Gli Schiavi Bianchi, o, meglio, la Schiavitù Bianca negli Stati Barbareschi (c.d. schiavismo bianco) fu un fenomeno che conobbe il suo apice fra XVI e XVIII, con il consolidarsi di entità statuali basate quasi esclusivamente sui bottini della guerra di corsa e la cattura ed il commercio di schiavi.
Qualche anno fa ho scritto un articolo sullo Schiavismo Islamico, in particolare sulla tratta e sulle rotte sahariane delle carovane degli schiavisti arabi, ma ho solo accennato alla questione dei milioni di europei che, nel corso dei secoli, caddero in mano a questi ultimi e agli Ottomani (a partire dalla fine del XV secolo).
Il testo su cui sto lavorando si intitola White Slavery in the Barbary States (1853) di Charles Sumner, uno dei senatori più importanti nella storia degli USA. Repubblicano e collaboratore di Abraham Lincoln, Sumner era un convinto abolizionista e, in tutta la sua opera, paragona la schiavitù dei neri negli Stati Uniti meridionali con quella dei bianchi nei territori nordafricani. A volte il parallelo è ardito, altre volte sensato, ma in ogni caso stimolò (e stimola tuttora) una riflessione storica, politica e sociale sul concetto di schiavitù.
L’obiettivo di Zhistorica |
Purtroppo molti storici di oggi sono costretti a fare i conti con un politicamente corretto che stringe sempre di più la libertà della ricerca, ed è per questo motivo che ho sempre avuto una fortissima attrazione per i testi antichi, specie quelli redatti fra il XVIII e l’inizio del XX secolo (per quanto ricchi di influenze anticlericali, antisemite o, per gli odierni standard, razziste). Sareste sorpresi di vedere in che modo questi documenti siano stati ritagliati, ripuliti e riproposti al pubblico come opere originali dal professore di turno. Con i volumi della Zhistorica, invece di appropriarmi di testi altrui, ho l’obiettivo di ripristinare il testo originale (tramite traduzione o, in caso di lingua italiana, “modernizzazione”) e arricchirlo con box di commento e link ipertestuali che possano agevolarne la lettura. |
L’estratto:
L’argomento che voglio prendere in considerazione è la Schiavitù Bianca ad Algeri o, forse, sarebbe meglio chiamarla Schiavitù Bianca negli Stati Barbareschi.
Visto che Algeri era il suo centro, il suo nome è entrato nell’uso comune quando si parla di Schiavitù Bianca. Questo non comporta alcun problema, visto che parleremo, per l’appunto, di Schiavitù Bianca, o Schiavitù dei Cristiani, presso gli Stati Barbareschi.
Il soggetto potrebbe non essere particolarmente interessante, ma di certo è innovativo.Non siamo infatti a conoscenza di altri tentativi di sistematizzare il materiale frammentario che lo riguarda in un saggio omogeneo.
Il territorio che oggi facciamo rientrare nella denominazione «Stati Barbareschi» ha una storia importante. Iscrizioni classiche, archi diroccati e antiche tombe – le memorie di età differenti – rappresentano ancora una testimonianza istruttiva degli sconvolgimenti che lo hanno interessato.
Un’antica leggenda Greca lo considera la dimora del terrore e della felicità. Si trovava lì il rifugio della Gorgone, che con i suoi ricci di serpente trasformava in pietra tutto ciò che guardava; il giardino delle Esperidi, con i suoi pomi d’oro. È anche lo scenario di avventura e mitologia. Lì Ercole lottò con Anteo, e Atlante sosteneva, con le spalle doloranti, l’arco del cielo.
Gli esuli Fenici portarono sulla sua costa lo spirito del commercio; e Cartagine, che quei girovaghi fondarono lì, divenne la signora dei mari, l’esploratrice di regioni lontane, la rivale e vittima di Roma. Lì la forza e la furbizia di Giugurta avevano contrastato per un breve periodo la potenza di Roma, ma alla fine l’intera regione, dall’Egitto alle Colonne di Ercole, era stata annessa alla vorace repubblica dei tempi antichi.
La popolazione fiorente e il suolo fertile lo avevano reso un immenso granaio. Era ricco di città famose, una delle quali fu il rifugio e la tomba di Catone, fuggito dalle usurpazioni di Cesare.
Più tardi, alcuni dei vescovi più santi diffusero lì la Cristianità. Il fiume dei Vandali, che prima aveva devastato l’Italia, passò poi in quel terriorio, e le armate di Belisario ottenero lì le più grandi vittorie.
