Astorre Baglioni (conosciuto anche come Astorre II) è stato un fenomenale uomo d’arme, sovraintendente alle fortificazioni, politico e poeta del XVI secolo.
La sua monografia di Astorre Baglioni, contenuta nel volume I Padroni dell’Acciaio (l’immagine di copertina è opera di Francesco Saverio Ferrara, coautore del libro), è stata una delle più sfidanti e, nel complesso, la più emozionante. Non capita spesso, infatti, di imbattersi in un personaggio dal carattere così sfaccettato, capace di unire la violenza della guerra all’amore per la poesia, la temperanza di un grande condottiero agli scoppi d’ira di un giovane ribelle.
L’articolo che troverete fra poche righe è stato tratto interamente dai Padroni dell’Acciaio, ed è relativo a una delle imprese meno conosciute di Astorre Baglioni. A meno di vent’anni, durante il primo periodo di permanenza a Roma, il Baglioni si innamora di Ginevra Salviati, nipote di Caterina de’ Medici (che sarà Regina di Francia). L’amore è pienamente ricambiato, ma Astorre appartiene alla nobiltà provinciale e manca del patrimonio richiesto per chiedere la mano di una Salviati. Per fare bottino e accrescere il suo patrimonio decide quindi, nel 1550, di partecipare a una spedizione contro le basi del più capace corsaro ottomano, Dragut:
Le finanze del Baglioni però non gli permettono ancora di chiedere la mano di Ginevra Salviati, di cui è rimasto follemente innamorato. I sentimenti profondi che prova nei confronti della donna lo spingono a mettere subito a frutto le capacità che ha maturato nel corso degli ultimi anni.
La sua occasione arriva nell’Aprile del 1550, quando l’Imperatore chiede all’ammiraglio genovese Andrea Doria (ormai ottantaquattrenne) e ai Viceré di Napoli e Sicilia un’azione decisa nei confronti delle basi di Dragut (Turgut Reis), situate sull’attuale costa tunisina. Negli anni precedenti, Dragut ha letteralmente devastato il litorale italiano. Solo tra il 1548 e il 1549 è riuscito a saccheggiare Castellammare di Stabia, Pozzuoli, Procida, Rapallo e Portofino.
Il Baglioni si imbarca su una delle 3 galee – comandate dal gerosolimitano Carlo Sforza, appartenente alla Lingua Italiana e Priore di Lombardia – che attendono il passaggio di Andrea Doria davanti al porto di Civitavecchia. La speranza del Baglioni è quella di poter ottenere un buon bottino e sposare così la sua amata. Vista l’esperienza maturata da Astorre contro gli Ottomani in Ungheria, Carlo Sforza lo nomina comandante della fanteria da sbarco italiana. La flotta giunge nel porto di Napoli il 6 Maggio. La formazione vede Andrea Doria con 20 galee nel centro, a destra Carlo Sforza con i soldati romani (capitanati dal Baglioni) e a sinistra le imbarcazioni di Giordano Orsini con i soldati fiorentini. Gli Italiani rimangono a circa tre miglia dalla costa, in attesa delle navi di Don Garcia di Toledo, figlio del Viceré di Napoli e generale della fanteria.
La flotta napoletana arriva a gran velocità e il Doria fa aprire la formazione per agevolarne il passaggio. A questo punto, Don Garcia prova a passare con la sua ammiraglia fra quella del Doria e quella dello Sforza; una manovra insensata, visto che non c’è spazio sufficiente. La curva disegnata dalla barca napoletana diventa sempre più larga; lo Sforza e il Baglioni urlano insulti dal ponte, ma ormai è troppo tardi, la collisione è inevitabile. Lo scafo di Don Garcia fracassa tutti i remi a babordo della capitana dello Sforza. Insomma Don Garcia, già inviso agli altri ufficiali per la sua arroganza, si presenta nel peggiore dei modi. Come scrive il Guglielmotti: “Minor vituperio sarebbe se il Cane de’ Tartari in carrozza andasse a rompere le gambe d’uno squadrone di cavalleria che stesse a salutarlo in parata”.
