerca storica. Sappiamo infatti per certo che il periodo omanita fu quantitativamente molto più consistente rispetto al periodo precedente.
Se proviamo a guardare i numeri ottocenteschi in relazione a quanto è ricostruibile dalle cronache, dalla numismatica commerciale e dai riferimenti indiretti nelle fonti islamiche e mediterranee, la storiografia colloca il bilancio di lungo periodo entro un intervallo compreso tra un limite molto prudente di 5 milioni e una stima alta attorno a 10 milioni di persone ridotte in schiavitù e avviate, in tutto o in parte, verso i mercati della Penisola Arabica attraverso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano. A questa somma occorre aggiungere il costo umano invisibile dei tragitti: applicando, in chiave puramente illustrativa e conservativa, un tasso di mortalità “a monte” tra il 10% e il 20% ai grandi flussi ottocenteschi, penso che si possa parlare di 10 milioni solo comprendendo anche i morti nel tragitto via terra, per mare e nelle pratiche di evirazione.
E poi c’è la sproporzione tra ciò che è “conteggiabile” (registri doganali, trattati, decreti) e ciò che sfugge ai libri: le marce dove si moriva senza nome, i corpi evirati in stazioni di castrazione di cui ci restano tracce frammentarie e tassi di mortalità che fanno gelare il sangue. Non ho la pretesa di “chiudere” il conto; sento però il dovere di esplicitare l’incertezza: molte stime sono intervalli, non “verità in granito”, e richiedono onestà intellettuale nel presentarle.
Bibliografia
- Abdul Sheriff, Slaves, Spices and Ivory in Zanzibar: Integration of an East African Commercial Empire into the World Economy, 1770–1873, James Currey, 1987.
 - Paul E. Lovejoy, Transformations in Slavery: A History of Slavery in Africa (3a ed.), Cambridge University Press, 2012.
 - Matthew S. Hopper, Slaves of One Master: Globalization and Slavery in Arabia in the Age of Empire, Yale University Press, 2015.
 - Gwyn Campbell (a cura di), The Structure of Slavery in Indian Ocean Africa and Asia, Routledge, 2004.
 - Ehud R. Toledano, The Ottoman Slave Trade and Its Suppression, 1840–1890, Princeton University Press, 1982.
 - Frederick Cooper, From Slaves to Squatters: Plantation Agriculture in Zanzibar and Coastal Kenya, 1890–1925, Yale University Press, 1980.
 
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