Successivamente dall’Arabia arrivarono i Saraceni,messaggeri di una nuova religione, e con i potenti mezzi di conversione rappresentati dal Corano e dalla spada, si riversarono su quelle coste diffondendo la fede e gli insegnamenti di Maometto.
Il loro impero non rimase all’interno di questi ampissimi confini, ma, sotto Musa, entrò in Spagna e arrivò fino a Roncisvalle, alla «dolorosa sconfitta», e batté la cavalleria Cristiana di Carlomagno in difficoltà.
Il potere Saraceno non ha più la sua unità o la sua forza. Guardando il territorio in oggetto, all’alba delle storia moderna, quando i paesi Europei appaiono nelle loro nuove identità nazionali, possiamo individuare cinque diverse entità politiche o stati: Marocco, Algeri, Tunisi, Tripoli e Barca. L’ultimo, di poca importanza, viene spesso incluso in Tripoli, ma tutti insieme costituiscono ciò che erano, e sono ancora, gli Stati Barbareschi.
Questo nome è stato talvolta riferito ai Berberi, o Berebberi, che costituiscono una parte della popolazione, ma preferisco seguire l’autorità classica di Gibbon, il quale pensa che questo termine, inizialmente concepito dall’orgoglio dei Greci per indicare gli stranieri, e infine riservato solo a coloro che erano selvaggi od ostili, sia ormai condiviso come denominazione locale per la costa settentrionale dell’Africa.
Gli Stati Barbareschi portano dunque la loro antica fama nel loro stesso nome.
Questi Stati occupano un posto importante nel mondo; a nord, bagnati dal Mediterraneo, possono avere scambi immediati con l’Europa Meridionale, tanto che Catone fu in grado di mostrare al Senato Romano fichi freschi raccolti nei giardini di Cartagine; confinanti a est con l’Egitto e ovest con l’Oceano Atlantico, e a sud con le vaste e indefinite sabbie del Sahara che li separa dal Sudan e dalla Negrolandia.
Hanno una posizione geografica che dà loro grandi vantaggi rispetto al resto dell’Africa – ad eccezione forse dell’Egitto – essendo loro permesso di comunicare facilmente con le nazioni Cristiane, e così, come anche in passato, entrare in contatto con l’ultimo avamposto della civiltà.
Il clima è un’altra attrattiva della regione, che sfugge al freddo del nord e al caldo soffocante dei tropici, ed è ricca di aranci, limoni, olive, fichi, melograni e fiori meravigliosi.
La sua posizione e le sue caratteristiche invitano a una comparazione tanto singolare quanto suggestiva. È infatti posizionata fra il 29° ed il 38° parallelo nord, occupando in pratica la stessa posizione degli Stati Schiavisti dell’Unione che ora sembrano estendersi, ahimè, dall’Oceano Atlantico al Rio Grande. Gli Stati Barbareschi probabilmente occupano una superficie di 700.000 miglia quadrate, una misura analoga a quella occupata da quelli che potremmo chiamare Stati Barbareschi d’America.
E le similitudini non finiscono qui. Algeri, per lungo tempo il più detestabile luogo degli Stati Barbareschi, il centro principale della Schiavitù Bianca, una volta definito da un cronista indignato «la roccaforte del mondo barbarico» è collocato vicino al parallelo di 36°30’ latitudine nord, in linea con quello che è stato definito il Compromesso del Missouri, che segna la linea di confine della Schivitù cristiana, in America del Nord, a ovest del Mississipi.
Si possono identificare altri punti di contatto, meno importanti, fra i due territori.
Entrambi sono bagnati dall’oceano e dal mare per la medesima estensione, ma con una differenza: le due regioni sono bagnate dalle acque in modo diametralmente opposte, la Barbaria Africana a nord e a ovest, quella Americana a sud ed est.
Non ci sono due territori della stessa estensione, sulla faccia della terra (e un esame delle mappa vi convincerà di quello che sto dicendo) che presentano così tante caratteristiche simili, sia che consideriamo la latitudine in cui sono situati, la natura dei loro confini, la loro produzione, il clima, o le «peculiari istituzioni domestiche» che hanno trovato accoglienza in entrambe.
Introduco questo parallelo farvi comprendere il più possibile, la posizione e le caratteristiche precise del territorio che era il centro del male che sto per descrivere.
