Siamo arrivati alla terza parte della serie su Marcantonio Bragadin e l’Assedio di Famagosta del 1571. Nella parte I e nella parte II abbiamo raccontato dell’orrenda fine di Nicosia, capitale di Cipro, e delle minacce di Mustafà Pascià, che sei anni prima aveva subito una sconfitta ignominiosa durante l’Assedio di Malta del 1565.
Nel momento di maggior pericolo bisogna avere bene presenti le priorità, quindi è necessario dare particolare attenzione agli uomini chiave per la difesa e la salute della città.
Il Bragadin scelse quindi, fra tutte le truppe, alcuni militari che gli facessero da guardie del corpo, e poiché era necessario che i generi alimentari non finissero subito, fece in modo di custodirli per gli uomini più importanti per la difesa della Repubblica.
Nei quattro quartieri della città nominò quattro patrizi di Salamina e altrettanti prefetti Italiani, perché due di loro, uno di Salamina ed uno Italiano, censissero ogni persona, controllassero le abitazioni e annotassero i beni presenti quali frumento, legumi, vino, olio e aceto, in modo che, conosciuto il numero delle persone e conosciuta la quantità delle cose che vi erano, si stabilissero i razionamenti utili alla città.
Capito che, se non avesse preso qualche decisione sui razionamenti e sulle “bocche inutili”, gli avrebbe dato più problemi la fame che non le armi del nemico, il buon Bragadin, fortemente addolorato e in lacrime, diede un ordine difficile ma necessario: le bocche inutili, una volta private di armi, frumento, farina e vettovaglie varie, dovevano abbandonare la città con i rimanenti effetti personali.
In tutto, fra donne, uomini, vecchi e bambini uscirono dalla città cinquemilatrecentosessanta persone.
La questione delle “bocche inutili” |
Non era raro che, durante un assedio, la preoccupazione maggiore delle autorità civili e militari fosse quella di mantenere un adeguato sostentamento per i combattenti. Per questo era necessario prendere provvedimenti nei confronti delle cosiddette «bocche inutili», ovvero coloro che consumavano le provviste senza dare alcun apporto alla difesa della città. Individuare chi dovesse rientrare in questa sfortunata categoria non era facile. Antonio Cornazzano, nel suo De re militari del 1476, inserì una simpatica rima per aiutare nella scelta: «Quando el raccolto pur non gli bastasse/ tutta l’età disutile a far facti/ per lo consiglio mio fora si casse/ femine, putti, vecchi, i ciechi, i matti.» Di simile avviso era, un secolo e mezzo dopo, il cardinale Richelieu, che cosigliava una rapida espulsione degli inabili alla difesa per resistere più a lungo durante un assedio. In ALFANI G.; RIZZO M., Nella morsa della guerra. Assedi, occupazioni militari e saccheggi in età preindustriale, Milano 2013, si trovano citati molti esempi di espulsione degli «inutili»: a Pavia nel 1359, a Novara nel 1495, a Siena nel 1554, a Malta nel 1565, e tanti altri. Per capire quale potesse essere l’entità numerica di questi soggetti, bisogna ricordare che la lista delle bocche superflue fatta redigere nel 1554 nella Siena assediata dall’esercito ispano-mediceo, contava circa 4.400 persone, ovvero il 15-20% della popolazione cittadina prima dell’assedio. Quanto a Famagosta, che nel 1570 contava 10.000 civili, secondo le stime del Riccoboni (probabilmente esagerate) il numero di espulsi raggiunse il 53% del totale. |
Il giorno 28 marzo, ottanta galee turche arrivarono a Cipro. Quaranta rimasero al servizio dell’esercito assieme a una nave maggiore, altre più piccole furono usate per portare tronchi ed altre cose necessarie dalla Karpassia. Le navi rimanenti furono destinate a trasportare la fanteria, i cavalli e le munizioni dalla Siria, dalla Cilicia e da altri luoghi vicini.
L’esercito ottomano destava stupore e grande meraviglia. Le sue forze, raccolte in ogni parte dell’impero, superavano le ottantamila unità secondo Pietro Giustiniano.
