Guerre persiane: una panoramica da Le Storie di Erodoto
Erodoto è stato un aedo in prosa, un antropologo in anticipo sui tempi, uno storico prima della storia. Attraverso la sua opera possiamo rivivere uno dei più affascinanti conflitti dell’antichità. A ventisei secoli di distanza.
Questa è l’esposizione che fa delle sue ricerche Erodoto di Turi, affinché gli avvenimenti umani con il tempo non si dissolvano nella dimenticanza e le imprese grandi e meravigliose, compiute tanto dai Greci che dai Barbari, non rimangano senza gloria; tra l’altro, egli ricerca la ragione per cui essi vennero in guerra tra loro[1].
Con queste parole si aprono le Storie erodotee. Nato ad Alicarnasso intorno al 484 a. C., Erodoto è costretto ad abbandonare la città in giovinezza, a seguito dell’esilio ordinato dal tiranno Ligdami. Nel 444 partecipa alla fondazione di Turi, sorta per volere di Pericle sull’antica Sibari, e ne diviene cittadino. Negli anni viaggia moltissimo: dal mondo greco all’Oriente, dall’Egitto alla Scizia. Da tutte queste esperienze eredita lo sguardo del moderno antropologo che caratterizza la sua opera e gli costa l’accusa di essere philobàrbaros, ovvero amico dei barbari e quindi nemico dei greci. Certamente è un relativista, interessato a diffondere le credenze e i costumi dei differenti popoli con cui si rapporta, senza stabilire universalmente quali siano i migliori, al contrario di quanto avviene intorno a lui: «Poiché, se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo paese»[2]. L’opera erodotea non anticipa solo l’antropologia, ma anche la storia. Come sottolinea il professore Marco Bettalli «Erodoto è storico in un periodo che ancora non conosce la storia: i suoi fini, i suoi metodi e di conseguenza i risultati che ottiene sono molto diversi da quello di uno storico d’oggi»[3]. Bisogna sempre tenere presente questa peculiarità per comprenderne l’estrema valenza. Le Storie, suddivise dai filologi alessandrini in nove libri, hanno una struttura sontuosa e si fondano perlopiù su testimonianze orali. Sono caratterizzate da uno stile limpido ma allo stesso tempo arcaico, frutto di una tradizione assai eterogenea, e da una narrazione discontinua, ricca di digressioni e curiosità. Pur circoscrivendo la sua ricerca a un argomento molto ben delineato, Erodoto riporta un’innumerevole mole di racconti riguardanti le popolazioni trattate, interagendo con la dimensione mitica e affermandosi come un «aedo in prosa, un aedo eccezionalmente dotato»[4]. Proprio nel mito rintraccia l’origine dello scontro tra greci e persiani, attraverso una breve parabola culminante nella guerra di Troia:
Orbene, gli abitanti dell’Asia, dicono i Persiani, non si preoccuparono per nulla delle donne rapite; mentre i Greci, a causa d’una donna spartana, raccolsero una grande spedizione militare e, venuti in Asia, distrussero il regno di Priamo. Da allora, sempre, tutto ciò che è greco è da loro considerato nemico. Poiché i Persiani considerano l’Asia e i popoli che vi abitano come cosa loro, con l’Europa, invece, e con il mondo greco in particolare, ritengono di non aver nulla in comune[5].

I primi quattro libri ricostruiscono in lungo e in largo le vicende del mondo persiano che precedono la guerra. Nel 546 i persiani guidati da Ciro il Grande sconfiggono Creso (il re della Lidia che per primo si era impossessato delle città greche d’Asia Minore), vincolando le poleis asiatiche al pagamento di un regolare tributo e all’assolvimento degli obblighi militari. Circa vent’anni dopo Cambise (figlio di Ciro) conquista l’Egitto. A seguito della sua turbolenta morte i maggiori esponenti della società persiana si dividono su quale sia la migliore forma di governo tra democrazia, oligarchia e monarchia. Del regime monarchico è portavoce Dario, un achemenide figlio di Istaspe:
Nulla, infatti, ci può apparire migliore del comando di un uomo solo, se questo è ottimo; poiché, valendosi appunto d’un ottimo consiglio, può governare il popolo in maniera irreprensibile, e solo così potranno rimanere segrete al massimo le decisioni che riguardano i nemici[6].