Di certo sarebbe interessante comprendere per quale motivo la schiavitù Cristiana, abolita in tutta Europa e in quelle parti del globo che giacciono sulla medesima latitudine, sia riuscita a stabilirsi in entrambi gli emisferi nei medesimi paralleli di latitudine, tanto che Virginia, Carolina, Mississipi e Texas dovrebbero essere considerati l’equivalente americano di Marocco, Algeri, Tripoli e Tunisi.
Questa insensibilità nei confronti delle richieste di giustizia e umanità, presente in entrambe le regioni, deriva forse dalle similitudini in fatto di clima, di indolenza dell’istruzione, di debolezza e di egoismo.
Gli Stati Barbareschi, dopo il declino del potere Arabo, sono stati avvolti dall’oscurità, resa ancora più palpabile della luce, sempre più accesa, proveniente dalle nazioni Cristiane.
Osservandoli nel XV secolo, nel crepuscolo della civiltà Europea, sembrava che a governare le vite degli arabi ci fossero poco più che bande scalcagnate di ladri e pirati – i «ratti di terra e ratti d’acqua» di Shylock – che governano le vita degli Ismaeliti.
Un antico viaggiatore descrive Algeri come «un covo di grandissimi ladri, riuniti in un organo dal quale, effettuata confusa divisione dei compiti, essi governano». E ancora un altro scrittore, contemporaneo dell’orrore che descrive, la definisce «Il teatro di tutte le crudeltà e il santuario dell’iniquità, che tiene prigionieri, in miserabile schiavitù, centoventimila Cristiani, quasi tutti sudditi del Re di Spagna.»
La loro abitudine di schiavizzare i prigionieri, presi in guerra e durante le azioni corsare, alla fine ha condotto contro questi stati la sacra ostilità dei Cristiani.
Ferdinando il Cattolico, dopo la conquista di Granada, e nonostante fosse preso dalle enormi scoperte di Colombo che stavano dando alla Castiglia e all’Aragona un nuovo mondo, trovò comunque il tempo di effettuare una spedizione in Africa sotto il comandano militare del grande ecclesiastico Cardinale Jimenes.
Si dice che questo valoroso soldato della Chiesa, nell’effettuare la conquista di Oran nel 1509, si prese l’indicibile soddisfazione di liberare oltre trecento schiavi Cristiani.
I successi delle armate spagnole portarono il governo di Algeri a richiedere aiuto al di fuori del paese. In quel periodo, Horuc (Aruj) e Hayradin (Haradin), figli di un vasaio di Lesbo, erano diventati famosi corsari. In un periodo in cui la spada di un avventuriero spesso portava fortune più grandi di quelle che potevano essere ottenute da uno sforzo non violento, loro erano temuti per le loro abilità, il loro coraggio e la loro forza. Algeri chiese aiuto a loro.
I corsari lasciarono il mare per dominare la terraferma o, meglio, con incursioni anfibie presero possesso di Algeri e Tunisi mentre continuavano le loro scorrerie per mare. Il nome di Barbarossa, con cui sono conosciuti fra i Cristiani, è uno dei più terribili della storia moderna.
ll famoso Barbarossa
Infestarono i mari con le loro navi pirata, ed effettuarono scorrerie sulle coste spagnole e italiane fino a che Carlo V fu sollecitato a prendersi l’impegno di sconfiggerli. Le varie forze dei suoi ampi domini furono impiegate in questa nuova crociata.
«Se l’entusiamo» dice Sismondi «che armò la Cristianità dei primi giorni era ormai quasi estinto, un altro sentimento, più legittimo e razionale, ora univa l’Europa in un voto. La sfida non era più riconquistare la tomba di Cristo, ma difendere la civiltà, la libertà e le vite dei Cristiani.»
Un fedele corpo di fanteria dalla Germania, i veterani di Spagna e Italia, il fiore della nobiltà Castigliana, i Cavalieri di Malta, con una flotta di quasi cinquecento vascelli provenienti da Italia, Portogallo e anche dalla lontana Olanda, sotto il comando di Andrea Doria, il più grande comandante navale di quel periodo andò verso Tunisi. La spedizione, sotto gli occhi dello stesso Imperatore e con il permesso e la benedizione del Papa, era costituita da uno degli eserciti più completi mai visti.
Barbarossa si oppose con coraggio, ma con forze inferiori. Mentre cedeva lentamente agli attacchi Cristiani, la sua sconfitta fu accelerata da un’inaspettata rivolta interna.
Confinati nella cittadella c’erano molti schiavi Cristiani, che, sostenendo il diritto alla libertà, ottennero una sanguinosa emancipazione puntando l’artiglieria contro i loro vecchi padroni.