La flotta completa prevede un altro contingente, quello guidato da Don Giovanni di Vega, Viceré di Sicilia e generale della spedizione (quindi gerarchicamente superiore sia al Doria che allo Sforza). Il Vicerè di Sicilia rimane però sull’isola e manda a rappresentarlo i due figli Fernando e Alvaro. Giunta a ridosso della costa nordafricana, la flotta deve decidere sul da farsi. Dragut e i suoi sono a razziare le coste sarde e spagnole, quindi bisogna prendere terra, rifornirsi di acqua e occupare qualche posizione strategica. Alla fine, è proprio Astorre Baglioni a suggerire la soluzione migliore: prendere il forte di Monastero (Monastir).
“Astorre consigliò che almeno si prendesse Monasterio […] Questo consiglio portato al Principe (Doria) dal Priore (Carlo Sforza) come cosa propria di Astorre, fu trovato molto buono da tutti.”
Il forte sorge infatti su una penisola poco a sud di Susa, e prende il nome dal monastero che l’ha occupata dal II secolo fino alla conquista araba. Il dato più rilevante è che lo riforniscono due sorgenti d’acqua. I Cristiani bombardano il forte da terra e dal mare, facendo crollare il mastio, e vanno all’assalto. Uccidono tutti i corsari barricati all’interno e fanno prigionieri gli abitanti. Bisogna sottolineare che, oltre a partorire l’idea, Astorre Baglioni ha preso su di sé l’onere di effettuare la sortita: “Astorre guidò le genti italiane che erano sulle galere del Papa, ed in breve tempo prese Monasterio”. Le perdite di vite cristiane sono minime, solo 10 morti, ma 2 galee colano a picco a causa dell’esplosione di alcuni pezzi d’artiglieria.
Grazie all’intuizione di Astorre Baglioni, dunque, nel Giugno 1550 l’intera flotta può rifornirsi d’acqua in tutta tranquillità e inizia a stazionare presso i due scogli conosciuti come Le Conigliere, 8 miglia a levante di Monastero. Alcuni vascelli raggiungono anche a La Goletta, occupata dagli Spagnoli quindici anni prima e difesa da un forte presidio. Al comando della guarnigione si trova Don Luigi Perez di Vargas, molto esperto di guerra e usanze nordafricane. Egli assicura al Doria tutto il supporto possibile – a patto che questo non pregiudichi la difesa de La Goletta – e gli consiglia di esortare il Vicerè di Sicilia a guidare la spedizione in prima persona.
Così, con Dragut ancora lontano, la flotta si sposta a Trapani per imbarcare Don Giovanni. A creare problemi rimane solo Don Garcia, che teme una diminuzione del suo potere decisionale a causa dell’arrivo del Vicerè; minaccia addirittura di abbandonare la spedizione e inseguire Dragut in giro per il Mediterraneo, ma alla fine accetta di formare un triumvirato con Don Garcia e Andrea Doria. Il 24 Giugno, partono da Napoli 52 galere, 28 navi, 40 pezzi d’artiglieria da campo e 4.000 uomini. Fra di loro c’è sempre il Baglioni, che già con la presa di Monastero si è garantito un discreto bottino; l’altare e la figura elegante di Ginevra Salviati gli sembrano già più vicini.
Dopo due giorni di navigazione la flotta cristiana è nelle acque antistanti la fortezza di Mehedia, conosciuta anche come Africa (in tutte le cronache, compresa quelle del Bosio, si parla infatti di Città d’Africa). Barricati al suo interno ci sono 1.300 veterani turchi guidati da Assan-reis, nipote di Dragut; i Turchi hanno anche ricevuto 2 galee di soccorso da Alessandria (arrivate senza incontrare resistenza nei giorni in cui la flotta cristiana si è spostata a prendere il Vicerè di Sicilia!). Dalla terraferma arrivano buone notizie: la città è isolata dall’entroterra perché Arabi, Beduini e Mori sono tutti dalla parte del governatore de La Goletta, e quindi dei Cristiani. All’alba del primo Luglio, il triumvirato ordina di martellare le mura con l’artiglieria. 26 bocche da fuoco tuonano all’unisono per giorni, ma la seconda cinta muraria, difesa dalle macerie della prima, crollata quasi subito, resiste.