Dario I il Grande sale al trono nel 521. Qualche anno dopo avvia una rischiosa spedizione in Scizia, che frutta nuove conquiste per l’impero (tra cui la Tracia), anche grazie al sostegno delle poleis asiatiche. Dal canto loro le città greche non possono lamentarsi più di tanto: nonostante l’imposizione dei tiranni vassalli del Gran Re, conoscono una fioritura agricola, commerciale e artistica eccezionale[7]. Ma le cose sono destinate a mutare perché, in fondo, il volere degli dèi è imperscrutabile, come testimoniato a più riprese anche da Erodoto:
Quello che per volere divino deve accadere, non può l’uomo scongiurarlo, poiché neppure a chi dice cose degne di fede sogliono gli uomini dar retta. Di questo fatto molti di noi Persiani siamo convinti; eppure lo seguiamo, incatenati dalla necessità. Il più tremendo dolore che ci possa essere tra gli uomini è questo: aver molta saggezza e nessuna autorità[8].
La narrazione erodotea è intrisa di fatalismo e il racconto della rivolta ionica, la causa scatenante delle guerre persiane ripercorsa nel quinto libro, ne è uno degli esempi migliori. Nel 500 Aristagora, delegato del tiranno di Mileto Istieo, convince Artaferne, satrapo di Sardi e fratello di Dario, ad assoggettare la ricchissima isola di Nasso. Al fallimento della spedizione, nell’estate del 499, per gravi incomprensioni con i comandanti persiani Aristagora, temendo la furia del Gran Re, decide di deporre la tirannide nella sua città, proclamando l’isonomia e innescando la ribellione. Sostenuta da Istieo, nel frattempo detenuto a Susa e desideroso di tornare in patria[9], la rivolta si diffonde in tutte le poleis dell’Asia Minore, che rovesciano i loro reggitori. Durante l’inverno Aristagora si dirige in Grecia in cerca di sostegno. Dopo essere stato respinto dal re spartano Cleomene I, indispettito dalle richieste milesi, viene accolto favorevolmente dalla democratica Atene, permettendo a Erodoto di ironizzare: «A quanto pare, dunque, è più agevole trarre in inganno una moltitudine che un uomo soltanto»[10]. Un inganno perpetrato da Istieo e Aristagora per motivazioni personali e «fonte di sventure per i Greci e per i Barbari»[11]. Dal racconto erodoteo, infatti, emerge la convinzione dell’autore per cui senza questa sollevazione improvvisata i persiani non si sarebbero mai riversati in Grecia e avrebbero evitato la guerra per il bene di tutti[12].
E invece il conflitto scoppia eccome. In una primissima fase, gli insorti sembrano prevalere, con la propagazione dell’insurrezione anche tra popolazioni non greche, come i cari e i ciprioti. Il punto culminante è l’attacco ionico contro Sardi, sostenuto da Atene ed Eretria, che porta alla distruzione del tempio di Cibele e al ritiro della guarnigione persiana sull’acropoli. Ma dal 497 Dario prende in mano la situazione e i persiani recuperano progressivamente i territori perduti. Nel 494 Mileto viene espugnata «da cima a fondo» e la popolazione è fatta schiava[13]. L’anno successivo vengono abbattute le ultime resistenze greche, attraverso una repressione spietata. Ma è solo l’inizio. Del resto ormai il Gran Re deve necessariamente invadere la Grecia, sia per espandere il suo regno, ma soprattutto per dare l’esempio a chi ha osato sfidare la sua autorità, ateniesi ed eretriesi in primis. Dopo un fallimentare tentativo nel 492, nell’estate del 490 l’esercito persiano conquista Eretria e sbarca in Attica. Ad attenderlo, presso la pianura di Maratona, ci sono i novemila opliti ateniesi e i mille platesi guidati da Milziade, il re del Chersoneso tracico, da sempre ostile all’egemonia persiana e costretto ad abbandonare la sua terra a seguito dei recenti avvenimenti. Poco prima Milziade si era battuto arditamente per combattere e non sottomettersi agli invasori, ottenendo dagli altri strateghi il comando totale, attraverso un’esortazione da brividi all’arconte polemarco Callimaco:
Sta in te ora, o Callimaco, provocare l’asservimento di Atene o assicurarle la libertà […] Poiché ora gli Ateniesi sono giunti al momento più pericoloso della loro esistenza […] Se tu ti accosti al mio modo di vedere, ecco che già la patria nostra è libera e la prima fra le città della Grecia; se, invece, preferisci la parte di quelli che decisamente sconsigliano la lotta, sappi che accadrà il contrario[14].