Il Conte Natale ci dice che c’erano sessantamila soldati a caccia di bottino, sessantamila operai, settantamila mercenari e quattordicimila giannizzeri; e che in tutto parteciparono a quella guerra duecentoquarantamila tra fanti e cavalli: settemila cavalieri, centonovantatremila fanti e quarantamila marinari.
Con la presunzione gonfiata da questi numeri, Mustafà fece sapere agli abitanti di Salamina che, se tutti i suoi soldati avessero gettato le loro scarpe nel fossato, lo avrebbero di certo riempito, e non avrebbero avuto problemi a salire sulle mura.
Alla difesa della città c’erano solo tremilacinquecento italiani, quattromila fanti greci, e duecento cavalieri.
Il 15 aprile i Turchi iniziarono a scavare una fossa e a tirare su un terrapieno per battere le mura e le fortezze della città con l’artiglieria. Costruirono in tutto dieci forti, con l’obbiettivo di bersagliarla in maniera continuativa.
Le fortificazioni di Famagosta |
Le mura di Famagosta iniziarono a essere riviste negli ultimi anni del regno di Caterina (1474). Adatte alla guerra medievale, perché potessero sopportare un fuoco d’artiglieria massivo era necessario rinforzarle e trasformarle in fortificazioni alla moderna. Vista l’importanza strategica della città, Venezia non risparmiò uomini e denari, e d’altronde i lavori di ammodernamento videro l’avvicendarsi di alcuni dei più importanti esperti del XVI secolo (Il Cav. Orologi, Ercole Martinengo, Michele Sanmicheli, Ascanio e Giulio Savorgnano, ecc.). Ancora in TRAINA M., Gli assedi e le loro monete (491-1861), si parla delle mura di Famagosta: «Le fortificazioni, opera del celebre architetto Sammicheli, sono frutto delle più avanzate concezioni belliche: la cinta rettangolare delle mura, lunga quasi quattro chilometri e rafforzata ai vertici da possenti baluardi, è intervallata da dieci torrioni e coronata da terrapieni larghi fino a trenta metri. Alle spalle le mura sono sovrastate da una decina di forti, detti cavalieri, che dominano il mare e tutta la campagna circostante, mentre all’esterno sono circondate da un profondo fossato. La principale direttrice d’attacco è difesa dall’imponente massiccio del forte Andruzzi, davanti al quale si protende, più basso, il forte del Rivellino». |
Pur essendo in pochi, quando potevano gli assediati si riparavano e preparavano le batterie, alle quali era preposto Luigi Martinengo.
Il Bragadin passava fra i soldati con grande attenzione. Li lodava, ne sosteneva in modo efficace gli animi, li esortava con forza a dar vita a una grande difesa, e non tralasciava nulla di ciò che un comandante capace e prudente deve porre in essere. Con la sua voce confortava e animava ciascuno ed era ammirevole la forza con cui ciascuno si impegnava nella difesa della città.
Il 16 maggio del 1571, due ore prima dell’alba, i turchi cominciarono a scaricare le batterie contro la città. Un bombardamento devastante, che seminò il panico anche a causa dei boati assordanti. Sembrava quasi si fosse scatenata una tempesta di tuoni e fulmini. Le abitazioni furono distrutte, le piazze e le strade divelte, tanto che i cittadini furono costretti ad abbandonare le loro abitazioni e a portarsi con le armi alle mura, rimanendovi giorno e notte.
Il Bragadin non cessò di far medicare malati e feriti. Cercava di mantenere un aspetto calmo e un fare risoluto, confortando quelli terrorizzati e pregando tutti di non temere nulla. Bisognava continuare a combattere senza tregua. Il comandante controllava anche i forti, gli mandava rifornimenti, ordinava agli artiglieri di contrattaccare in modo massiccio, tanto che, quando iniziarono a fare fuoco e fulmini sui nemici, si sentì un tal frastuono di artiglieria che sembrava stesse venendo giù tutto il mondo.
Dopo aver bombardato per diversi giorni il centro abitato, i Turchi iniziarono a battere le mura. Colpivano ora in un punto, ora in un altro, da un lato e poi dall’altro. Dopo averle così analizzate, procedettero con cinque cannoneggiamenti generali.