La città si arrese all’Imperatore, i cui soldati però si concessero i disumani eccessi della guerra. Il sangue di trentamila abitanti innocenti tinse di rosso la sua vittoria.
In mezzo a queste scene di orrore ci fu uno spettacolo che gli offrì una certa soddisfazione.
Diecimila schiavi Cristiani gli andarono incontro, non appena fu entrato in città, e si inginocchiarono davanti a lui, omaggiandolo come loro salvatore.
Nel trattato di pace che seguì, fu stipulato espressamente che tutti gli schiavi Cristiani, di qualsiasi nazionalità, dovevano essere liberati senza riscatto, e che nessun suddito dell’Imperatore sarebbe dovuto finire in schiavitù.
La manifesta generosità di questo impegno, la magnificenza con cui fu portato avanti, e il successo da cui fu coronato, portarono all’Imperatore più omaggi di qualsiasi altro evento accaduto durante il suo regno.
Ventimila schiavi, liberati dal trattato o dalle armi, elogiarono il suo nome in Europa. È probabile che, in questa spedizione, l’Imperatore fosse governato da motivi non molto più alti della volgare ambizione o della fama; ma i risultati che ottenne, ovvero l’emancipazione di così tanti Cristiani dalla crudeltà delle catene lo mettono, assieme al Cardinale Jimenes, fra i primi Abolizionisti dell’era moderna.
Questo accadeva nel 1535. Solo pochi anni prima, nel 1517, egli aveva concesso a un mercante Fiammingo il privilegio di trasportare nelle Indie Occidentali 4.000 schiavi neri dall’Africa.
Si dice che Carlo V sia vissuto abbastanza da pentirsi di tale decisione sconsiderata.
Di sicuro non si ricorda una singola concessione, fatta da re o Imperatori, che abbia prodotto risultati a lungo termine più disastrosi di questa. Il Fiammingo infatti vendette il suo privilegio a una compagnia di mercanti Genovesi che organizzò un traffico di schiavi sistematico fra Africa e America.
Così, mentre da un lato aveva mosso una imponente forza militare per contrastare le scorrerie del Barbarossa e per abolire la schiavitù Cristiana a Tunisi, l’Imperatore aveva, dall’altro, gettato la pietra angolare di un nuovo sistema schiavistico in America, in comparazione al quale l’enormità che aveva cercato di sopprimere appariva triviale e fuggitiva.
Esultante per la conquista di Tunisi e con l’ambizione di soggiogare tutti gli Stati Barbareschi, estirpando così la piaga della Schiavitù Cristiana, nel 1541 l’Imperatore guidò una grande spedizione contro Algeri.
Ancora una volta il Papa aggiunse la sua influenza allo schieramento militare. Ma la natura si mostrò più forte sia del Papa che dell’Imperatore. In vista di Algeri, una tempesta improvvisa fece a pezzi la sua flotta imponente, e fu costretto a tornare in Spagna, frustrato, senza poter portare alcuno dei trofei di emancipazione che avevano coronato la sua spedizione precedente.
Il potere degli Stati Barbareschi era in quel periodo al suo apice.
I corsari divennero il flagello della Cristianità, mentre il loro tanto temuto schiavismo portò nuovi terrori.
Le loro scorrerie non erano più confinate al Mediterraneo. Penetrarono l’Oceano e raggiunsero gli Stretti di Dover e il Canale di St. Giorgio. Dalle bianche scogliere inglesi, e anche dalle distanti coste occidentali dell’Irlanda, abitanti inconsapevoli venivano ridotti in schiavitù.
Il governo Inglese fu spinto a fare degli sforzi per fermare queste atrocità. Nel 1620, una flotta di diciotto navi, sotto il comando del Vice-Ammiraglio inglese Sir Robert Mansel, fu spedita contro Algeri.
Ritornò senza essere stata capace, secondo il linguaggio dell’epoca «di distruggere quei fottuti pirati» sebbene avesse ottenuto la liberazione di quaranta «poveri schiavi, che provarono a far passare per gli unici presenti in città.»
«Le attività della flotta Inglese» dice Purchas «ebbero il supporto di uno schiavo Cristiano, che nuotò dalla città fino alle navi.»
Questa spedizione ricorda quella di Carlo V non solo per questo, visto che anche quella ricevette la fondamentale assistenza di schiavi ribelli, ma anche perché possiamo osservare un’analoga condotta ambigua nel governo che la decise.
