Il genocidio bengalese (ossia degli abitanti del Bangladesh) del 1971 è uno degli eventi più tragici della storia contemporanea, che vede la luce tra le ombre di tensioni politiche, culturali e sociali accumulate nel corso di secoli. Comprendere le radici di questo conflitto è essenziale per riuscire a farsii un’idea delle tensioni e violenze costanti tra India e Pakistan.
Contesto Storico e Fattori Scatentanti
Per prima cosa, ci tengo a precisare che cercherò di semplificare al massimo una questione davvero complessa e che, in realtà, nasce con le infinite guerre tra stati islamici e indù nel subcontinente indiano e si acuisce sotto il governo britannico. Iniziamo quindi dal 1947, ossia dalla divisione dell’India che segna la fine del dominio coloniale britannico e la nascita di due nuove nazioni: l’India e il Pakistan. Quest’ultimo, creato come stato per i musulmani del subcontinente, è diviso in due ali geograficamente separate da oltre 1.600 chilometri di territorio indiano: il Pakistan Occidentale (attuale Pakistan) e il Pakistan Orientale (attuale Bangladesh).
Le differenze tra le due regioni del Pakistan sono profonde e radicate. Il Pakistan Orientale è abitato prevalentemente da bengalesi, che parlano il bengalese e hanno una ricca tradizione culturale e letteraria. Il Pakistan Occidentale è dominato da punjabi e sindhi, con lingue e culture differenti, e perde quasi subito le minoranze cristiane e indù, che preferiscono spostarsi in India.
Economicamnete, il Pakistan Orientale contribuisce significativamente al bilancio nazionale grazie alle sue esportazioni di juta e riso, ma riceve solo una minima parte degli investimenti governativi. Questa disparità economica alimenta un crescente malcontento tra la popolazione del Pakistan Orientale, che si sente sfruttata e marginalizzata. A questo si aggiunge il forte sentimento anti-induista dei pakistani occidentali, quasi al 100% di religione islamica, che vendono nella minoranza induista del pakistan orientali un corpo estraneo e pronto al tradimento.
Le elezioni del 1970 rappresentano un punto di svolta. La Lega Awami, guidata da Sheikh Mujibur Rahman, vince una schiacciante maggioranza di seggi nel Pakistan Orientale, conquistando anche 167 dei 313 seggi disponibili in tutta l’Assemblea pakistana (quindi occidentale e orientale). Questo successo conferisce alla Lega Awami il diritto di formare il governo nazionale, ma le autorità del Pakistan Occidentale, dominate dal generale Yahya Khan e dal presidente Zulfikar Ali Bhutto, esitano a cedere il potere.

La situazione degenera rapidamente. Le richieste del Pakistan Orientale per una forte autonomia regionale maggiore sono ignorate, e le tensioni politiche sfociano in violente proteste e scontri. Il 7 marzo 1971, Sheikh Mujibur Rahman pronuncia un discorso storico a Dhaka, incitando i bengalesi a prepararsi per una lotta di liberazione. La situazione è letteralmente esplosiva.
Il 25 marzo 1971, il governo pakistano lancia l’Operazione Searchlight, una campagna militare brutale mirata a sopprimere il movimento indipendentista nel Pakistan Orientale. Le forze armate pakistane attaccano Dhaka con estrema violenza, dando inizio a una serie di atrocità che sconvolgono il mondo. In questo clima di terrore, le differenze politiche e culturali si trasformano in una guerra aperta, gettando le basi per uno dei genocidi più devastanti del XX secolo.
Operazione Searchlight
Come abbiamo appena detto, il 25 marzo 1971, con l’Operazione Searchlight, ha inizio uno dei capitoli più oscuri della storia del subcontinente indiano. Le forze armate pakistane, sotto la direzione del generale Tikka Khan, scatenano una violenza sistematica e calcolata per eliminare ogni forma di resistenza nel Pakistan Orientale. La città di Dhaka diventa il primo bersaglio di un’operazione militare spietata che mira a distruggere le strutture politiche, intellettuali e culturali del Bangladesh.
Nelle prime ore dell’operazione, le truppe pakistane assaltano l’Università di Dhaka, massacrando studenti e docenti. I principali obiettivi sono le residenze studentesche e i dipartimenti universitari, simboli del pensiero critico e della resistenza intellettuale. I leader politici della Lega Awami vengono arrestati o uccisi, e i media silenziati per impedire che la verità degli eventi raggiunga il resto del mondo.
Le atrocità commesse durante l’Operazione Searchlight sono solo l’inizio di una campagna di terrore che si diffonde rapidamente in tutto il Pakistan Orientale. Le forze armate pakistane, supportate da milizie locali conosciute come Razakar, lanciano una serie di attacchi indiscriminati contro civili bengalesi, con l’obiettivo di schiacciare qualsiasi forma di opposizione.
Le uccisioni di massa diventano una tragica realtà quotidiana. Villaggi interi vengono rasi al suolo, e le persone vengono brutalmente assassinate. Stime approssimative indicano che tra 300.000 e 3.000.000 di persone (probabilmente una cifra intorno al milione è la più realistica) perdono la vita durante il conflitto, con la maggior parte delle vittime appartenenti alla popolazione civile. A essere più colpiti sono i bengalesi di fede induista, accusati di essere traditori del Pakistan e del credo islamico.