I veterani turchi riescono inoltre a effettuare delle sortite ben organizzate contro le linee cristiane e causano un notevole scompiglio. Dopo dieci giorni i triumviri si accordano per tentare un assalto notturno. Un manipolo di soldati raggiunge la cinta esterna e pianta sette bandiere. Poi prosegue per il rivellino (fortificazione esterna alle mura che di solito protegge un ingresso al forte), convinto di poterlo far suo. I Turchi però sono in attesa nel buio. Del manipolo fanno parte 20 cavalieri di Malta, che sono i primi a finire massacrati. In tutto rimangono sul campo un centinaio di Cristiani.
Astorre Baglioni è testimone del malumore che inizia a circolare nell’armata. Alcuni soldati vogliono ritirarsi a La Goletta, altri in Sicilia, altri ancora provare a fare bottino presso qualche presidio turco meno resistente. Anche l’arrivo di nuove artiglierie dalla Sicilia e di avventurieri italiani da tutta la penisola, fra cui Giovanni Battista del Monte, nipote del Papa, non muta la situazione. Il forte turco resiste e, quando ne ha l’occasione, colpisce duramente. Il 20 Luglio, Carlo Sforza è costretto a scortare a Trapani 5 galee stracolme di malati e feriti. Da lì, il Priore di Lombardia arriva fino a Roma per aggiornare in prima persona il Papa sull’andamento dell’assedio. Dai mercenari spagnoli indolenti, ai comandanti inesperti, fino a Don Garcia, che passa tutta la giornata a giocare a carte sulla galea o nel bordello a terra, lo Sforza non salva quasi nessuno.
In Africa, nel frattempo, la fanteria italiana si trova spesso ad affrontare le imboscate di Arabi e Beduini, che dovrebbero essere alleati dei cristiani. Alcuni di loro hanno ceduto alle minacce, alternate a promesse e lusinghe, di Dragut. La banda araba più temuta, composta da 10 cavalli e 30 fanti, è guidata da un Cavaliero africano completamente vestito di bianco. Il giorno successivo alla partenza dello Sforza, vi si imbattono Astorre Baglioni e Giordano Orsini.
A fronte dei pochi progressi nell’assedio, i due decidono di accompagnare una squadra di taglialegna nell’entroterra, cogliendo l’occasione per osservare le particolarità della campagna africana. Sulla via del ritorno, l’Orsini nota alcuni volatili variopinti; ha la (sciagurata) idea di prendere l’archibugio a ruota e allontanarsi dal gruppo per cacciarne uno. Concentrato a prendere la mira, l’Orsini non si accorge che qualcuno è a pochi metri da lui. Il Cavaliero africano lo disarciona e lo ferisce a un braccio; il capitano fiorentino annaspa sul terreno cercando di reagire, ma il Cavaliero alza la scimitarra ed è pronto a colpire. Quando alza la testa, vede arrivare il Baglioni al galoppo, la spada sguainata. L’africano salta sul suo destriero, prende anche quello dell’Orsini, e fugge via. Astorre Baglioni però gli rimane alle calcagna, e alla fine il Cavaliero è costretto a lasciar andare il cavallo appena rubato per fuggire più velocemente.