Il 22 maggio tentarono di sorprendere il castello fuori dal fossato ma, andati nel panico per lo scoppio di un cunicolo, si sparpagliarono.
La divisione delle mura |
Durante l’assedio, il Bragadin (di certo insieme al Baglioni) aveva suddiviso le mura fra i capitani militari. Lo stesso Bragadin alloggiava nel torrione del forte Andruzzi, Astorre Baglioni nel forte di Santa Nappa, Tiepolo in quello di Campo Santo. Al torrione e al cavaliere grande dell’arsenale era preposto il Cavalier Francesco Bugone, alla cortina e al cavaliere di Volti, compreso il torrione di Campo Santo, il Cavalier Pietro Conte, Nestore Martinengo aveva il cavaliere di Campo Santo, quello dell’Andruzzi e la cortina fino al torrione di Santa Nappa. Ercole Martinengo controllava il cavaliere di Santa Nappa e tutta la cortina fino alla Porta di Limassol. Il Rivellino e la cortina verso il baluardo erano del Capitano Orazio da Velletri, mentre al cavaliere di Limassol, il più colpito, si trovava il Capitano Roberto Malvezzi. |
In quei giorni poi, un turco disertò ed entrò in città, dicendo di volersi fare cristiano.
Il Bragdin seppe da lui che l’esercito turco era terrorizzato dalla notizia che era in arrivo una grande armata cristiana, e anche dal fatto che ormai i morti turchi erano arrivati a trentamila, anche se gli ufficiali turchi erano soliti dichiarare alle loro truppe solo cento morti su mille e viceversa quando parlavano dei cristiani.
A causa della difficoltà che stavano incontrando per prendere Salamina, proponevano ampie condizioni per la resa della città con lettere legate alla punta delle frecce che lanciavano oltre le mura, dirette le une al Bragadin e al Baglioni, le altre ai cittadini, alle quali il Bragadin non volle rispondere.
Il 26 maggio giunse una celoce veneta spedita da Candia, la quale annunziò che gli aiuti sarebbero giunti a breve. Su ordine del Bragadin, il comandante di quest’ultima fu scortato in tutti quartieri della città, affinché facesse sapere all’armata in arrivo in che condizioni disastrose fossero ridotte le case, quanti pochi viveri fossero rimasti, e quanto fosse impellente la necessità di ricevere aiuti.
L’arrivo dell’imbarcazione diede modo al Bragadin di rassicurare il popolo, e di esortarlo a tenere duro nella difesa della città grazie alla speranza di un aiuto imminente.
Il 3 giugno i turchi cominciarono riempire la fossa delle mura al bastione, e per mezzo di legni, lana e bambagia misti a terra arrivarono all’altezza delle mura.
Dalla città si cercava di ricacciarli, si combatteva e, specie dopo che il Bragadin ebbe promesso un premio a chi riusciva a sottrarre materiali al nemico, s’impediva loro di accumulare terra e si strappava la lana e la bambagia.
Ma seguirono sette terribili assalti dei turchi, che fiaccarono in modo pesante i difensori.
Poiché i turchi avevano scavato molti cunicoli verso la città, il 21 di giugno fu appiccato il fuoco ad alcuni di essi provocando gravissimi danni alle mura. Improvvisamente tutto l’esercito turco assalì i forti della città, e scagliò tanti colpi d’artiglieria e proiettili da far pensare che Dio in persona stesse tuonando, folgorando e sconvolgendo tutto.
Ho raccontato per intero l’Assedio di Famagosta nelle monografia su Astorre Baglioni contenuta nel volume I Padroni dell’Acciaio.
Il Bragadin allora iniziò a girare per tutto il perimetro dell’assedio, approntando le difese necessarie e risollevando il morale dei soldati. E il Baglioni fece lo stesso.