Fu infatti nel 1620 – anno caro a tutti i discendenti dei Padri Pellegrini di Plymouth Rock come un’epoca di libertà – che una flotta Inglese cercò di salvare gli Inglesi tenuti in schiavitù ad Algeri proprio mentre i primi schiavi neri venivano introdotti nelle colonie Inglesi del Nord America. Fu l’inizio di un sistema orrendo, il cui lungo catalogo di umilazione e sofferenza non è ancora completo.
La spedizione di Algeri fu seguita, nel 1637, da un’altra, guidata dal Capitano Rainsboroughcontro Salé, in Marocco. Vedendola arrivare, i Mori trasferirono in tutta fretta circa mille schiavi, cittadini Inglesi, a Tunisi e Algeri.
Come riportato in Osborne’s Voyages–Journal of the Sallee Fleet, vol. II. p. 493: «Alcuni Cristiani schiavi che si trovavano a riva, fuggirono dalla città e raggiunsero le navi a nuoto.»
Anche le lotte intestine dei Salé aiutarono la flotta, e la causa dell’emancipazione trionfò velocemente. Duecentonovanta prigionieri Inglesi furono riscattati. Fu anche estorta una promessa al governo di Sallee, che si impegnò a emancipare gli sventurati prigionieri venduti a Tunisi e Algeri. Un ambasciatore del Re del Marocco visitò l’Inghilterra poco dopo e, mentre girava per le strade di Londra per raggiungere il luogo della sua audizione a corte, era accompagnato da quattro cavalli barbareschi dotati di ricche bardature e di selle ancora più ricche, con briglie impreziosite di gemme. Portava anche alcuni falchi, e «molti degli schiavi che aveva portato le seguivano a piedi vestiti di bianco» (Strafford’s Letter and Despatches, vol. II. pp. 86, 116, 129).
L’importanza dell’impresa di Salé può essere dedotta dalla grande gioia con cui fu salutata dagli Inglesi. Per quanto non fosse stata di grandi dimensioni, si era comunque trattato di una guerra di liberazione. Poeti, ecclesiastici e governanti erano uniti nel complimentarsi per il risultato raggiunto.
Ispirò anche Waller a scrivere un poema intitolato The Taking of Sallee, in cui la sconfitta del nemico schiavista viene descritta così:
Hither he sends the chief among his peers,
Who in his bark proportioned presents bears,
To the renowned for piety and force
Poor captives manumised, and matchless horse.
Diede soddisfazione a Laud, e riempì d’esultanza la mente oscura di Strafford. «Sallee, la città, è presa» disse l’Arcivescovo in una missiva a quest’ultimo, allora in Irlanda, «e tutti i prigionieri a Sallee e in Marocco consegnati; così tanti, dicono i nostri mercanti, che, in base al prezzo di mercato, valevano almeno diecimila sterline.»
Strafford vide nella popolarità di questo trionfo una nuova opportunità di elogiare i disegni tirannici del suo padrone, Carlo I. «L’azione di Sallee» rispose all’Arcivescovo, «le assicuro che è piena di onore».
Le coste inglesi erano ora protette, ma i suoi cittadini che si trovavano in mare continuavano a essere preda dei corsari Algerini che, secondo lo storico Carte, ora «portavano i loro prigionieri Inglesi in Francia, li portavano in catene via terra fino a Marsiglia, per poi imbarcarli in sicurezza verso Algeri.»
I crescenti problemi, che colpirono e poi posero fine al regno di Carlo I, non potevano distogliere l’attenzione dalla disperazione degli Inglesi vittime degli schiavisti Maomettani.
Al culmine dello scontro fra Re e Parlamento, in favore di questi Cristiani ridotti in catene si levò una voce onesta, quella di William Waller, il quale esclamò in Parlamento:
Dai numerosi appelli che riceviamo dalle mogli dei miserabili prigionieri presso Algeri (quelli Inglesi sono stimati essere fra quattro e cinquemila), appare fin troppo evidente che evitare la schiavitù in casa nostra non ci salverà dall’essere fatti schiavi fuori dal paese.
Pubblicazioni che sostenevano la loro causa, datate 1640, 1642 e 1647, continuavano ad avere vigore. Il rovesciamento di un’oppressione così odiosa fu oggetto meritevole degli sforzi di Oliver Cromwell. Nel 1655 – quando, fra lo stupore degli stati Europei, la potenza inglese si era già affermata nell’Atlantico – Cromwell mandò nel Mediterraneo una flotta di trenta navi, sotto il comando dell’Ammiraglio Robert Blake.