Il grande nemico della flotta cristiana, Dragut, ha passato diverse settimane ad attaccare le coste europee nella speranza di distogliere il Doria e gli altri dall’assedio. Il suo piano però non ha successo, anche perché, sbarcato sulla costa occidentale della Sardegna con migliaia di uomini, è costretto a darsi alla fuga dopo un assalto degli isolani, che provoca la morte di 400 Turchi. Dragut ritorna quindi verso l’Africa e usa tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione. Ancora una volta fa piovere sui regnanti locali minacce e grandi promesse, che alla fine gli valgono un esercito composto da 3.700 Mori e 800 veterani turchi. Un suo messaggero raggiunge a nuoto la fortezza difesa dal nipote, annunciando a quest’ultimo che i rinforzi arriveranno via terra il 25 Luglio. Il corsaro è di parola, perché la mattina del 25 i suoi uomini sono molti vicini al forte. 750 soldati spagnoli, che stanno facendo da scorta a guastatori e taglialegna, rallentano l’avanzata di Dragut. I
l nipote di questi, osservando la scena dalle mura, ordina una sortita dei suoi, ma le forze cristiane lo respingono anche grazie alle “artiglierie minute” mobili da campagna (posizionate su carretti facilmente spostabili) e ai “bei tiri di rimbalzo delle galere a distanza di più che due miglia“. Dragut (che 15 anni dopo sarà presente all’Assedio di Malta) fa una fredda valutazione delle forze in campo e capisce che il suo esercito raccogliticcio non può avere ragione delle forze europee. Decide quindi di sciogliere le milizie arabe e tornare a Gerba con i suoi Turchi. Il 10 Settembre 1550 tutta l’armata cristiana è pronta all’assalto finale.
Lo Sforza e l’Orsini coordinano le artiglierie delle galee italiane, mentre tutti i soldati italiani (romani, genovesi, toscani, napoletani) seguono gli ordini di Astorre Baglioni sulla terraferma. Si unisce agli italiani anche il futuro Gran Maestro dell’Ordine Claude de la Sangle con 400 soldati e Cavalieri. Per tutta la mattina, l’artiglieria spiana gli ultimi ruderi delle mura, poi suonano le trombe dell’assalto.
Tre colonne di soldati attaccano le brecce, quella guidata dal Baglioni e da La Sangle si muove per prima fra le rovine. La testa del contingente, composta in gran parte da ufficiali, riceve la prima scarica degli archibugieri africani e conta circa 20 morti. Italiani e Cavalieri non si fermano; quando si passa all’arma bianca, riescono ad avere la meglio e a penetrare nel forte. Le altre due colonne incontrano maggiore resistenza, ma alla fine prendono anche il rivellino, difeso fino alla morte da Assan-rais. L’impresa è riuscita, e tutti i comandanti cristiani non possono che riconoscere i grandi meriti di Astorre Baglioni.
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Ma alla fine l’ha impalmata sta Ginevra ?
Puoi scommetterci!
Certamente
Ahahahhahahahahahahahaha e dopo tutto sto casino speriamo de sì
Ma tutto questi uomini, romani, genovesi, toscani, napoletani, siciliani, spagnoli, etcc… in che lingua parlavano fra loro? immagino coordinare questa babele non fosse semplice.
Un misto di italiano e spagnolo, che poi erano la base della Lingua Franca Mediterranea, parlata in tutti i porti fino dal XIII al XIX secolo.
Un esperanto ante litteram 🙂
Sì, penso che ci sia più di un legame tra la lingua franca mediterranea e la creazione dell’esperanto!
Forse parlavano il sabir la lingua franca del Mediterraneo di quel epoca ,che aveva come base l italiano e lo spagnolo ma era ricca anche con parole di catalano ,arabo,greco e turco.
Senza dubbio
Ricordiamo che l’Italiano era già lingua prima dell’Italia.
E che fu lingua commerciale, artistica e diplomatica a lungo: ancor oggi nelle lingue barbariche di riconoscono i termini commerciali FRAGILE, o quelli artistici FORTE,VIVACE, FORTISSIMO, e FRESCO (per dire affresco). Infine in diplomazia PERSONA NON GRATA.
E di lingua genovese