In quel giorno ebbe luogo una battaglia furiosa. I turchi portarono avanti ben sei assalti in cinque ore, ma furono sempre respinti. Alla fine si ritirarono. Per questo, il Bragadin rese grazie ai comandanti e ai soldati per avere combattuto con tanta forza e coraggio. Sottolineò come tutti avessero partecipato alla difesa della città, lodando ed onorando la loro virtù, e si apprestò a rimettere in sesto le brecce nelle mura.
Il 22 giugno un’altra celoce proveniente da Candia portò la notizia che l’armata cristiana sarebbe giunta a Cipro in tempi brevi, confermando con un solenne giuramento che l’aveva lasciata al così chiamato Castelrosso, a otto giorni di navigazione.
Questa notizia rianimò tutti, già stanchi e ridotti alla disperazione, con una grande felicità. E diede un importante appiglio al Bragadin per consolare, esortare e rassicurare tutti.
Il 29 giugno i nemici fecero saltare un altro cunicolo, provocando gravissimi danni alle mura, e attaccarono ancora con un impeto terrificante. Per resistere, il Bragadin agiva in da vero condottiero, a parole e con i fatti, visto che iniziò a gettare egli stesso i sassi per spronare i suoi uomini, affamati di onore e dediti alla guerra.
L’attacco si ripetè sei volte per un totale di sette ore, supportato con violenza dal fuoco, diretto sul porto, di tutte le galee turche e dalla loro cavalleria, che devastava la campagna circostante. Un gran numero di turchi perì durante questa fase.
Fino alla fine del combattimento, il vescovo, aiutato da tutti i suoi curiali e dai chierici, sostenne la resistenza, e tenendo in mano una croce con l’immagine di Gesù Cristo, spronò tutti a combattere fino all’ultimo. Chiese inoltre che ai combattenti fossero portati sassi, acqua e tutto il necessario, e le stesse donne di Salamina, matrone, vedove e vergini armate nei modi più disparati, utilizzarono con grande vigore le armi considerate «minori» quali i giavellotti, i sassi e le frecce.
L’eroismo di una donna |
Nonostante la combattività delle donne di Famagosta, fu una nobildonna di Leucosia, Belisandra Maraviglia, a scrivere il proprio nome negli annali veneziani. Dopo aver preso la capitale di Cipro, Mustafà fece caricare su tre imbarcazioni le donne più belle, le vergini e i fanciulli, assieme alle spoglie più rare, in modo che raggiungessero subito Costantinopoli come trofei per Selim II. Questi era particolarmente orgoglioso del suo harem, tanto che negli ultimi anni di regno si dedicò quasi esclusivamente a quest’ultimo. Fra le donne imbarcate alla volta della capitale ottomana c’era la menzionata Belisandra, moglie di Pietro Albino, il gran cancelliere di Cipro morto nell’assedio di Nicosia. Temendo gli oltraggi e le violenze sessuali che avrebbe subito, assieme alle sue compagne, da parte dei turchi, Belisandra riuscì a raggiungere il deposito munizioni della nave con una torcia, recitò una preghiera, e poi gettò la torcia in terra. L’esplosione fu così dirompente da far saltare in aria sia la galea di Belisandra che le due imbarcazioni di supporto. Morirono quasi tutti, turchi e prigionieri cristiani. I pochi sopravvissuti ottomani raccontarono la storia al loro ritorno in patria. [Alcuni cronisti riportano l’episodio con una diversa protagonista, tale Arnalda de Roccas.] |
Ma i mezzi di sostentamento della popolazione erano allo stremo. Mancava il cibo, così gli abitanti furono costretti a mangiare gli asini, i cavalli, i cani e simili, e bere acqua mista con aceto; il prezzo di una gallina per nutrire gli infermi aveva raggiunto i quattro soldi d’oro e ci voleva molto denaro per acquistare qualsiasi altra cosa.
Di conseguenza, l’ultimo giorno di giugno il vescovo con la curia si recò dal Bragadin, e gli consegnò lettere di supplica scritte da tutti gli abitanti di Salamina, le quali recitavano così:
«Vedi, illustre signore, ormai tutto è perduto. Siamo senza aiuti, manchiamo di uomini, i difensori sono quasi tutti morti, le mura sono a terra e ridotte in cenere per una misura pari a cinquecento passi, tanto che ormai riesce a passarci un carro senza problemi. Nella fossa hanno scavato vie sotterranee; a causa dei colpi ricevuti, il muro che circonda la cinta delle mura è diroccato, e hanno eretto un monte di terra che supera le stesse mura. Mancano le riparazioni, mancano le munizioni, quello che ricostruiamo di notte viene distrutto dalle batterie in una giornata.