L’esito della battaglia è del tutto inaspettato: gli ateniesi ottengono una vittoria sconvolgente, che impone ai nemici di ritirarsi e infonde grande speranza alla giovane democrazia. Gli anni Ottanta vedono il consolidamento del modello sociale, iniziato pochi decenni prima con Clistene, attraverso mutamenti significativi. Milziade, l’eroe di Maratona, viene condannato e allontanato dalla città «per aver ingannato gli ateniesi»[15], a seguito del fallimento della campagna di conquista delle Cicladi. È l’inizio della dinamica interna ad Atene per cui i cittadini sono sempre pronti a giudicare in maniera fredda e distaccata i propri capi. Tuttavia l’ascesa di Cimone (figlio di Milziade) nell’immediato dopoguerra, mostrerà come questo non sia un processo chiuso e dunque rancoroso, bensì dinamico e desideroso di giustizia (seppur criticabile). Inoltre dal 488 entra in vigore l’ostracismo, ovvero l’esilio di personalità pubbliche stabilite dal popolo, attraverso la votazione sull’òstrakon (“coccio”) che colpisce Aristide, lasciando al suo rivale Temistocle il controllo della città.

Per l’impero persiano la sconfitta di Maratona è un rallentamento di una vittoria che appare comunque inevitabile. L’adirato Dario medita immediatamente vendetta, ma muore nel 486. Gli succede il figlio Serse I, che dopo la riconquista dell’Egitto concentra le sue attenzioni sulla Grecia, prevedendo l’assoggettamento dell’intera penisola. È un disegno grandioso, divino come il suo architetto, che nel 491 porta un flusso impressionante di persone e animali a superare l’Ellesponto attraverso due fatidici ponti di barche. La presunta divinità del Gran Re è testimoniata dalla sua teatralità, affascinante e spietata allo stesso tempo, che lo fa ergere al di sopra della natura e dei limiti umani. Erodoto narra che, a seguito del fallimento della prima costruzione dei ponti, Serse:
Irritato contro l’Ellesponto, ordinò che lo si flagellasse con 300 colpi di sferza e si calasse in mare un paio di ceppi. Ho pure sentito dire che, insieme con i flagellatori, Serse mandò anche dei marchiatori, perché bollassero a fuoco l’Ellesponto[16].
Nella primavera del 480 i persiani sono a un passo dalla Tessaglia. La Grecia è spaccata: da un lato le realtà delle anfizionie e degli stati etnici (beoti, focidesi, locresi, tessali), ben volenterosi di venire a patti con il Barbaro; dall’altra il fiero mondo delle poleis, non curante dell’incredibile disparità di forze. Quello che si prefigura non è soltanto uno scontro tra due civiltà, ma anche un conflitto interno alla stessa Grecia. Il fronte bellico si compatta a Corinto, dando vita a una Lega ellenica. Per rafforzare questo processo salgono in cattedra i leader delle città più rappresentative. Tra luglio e agosto il re spartano Leonida, a capo di trecento spartiati scelti (sostenuti da locresi e focidesi), guida la difesa del passo delle Termopili. La celebre impresa è onorata dal Frammento 531 di Simonide:
Di coloro che morirono alle Termopili
la sorte è gloriosa, bello il destino,
e un altare è la tomba, al posto dei gemiti il ricordo, e il compianto è lode.
Una tale veste funebre la ruggine
non oscurerà, o il tempo che tutto doma.
Questo sacro recinto d’eroi scelse ad abitare con sé
la gloria della Grecia. Testimone è Leonida,
il re di Sparta, che un grande ornamento di valore ha lasciato,
e una fama perenne[17].
Quando la strenua resistenza delle Termopili, capace di bloccare per giorni l’esercito persiano, viene meno, le truppe che contemporaneamente stanno combattendo per mare a Capo Artemisio si ritirano. Per Serse la strada è spianata: ad agosto Atene viene saccheggiata e la sua acropoli data alle fiamme, vendicando la distruzione del tempio di Cibele a Sardi. Per i greci sembra essere il punto di non ritorno, ma Temistocle, forte del precedente responso dell’oracolo delfico, rinsalda i cuori titubanti degli ellenici e li convince a combattere un’ultima disperata volta. Nel settembre del 480 sembra di tornare indietro nel tempo e rivivere l’impresa di Maratona. La flotta greca (comandata da Temistocle e dallo spartano Euribiade) sconfigge quella persiana a Salamina, in uno scontro dall’esito che ha ancora più del clamoroso rispetto a quelli precedenti. La portata tragica dell’evento è resa dai Persiani di Eschilo, che si chiude con un lugubre canto del popolo sconfitto:
Serse: Piangete in molle cadenza di passi!
Coro: Iò iò terra persiana!
Terra degna di cupo latrato!
Serse: Eh eh! Morti su navi,
eh eh, morti su navi a tre file di remi!
Coro: Ti scorterò con lugubri lamenti[18].