Si trattava della più imponente forza navale inglese ad aver spiegato le vele in quel mare dal tempo delle Crociate. Il suo successo fu completo. Uno degli agenti esteri del governo disse:
Il Generale Blake ha ratificato degli articoli di pace ad Algeri che includono Scozzesi, Irlandesi, Jarnsey, e Garnsey men, e tutti gli altri uomini soggetti all’autorità del Protettore.
L’Ammiraglio riuscì anche a liberare tutti i prigionieri che erano lì. Molti prigionieri olandesi fuggirono e arrivarono a nuoto fino alla flotta. Con Algeri, Blake non ebbe bisogno di sparare un colpo, mentre con Tunisi le cose andarono diversamente. Il governatore (Bey) della città si era infatti rifiutato di liberare gli schiavi europei, e Blake aveva risposto distruggendogli due batterie costiere e colandogli a picco nove imbarcazioni.
Di conseguenza, alla fine tutti i prigionieri Inglesi furono liberati. Il Protettore, nel suo eccezionale discorso di apertura del Parlamento dell’anno successivo, annunciò che era stata firmata la pace con le nazioni «profane» di quella regione.
Secondo me questo è stata l’impresa che più di ogni altra ha dimostrato in modo impressionante la cura con cui il Protettore aveva cura dei suoi cittadini. E a questa alludeva giustamente Waller quando affermava che c’erano “terribili notizie per tutti i pirati e i rapinatori“.
Il suo governo fu seguito “dall’effeminata tirannia” di Carlo II, la cui restaurazione fu inaugurata da un fallito tentativo di attacco ad Algeri guidato da Edward Montagu, I conte di Sandwich. Questo fu seguito da un altro, con risultati più positivi, condotto dall’Ammiraglio Lawson nel 1661.
In un trattato del 3 Maggio 1662, il governo dei pirati stipulò espressamente che:
Tutti i sudditi del Re di Gran Bretagna, ora schiavi in Algeri, o in ogni altro territorio sotto il suo controllo, saranno liberati con il pagamento del prezzo a cui sono stati venduti la prima volta; e per il futuro nessun suddito di sua Maestà potrà essere portato, venduto o reso schiavo ad Algeri e nei suoi territori.
Seguirono altre spedizioni, e altri trattati, nel 1664, 1672, 1682 e nel 1686. La loro ricorrenza e reiterazione ci dimostra come queste non avessero impressionato i barbari.
Insensibili alla giustizia e alla libertà, gli Stati Barbareschi tenevano in bassa considerazione l’obbligo di essere fedeli ai trattati relativi alla limitazione dei saccheggi e dello schiavismo.
Le lamentele dei sofferenti prigionieri inglesi continuarono ancora per lunghi anni. Un inglese, nel 1748, si espresse così:
Ah,come possono i figli della Britannia ascoltare insensibili
Le preghiere, i singhiozzi e i lamenti (immortale infamia!)
Dei loro concittadini, affondati nell’oppressione,
Che chiedono aiuto con l’anima amareggiata,
Chiamando la Britannia, la loro cara terra natia,
La terra della libertà!
Resta comunque da dire che, durante tutto questo periodo, la schiavitù dei neri, trasportati verso le colonie su navi battenti bandiera Inglese, continuò.
Nel frattempo, la Francia aveva sommerso Algeri di ambasciate e bombardamenti. Nel 1635 si trovavano lì centinaia di prigionieri Francesi. Monsieur de Sampson fu inviato con la missione di liberarli, ma non ebbe successo.
Ad Algeri, gli schiavi gli furono offerti “al loro prezzo di mercato“, che lui si rifiutò di pagare. Successivamente, nel 1637, arrivò Mounsier de Mantel, chiamato “il nobile capitano, e la gloria della nazione Francese“, al comando di “quindici navi del re e l’ordine di liberare gli schiavi Francesi“. Anche lui però tornò a mani vuote, lasciando in catene i suoi compatrioti.
Seguirono diversi trattati, conclusi alla svelta e altrettanto velocemente infranti, fino a quando Luigi XIV fece per la Francia ciò che Cromwell aveva fatto per l’Inghilterra.