Se restasse una sola speranza che l’armata cristiana fosse in arrivo, e che portasse gli aiuti, non avremmo dubbi a continuare la difesa. Ma se non v’è alcuna speranza di assistenza, ti supplichiamo umilmente di accettare delle oneste condizioni di resa invece di lasciarci vedere il massacro delle nostre mogli, figli e parenti e nello stesso tempo rinunciare alla libertà, all’onore e alla vita. Dio ottimo massimo ti preservi sano con noi.»
A corto di munizioni |
Nonostante i 1.400 barilotti portati dal Quirini, i soldati di Famagosta si trovavano sempre più a corto di polvere da sparo. All’inizio di giugno ne rimanevano complessivamente circa 3.000, tanto che il Baglioni diede l’ordine di sparare al massimo cento colpi di risposta a ogni cannoneggiamento nemico. Il numero scese poi a ottanta colpi e infine, nella seconda settimana di luglio, a venti colpi al giorno. I turchi non ebbero difficoltà a comprendere le mancanze logistiche dei veneziani, e incrementarono ulteriormente il loro bombardamento giornaliero (e notturno) sulla fortezza. La carenza di polvere da sparo viene confermata dal Capitano Matteo da Capua, che il 28 ottobre del 1571 scrive a Marcantonio Barbaro, bailo di Venezia a Costantinopoli, perché interceda per la sua liberazione: «però essendosi noi accorti che havendo tirrati 1500 tirri fra notte et di in 8 giorni havevimo consumati 4000 barilli di polvere, s’incominciò andar un poco più posato, essendosi fatto il calcolo della polvere et quel che poteva bastare.» |
Dopo che il Bragadin ebbe letto questa lettera, che gli portò un grandissimo dolore, pregò il vescovo di celebrare la messa e amministrargli la santissima Eucarestia. Essendosi il Bragadin accostato all’altare per riceverla, e fra le altre preghiere avendo egli recitato il santo Vangelo, si inginocchiò ai suoi piedi ed esplose in un pianto dirotto. E mentre le molte persone attorno a lui attendevano la dichiarazione di resa, egli disse:
«Rendo somme grazie a voi tutti, cittadini leali e coraggiosi, per la tanta fedeltà e il valore dimostrati in modo così solerte. Ho avuto modo di conoscere queste vostre qualità in un periodo grave e pericoloso, per cui a voi prometto che sarò buon testimone presso il Doge e il nostro Senato, e che, non appena lo verrà a sapere, vi porgerà i ringraziamenti che meritano la vostra somma virtù e la vostra ammirabile dedizione nei confronti della Repubblica Veneta.
Sono poi convinto che siate a conoscenza del fatto che la Repubblica non ci abbia abbandonati. Pensarlo sarebbe più che assurdo, poichè a breve manderà in nostro aiuto una fortissima armata, numerosa e potente, formata non solo dalle nostre forze, ma anche da quelle del sommo Pontefice e del Re cattolico, che legati da una stretta alleanza stanno per unire le loro armate a quella veneta.
Per questo vi prego e scongiuro, per la fede di Cristo e per la vostra fedeltà e virtù, che vogliate aspettare l’aiuto per altri quindici giorni, e se in questo spazio di tempo non avremo aiuti, allora stabiliremo e faremo ciò che sarà necessario. Non è da dubitarsi che la forza e magnanimità da voi dimostrata in tante battaglie vi permetterà di ottenere buone condizioni di resa quando vorrete ad esse dedicarvi. Agite dunque, generosissimi uomini di Salamina, e cogliete una tanto bella occasione di ottenere una gloria immortale e, se ne avete, lasciatevi alle spalle la paura. Come assicura il supremo comandante della truppa, Astorre Baglioni, la città per molti altri giorni può sostenersi con l’aiuto divino, e la vostra ottima esperienza nelle cose militari dovrebbe confermarlo.