Per i greci è una vittoria epocale, consolidata da ulteriori piccoli successi contro gli alleati del Gran Re. I persiani non ponderano la resa, e danno vita alla terza fase della guerra. Mardonio, genero di Serse, cerca un approccio diplomatico con le poleis. Ma ormai, e seppur per poco, il mondo greco è unito nella sua identità contro il barbaro. La risposta degli ateniesi alla proposta di alleanza dell’ambasciatore persiano è emblematica in questo senso:
Poiché molte e gravi sono le ragioni che ci impedirebbero di agire in tal modo, anche se lo volessimo; prima di tutte, e la più importante, è che le statue e le dimore degli dèi, incendiate e ridotte a un cumulo di rovine, ci impongono il dovere di punire, con la massima severità possibile, colui che queste empietà ha perpetrato, piuttosto che venire ad accordi con lui; in secondo luogo, tutto ciò che costituisce la patria greca: medesimo sangue e medesima lingua, santuari in comune, riti sacri e costumanze uguali; tradire tutto ciò non sarebbe conveniente per gli Ateniesi. Mettetevi bene in mente questo, se già prima non lo sapevate: fino a che anche un solo Ateniese avrà vita, noi non faremo mai pace con Serse[19].
Segue la decisiva vittoria di Platea nella tarda estate del 479. Inizia la riscossa greca fino a che la guerra da difensiva non diviene offensiva. Nel 478 la flotta ellenica invade l’Ellesponto, poi gli ateniesi riconquistano Sesto, vincendo la battaglia di Micale. A questo punto la narrazione erodotea si interrompe. Le Storie si chiudono di colpo, ma con vari giudizi disseminati nel corso del testo: la condanna della rivolta ionica, il riconoscimento della tracotanza come principale causa della sconfitta persiana, il miglior esito possibile (per un greco) del conflitto, il merito principale riconosciuto agli ateniesi. A metà del settimo libro Erodoto si sente «in obbligo di esprimere un parere» sulla vicenda, insistendo sulla centralità di Atene per le sorti di tutta la Grecia:
Orbene, chi dicesse che gli Ateniesi furono i salvatori della Grecia, non sarebbe lontano dal vero: poiché, a qualunque dei due partiti essi si fossero volti, da quella parte doveva traboccare la bilancia; quindi, avendo preferito che la Grecia sopravvivesse in libertà, fatta questa scelta, furono essi che svegliarono dal torpore tutti gli altri Greci che non tenevano per i Medi; essi, dopo gli dèi naturalmente, che ricacciarono il re[20].
Al di là dei diversi pareri morali possibili, sul piano politico gli ateniesi si affermano come vincitori e rafforzano la propria egemonia. Ma proprio le grandi fortune si pongono alla base dei nuovi problemi che emergeranno nei decenni successivi e culmineranno nello scontro aperto contro Sparta. Del resto se le guerre persiane determinano l’unità mitica di tutta la Grecia, la guerra del Peloponneso (431-404) ne sancirà l’irrimediabile rottura. Beffardo è il volere degli dèi.
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Note
Erodoto, Le Storie, Proemio, Oscar Mondadori, Milano 1988, p. 29. ↑
Ivi, III, 38, p. 285. ↑
Marco Bettalli, Erodoto, in Introduzione alla storiografia greca, Carocci editore, Roma 2016, p. 54. ↑
Ivi, p. 52. ↑
Erodoto, I, 4, p. 31. ↑
Ivi, III, 82, p. 311. ↑
Cfr: Flavio Raviola, Le guerre persiane, in Storia greca, EdiSES, Napoli 2015, p. 136. ↑
Erodoto, IX, 16, p. 809. ↑
Il racconto di Erodoto in proposito è molto curioso. Lo storico, infatti, sostiene come parallelamente al fallimento della spedizione di Nasso, Istieo stesse già pensando di innescare la rivolta. Per questo aveva inviato ad Aristagora un messo con il segnale della defezione direttamente tatuato sulla testa, così da sfuggire agli onnipresenti controlli persiani. Cfr: Erodoto, V, 35, p. 472. ↑
Erodoto, V, 97, p. 509. ↑
Ibidem. ↑
Cfr: Raviola, p. 137. ↑
Aristagora era morto nel 497, nel tentativo di fondare una colonia in Tracia, mentre Istieo viene fatto uccidere da Artaferne proprio nel 494. Cfr: Erodoto, pp. 522, 537. ↑
Erodoto, VI, 109, p. 582. ↑
Erodoto, VI, 136, p. 596. ↑
Ivi, VII, 35, p. 624. ↑
Simonide, frammento 531, cit. in Raviola, pp. 155-156. ↑
Eschilo, Persiani, in Il teatro greco. Tragedie, BUR, Milano 2014, p. 100. ↑
Erodoto, VIII, 144, pp. 796-797. ↑
Ivi, VII, 139, p. 665. ↑
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