Nel 1673, con la conclusione di un buon trattato commerciale, i rapporti tra Francia e Algeri erano ritornati a livelli discreti, ma nel 1681 una nave nordafricana catturò un’imbarcazione francese vicino alle coste della Provenza. L’Ammiraglio Abraham Duquesne inseguì i corsari con sette navi fino all’isola di Scio, dove il Pascià locale si rifiutò di consegnare sia l’imbarcazione che i pirati e iniziò addirittura a sparare sui vascelli francesi. Per tutta risposta Duquesne bombardò la città con tale violenza da costringere il Pascià a una tregua perché potesse riferire la questione direttamente al Sultano. Risolta la questione con cessioni da entrambe le parti, l’estate successiva Duquesne attaccò direttamente Algeri, dove c’erano diverse migliaia di schiavi francesi. Fece lo stesso anche nel 1683, questa volta con maggior successo.
Il bombardamento mise Algeri in ginocchio, distruggendo case, moschee e anche il palazzo del Dey, che fu costretto a inviare un missionario francese per chiedere la resa (assieme a settecento schiavi francesi liberati per l’occasione). Dopo tre mesi di negoziati, Hadgi-Hussein (soprannominato “Mezzo Morto” dai francesi) uccise il Dey e si proclamò nuovo capo. Per dare subito prova del nuovo corso, fece legare molti schiavi francesi alla volata di alcuni pezzi di artiglieria; sulla flotta francese arrivò una pioggia di arti e budella, compresi quelli del missionario francese che stava facendo da emissario nella trattativa. La risposta di Duquesne non risparmiò nessuno. Prima il porto e poi l’intera città furono ridotti a un cumulo di macerie. Lo stesso Dey rimase ferito in una delle esplosioni. Con l’approssimarsi di settembre, Duquesne rientrò in patria, lasciando però un buon numero di vascelli a bloccare il porto.
Alla fine, gli Algerini chinarono il capo, e nell’aprile del 1684 firmarono delle durissime condizioni di resa, comprensive dell’invio di un’ambasciata di notabili che facessero atto di sottomissione a Luigi XIV.
Voltaire dichiarò che, con questo accordo, la Francia era divenuta rispettata lungo le coste africane, mentre prima era conosciuta solo come fonte di schiavi.
Lo storico menziona un episodio che, sfortunatamente, mostra come i Francesi di quel periodo, per quanto impegnati ad ottenere l’emancipazione dei loro connazionali, avessero poco a cuore la causa della libertà intesa in senso generale.
Un ufficiale della vittoriosa flotta cristiana stava ricevendo gli schiavi bianchi cristiani portati davanti a lui e ormai liberi. Egli notò che molti erano Inglesi, i quali, pieni di vuoto orgoglio nazionalista, sostenevano di essere stati liberati senza il consenso del Re d’Inghilterra.
L’ufficiale Francese convocò gli Algerini e, riconsegnando loro gli Inglesi, disse «questi uomini aspirano a essere liberati in nome del loro Sovrano. Il mio non offre loro la sua protezione. Li consegno di nuovo a voi. Sta a voi dimostrare quanto tenete in considerazione dil Re d’Inghilterra.»
Gli Inglesi furono quindi ricondotti subito in catene. Il potere di Carlo II non era sufficiente, così come non lo era il senso di giustizia e di umanità dell’ufficiale Francese o del governo Algerino.
I tempi sono troppo stretti, anche se ci sarebbe materiale a sufficienza, per trattare i diversi sforzi Francesi contro gli Stati Barbareschi. Ne posso approfondire le determinate azioni dell’Olanda. Uno dei suoi comandanti navali più grandi, l’Ammiraglio de Ruyter, nel 1661 costrinse Algeri a liberare diverse centinaia di schiavi Cristiani.
L’incoerenza, che abbiamo spesso rimarcato, si evidenzia anche nella condotta di Francia e Olanda. Entrambi i paesi, mentre da un lato facevano ogni sforzo per liberaregli schiavi bianchi (loro concittadini), dall’altro erano crudelmente impegnati a vendere schiavi neri agli schiavisti Americani.
Ad ogni modo, nelle sortite portoghesi del XV secolo (Ceuta fu presa nel 1415), in quelle spagnole del XVI (penso alla presa di Algeri da parte di Carlo V) e, soprattutto, nelle azioni inglesi e francesi del XVII e XVIII secolo, troviamo i prodromi di quello che è passato alla storia come “periodo coloniale”. Un periodo che cercherò di trattare, sempre rimanendo all’interno del limite (mi sono ripromesso di rispettarlo almeno in questa serie di articoli) delle 3000 parole.
Sul nostro sito non troverai mai banner pubblicitari. Puoi supportare l’attività del Centro Studi Zhistorica acquistando le nostre pubblicazioni:
▶ spedizione gratuita con pacco tracciato e assicurato.