Le grandi capacità tattiche di Astorre Baglioni |
Come già ricordato, nell’assedio di Salamina le capacità di Astorre Baglioni furono messe in secondo piano a causa dei terribili fatti che seguirono la resa. Tuttavia, egli si dimostrò molto abile sia nella difesa che nelle sortite fuori dalle mura. Un esempio è quanto accadde nel settembre del 1570, appena dopo la caduta di Nicosia. Il Baglioni, intenzionato a rallentare e colpire duro il nemico, organizzò una carovana di 15 carri da utilizzare come esca, nella speranza che i turchi li attaccassero pensando fossero rifornimenti. Ovviamente, i carri erano pieni di soldati e nei dintorni stazionavano altri soldati, fanti e cavalieri, che dovevano schiacciare i turchi in una morsa mortale. Purtroppo ci fu un imprevisto: Francesco Francavilla, ufficiale di cavalleria, scambiò un asino che pascolava lì intorno per il mezzo di una spia nemica e gli sparò con l’archibugio. I turchi, diretti ai carri, si allarmarono, e Astorre Baglioni fu costretto ad anticipare l’attacco. Nella scaramuccia morirono cento cristiani e duemila turchi. Il povero Francavilla, il cui errore sarebbe potuto costare molto più caro ai soldati cristiani, fu ucciso da una cannonata nel prosieguo dell’assedio. |
Se ciò non fosse vero, come invece lo è a tutti gli effetti, anche noi che affrontiamo le stesse difficoltà, gli stessi ed altri lavori, gli stessi turni di guardia, e a cui come a ogni altro è cara la vita (come deve essere) propenderemmo per la resa e la consiglieremmo agli altri.
Ma ora sentiamo di dover agire, vigilare e sforzarci per il bene comune, e di difendere la città da crudelissimi nemici, affinché continui a rimanere incolume. Siamo saldi nel primo parere, e speriamo che a breve giungano gli agognati aiuti. Se continuerete la difesa con noi, le vostre ultime fatiche, le vigilie e gli spasimi si convertiranno in felicità e sommo conforto.»
Subito il popolo acclamò le parole dell’amato e generoso Bragadin, e tutti gridarono a voce alta che sarebbero stati pazienti ad attendere non solo quindici, ma ancora venti e più giorni, purchè si potesse difendere la città; e celebrata l’eucarestia ciascuno tornò al suo posto.
Il rapporto di Nestore Martinengo |
Nel 1571 andò in stampa a Venezia la Relatione di tutto il successo di Famagosta: Dove s’intende minutissimamentente tutte le scaramuccie, batterie, mine, et assalti ad essa Fortezza,ossia il rapporto al Doge sui fatti di Salamina consegnato da Nestore Martinengo, che combatté fino all’ultimo nonostante fosse stato ferito due volte nell’ultimo mese di assedio (29 giugno e 9 luglio). Fu lui, fra l’altro, a portare la lettera di resa a Mustafà. Nella citata Relatione, egli elenca con precisione le date dei sei assalti generali scatenati dai turchi durante l’estate del 1571: I) 21 giugno II) 29 giugno III) 9 luglio IV) 14 luglio V) 30 luglio VI) 31 luglio Stampata in italia innumerevoli volte, nel 1572 la Relatione fu tradotta e stampata anche in francese e tedesco, rispettivamente a Parigi e Augusta. |
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Zwei ma quando si cacciavano le bocche inutili si intende proprio che le mandavano fuori dalle mura e ciao o le rispedivano tipo a casa con le navi che avevano scaricato soldati/rifornimenti?
Quando possibile, li mettevano in salvo via mare, ma spesso le bocche inutili finivano alla mercé del nemico.
Capito, grazie per la risposta.
una curiosità: nell’elenco delle scorte si fa riferimento sempre all’aceto ,era importante per la produzione del rancio?
Se ricordate lo stesso fece Vercigetorige ad Alesia, dove i Civili finirono tra i Valli romani, e lasciati alla merce’ del Nemico.