Uno degli aspetti più orribili del genocidio è l’uso sistematico dello stupro come arma di guerra. Oltre 200.000 bambine donne bengalesi indù vengono violentate dalle forze armate pakistane e dai loro alleati. Questi atti di violenza sessuale sono progettati per terrorizzare e umiliare la popolazione bengalese, lasciando cicatrici profonde che perdurano per generazioni.
Susan Brownmiller parla di una stima che va dalle 200.000 alle 400.000 bambine e donne stuprate. Riporta anche una testimonianza molto simile a centinaia di altre riportate dalle fonti dell’epoca:
Khadiga, tredici anni, è stata intervistata da un fotoreporter a Dacca. Stava andando a scuola con altre quattro ragazze quando sono state rapite da una banda di soldati pakistani. Tutte e cinque sono state messe in un bordello militare a Mohammedpur e tenute prigioniere per sei mesi, fino alla fine della guerra.
Le testimonianze dei sopravvissuti e i reportage internazionali rivelano l’orrore e l’intensità della repressione. Fotografie, video e racconti di prima mano dipingono un quadro di devastazione e sofferenza che scuote la coscienza globale. Nonostante gli sforzi del governo pakistano per censurare le informazioni, la verità emerge lentamente, attirando l’attenzione e la condanna della comunità internazionale.
In risposta alla brutalità delle forze pakistane, si forma un movimento di resistenza determinato e coraggioso. Il Mukti Bahini, o Forze di Liberazione del Bangladesh, diventa il simbolo della lotta per l’indipendenza. Composto da soldati bengalesi disertori, volontari civili e studenti, il Mukti Bahini organizza una guerriglia efficace contro l’esercito pakistano.
Intervento Internazionale e Fine del conflitto
Il genocidio in corso attira inevitabilmente l’attenzione della comunità internazionale, sebbene le reazioni siano inizialmente lente e frammentate. La situazione cambia drasticamente quando il flusso di rifugiati dal Bangladesh verso l’India raggiunge proporzioni allarmanti. Milioni di bengalesi, in fuga dalle atrocità, trovano rifugio nei campi profughi indiani, mettendo a dura prova le risorse del paese che, tra l’altro, non si trova in condizioni economiche particolarmente floride.
L’India, guidata dal Primo Ministro Indira Gandhi, decide di intervenire. Dopo aver tentato invano di ottenere una soluzione diplomatica, l’India mobilita le sue forze armate. Il 3 dicembre 1971, il conflitto sfocia in una guerra aperta tra India e Pakistan. L’intervento indiano è sostenuto quasi esclusivamente dall’Unione Sovietica, mentre USA, UK, Iran e Turchia danno manforte al Pakistan. USA e UK in particolare mandano alcune portaerei in funzione deterrente e intimidatoria, sortendo però pochi effetti. Le truppe indiane, in collaborazione con il Mukti Bahini, avanzano rapidamente, infliggendo pesanti sconfitte all’esercito pakistano. Quanto ai morti militari però, le cifre rimangono piuttosto basse, con circa 15.000 caduti complessivi.
Il 16 dicembre 1971, il Pakistan si arrende. Sono passati appena nove mesi dall’inizio del conflitto. La vittoria di India e Resistenza bengalese non solo segna la fine del conflitto armato, ma anche la nascita ufficiale del Bangladesh come nazione indipendente.

In realtà, il Bangladesh ha dichiarato la propria indipendenza proprio all’inizio delle ostilità, ma è solo dopo la vittoria militare e la capitolazione del Pakistan che questa indipendenza viene riconosciuta a livello internazionale. Sheikh Mujibur Rahman, leader della Lega Awami e figura centrale nella lotta per la liberazione, viene liberato dalla prigionia in Pakistan e ritorna trionfante a Dhaka, dove assume la carica di Primo Ministro del neonato stato.
Molto interessante (ce ne siamo occupati di recente in un post su facebook) la ricerca di giustizia per i crimini commessi durante il genocidio, che diventa una questione centrale per il Bangladesh. Viene istituito il Tribunale per i Crimini Internazionali del Bangladesh, con l’obiettivo di processare e punire i responsabili delle atrocità. Numerosi membri delle forze armate pakistane e collaborazionisti locali, tra cui membri dei Razakar, sono portati di fronte alla giustizia.
Parallelamente, il Bangladesh cerca di mantenere viva la memoria delle sofferenze e dei sacrifici fatti per l’indipendenza. Vengono eretti memoriali e musei, e il 16 dicembre, noto come il Giorno della Vittoria, diventa una festività nazionale di grande importanza. Le iniziative educative e culturali mirano a sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza di ricordare il passato per costruire un futuro migliore.
La comunità internazionale, seppur tardivamente e in modo parziale, riconosce il genocidio e le sue conseguenze. Ad esempio, un assassino come Motiur Rahman Nizami, ex ministro del Bangladesh e leader del partito islamista (giustiziato nel 2016) trova grande sostegno in paesi come la Turchia e, ovviamente, il Pakistan. Il genocidio bengalese non è ancora riconosciuto da USA e Cina.
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