▶ copie firmate, con segnalibro e card HD in omaggio
Puoi acquistare dal nostro portale:
👉 bit.ly/ZhistoricaStore
o su Amazon:
👉 Zodd. Alba di Sangue
👉 I Padroni dell’Acciaio
👉 Gotz von Berlichingen
👉 Ascanio della Corgna
👉 Diario di Federmann
👉 Fiore dei Liberi
Bravo Zwey, un altro articolo su aspetti meno conosciuti della storia, non ce ne sono mai abbastanza.
Grazie mio caro
Credo che il clima degli Stati Confederati d’America non c’entri un tubo con lo schiavismo.
L’argomento a me interessa molto. L’unico riferimento che abbia mai trovato agli stati barbareschi e alla schiavitù dei cristiani in nordafrica durata fino all’ottocento è ne “L’ultima crociata” di Arrigo Petacco. Perché queste cose non sono insegnante al liceo insieme a (o invece di) quella cagata della Comune di Parigi?
Sulla schiavitù negra negli USA è da leggere la trilogia di John Jakes, quella di Nord e Sud, Love and War e Heaven and Hell.
articolo molto interessante, come sempre 🙂 . io, però, stralcerei tutta l’ultima parte da “una misura analoga a quella occupata […] ” a “[…] similitudini in fatto di clima, di indolenza dell’istruzione, di debolezza e di egoismo.” che non ha fondamento scientifico.
eee , niente, ho scritto una stupidaggine. avevo letto troppo rapidamente l’inizio. scusa
Interessante argomento che mi interessa da vicino come Geologo rispetto agli aspetti geografici, ma anche rispetto alla saga della mia famiglia. Infatti le mie origini sono da ricercarsi in quel di Tabarka in Tunisia. Le mie origini raccontano di una popolazione cristiana diventata poi etnia dei Genoise d otre mer, trasferiti per motivi etnico religiosi, presso l’isola di San Pietro in Sardegna. Questa popolazione subì una rappresaglia appunto dei barbareschi, per tale motivo, fu deportata in gran numero come schiavi a Tunisi e li venduta … Questa storia desto molto interesse in Europa, tanto è, che per pagare il riscatto e liberare gli schiavi cristiani, se ne interesso Napoleone Bonaparte, lo Zar di Russia, ed il Papa, la notizia ebbe eco in tutto il mondo cristiano….
Finalmente un articolo dedicato a un argomento praticamente dimenticato da tutti gli storici; la presentazione originale offre anche importanti spunti di riflessione.
Oltre a superare gran parte del materiale in circolazione per la qualità delle pubblicazioni, questo sito tratta avvenimenti specifici offrendo sempre una visione globale e presentando le connessioni con gli altri eventi che spesso vengono trascurate; ho riscontrato solo qui questo modo di esporre la storia.
Bravo!
Grazie!
Manca solo una citazione che porti il buon umore grazie al genio di Rossini: L’Italiana in Algeri!
Riprendo l’argomento: oltre al mancato accenno a Rossini, secondo me sarebbe stato più che giusto citare altre due organizzazioni che per secoli si sono dedicate al riscatto degli schiavi cristiani. Non sono trattati storici scritti, ma vissuti.
Di essi riferirò appresso (solo con un link), però ci tengo ad evidenziare come il riferimento all’Italiana in Algeri fosse più serio di quanto non potesse sembrare. Basta soffermarsi un attimo sulla circostanza che nel 1813 (solo due secoli fa) sembrava ovvio che fosse del tutto comprensibile al pubblico un’opera buffa incentrata sulla scaltrezza di una schiava italiana ad Algeri; l’opera è buffa e non è un testo di storia, ma a volte questo può valere più di un trattato.
Le due organizzazioni di cui sopra sono due ordini monastici: l’Ordine dei Trinitari e L’Ordine della Beata Vergine Maria della Mercede. Non ho tempo e voglia di riportare quanto potrete trovare qui: http://www.gliscritti.it/blog/entry/1216#h22
P.S. Non prendo responsabilità sul valore di quanto troverete perché in fondo non l’ho letto realmente.
Una precisazione: sono sempre io! Michele Pezza da Itri era il vero nome di Fra Diavolo. Ovviamente non “da otro”! Garantisco che nell’account avevo scritto bene… ma i siti le combinano di tutti i colori. E non so perché una volta ha usato uno pseudonimo e l’altra lo pseudonimo dello pseudonimo.