La Battaglia del Golfo di Leyte (1944)

La battaglia del Golfo di Leyte (23-26 Ottobre 1944) rappresenta un evento fondamentale dello scontro tra USA e Giappone nel corso della Seconda Guerra Mondiale.

La Battaglia del Golfo di Leyte: la controversa fine della Flotta Imperiale

La convinzione di poter decidere il corso di una guerra con una singola azione decisiva è tema ricorrente nella storia militare, spesso motivo non secondario per il quale governanti decidono di prendere la via delle armi, fiduciosi nella possibilità di un rapido, indolore e vittorioso esito del conflitto. Negli anni ‘30 del Novecento, il Giappone Imperiale andava preparandosi all’eventualità di uno scontro militare con gli Stati Uniti, scontro il cui esito – si pensava – avrebbe potuto essere deciso proprio da una singola, colossale battaglia tra le rispettive flotte: uno scontro di artiglierie tra corazzate, che gli strateghi nipponici progettarono di combattere sotto le migliori condizioni possibili, con navi, tattiche ed armamenti innovativi.[1]

Nell’autunno del 1944 questi discorsi hanno oramai poca importanza: a tre anni dall’inizio del conflitto, l’Impero è sotto assedio da ogni lato. L’aviazione, non la corazzata, è diventata l’arma centrale della guerra sui mari, e a Tokio l’hanno compreso prima di molti altri, specie nel tentativo di assicurarsi una vittoria decisiva a Pearl Harbour. Da lì, numerosi piccoli e grandi scontri tra le due flotte, e una guerra che mese dopo mese si fa sempre più di attrito, attrito con il quale l’industria nipponica non tiene il passo. Infine, nell’ultima primavera, l’avanzata statunitense ha messo in pericolo il perimetro interno delle difese imperiali, e la flotta giapponese è uscita al completo: il grande scontro aeronavale passato alla storia come Battaglia del Mar delle Filippine è quello che più si avvicina al tanto teorizzato scontro decisivo, seppur combattuto a colpi di incursioni aeree, e si conclude con la grave menomazione dell’aviazione imbarcata nipponica.

Così, quando in ottobre le flotte da sbarco americane vengono avvistate avvicinarsi alle Filippine occupate, la flotta giapponese manca oramai della sua arma più importante, le portaerei, le quali sono ancora in attesa dell’addestramento di nuovi gruppi imbarcati.[2] La situazione è critica: perdere le Filippine vuol dire perdere il collegamento tra il Giappone e Singapore, da cui dipende l’approvvigionamento del petrolio imperiale; per Tokio, perdere le Filippine equivale a perdere la guerra.[3] Iniziare a pensare alla resa come strada per evitare ulteriori inutili sofferenze non è però un’opzione che i comandi giapponesi si vogliono concedere. La flotta sortirà di nuovo, al completo, forse per l’ultima volta.

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Viene così messo in atto il piano “Sho-Go”, avente come bersaglio i trasporti della flotta da sbarco americana impegnati nell’assalto anfibio all’isola di Leyte. Parte centrale dell’operazione sono le corazzate della marina imperiale, costruite o rimodernate negli anni ‘30 in vista del tanto atteso duello decisivo con le pariclasse nemiche, ritrovatesi poi per lo più a svolgere il triste ruolo di batterie antiaeree galleggianti. Si tratta di navi imponenti, tra le quali spiccano le moderne sorelle Yamato e Musashi, risparmiate dagli scontri degli anni passati poiché raramente le due marine si sono affrontate a colpi di artiglierie con le unità maggiori.

La flotta giapponese in Brunei poco prima della battaglia, in primo piano la corazzata Nagato.

Il complesso piano prevede che queste potenti unità di superficie, divise in due gruppi (il principale al comando di Kurita, uno secondario al comando di Nishimura) salpino dalla loro base in Brunei e navighino le strette acque dell’arcipelago filippino, fino a convergere da due direzioni nel Golfo di Leyte colmo di trasporti americani. A dare loro una mano, attacchi aerei provenienti dalle basi terrestri, i quali avrebbero tenuto impegnate le Task Force di portaerei statunitensi poste a difesa della zona di sbarco. Infine, un compito quanto mai ingrato viene assegnato all’ammiraglio Ozawa: prendere il comando di una squadra proveniente dal Giappone – incentrata su alcune portaerei quasi prive di aerei imbarcati – dirigersi in contemporanea alle altre due squadre verso le Filippine e farsi individuare, fungendo da allettante esca per le forze statunitensi e attirandole il più possibile lontano dalla zona degli sbarchi.

Il piano, redatto dal comandante in capo della flotta Toyoda, non può riscuotere grande entusiasmo da coloro incaricati di eseguirlo. Per le squadre di Kurita e Nishimura si tratta di avanzare – in pieno giorno – per centinaia di chilometri alla mercè degli attacchi aerei del più grande complesso aeronavale che abbia mai solcato i mari, penetrare poi nel golfo facendosi strada tra le corazzate e le unità minori lì presenti, quindi attaccare i trasporti, infine ripetere il pericoloso viaggio per la base di partenza. La principale rimostranza sollevata è che i trasporti non sono un obiettivo sufficientemente appetibile per una missione di tale difficoltà, specie poiché lo sbarco è già in atto e molte navi sono state scaricate: se proprio la flotta deve immolarsi – sostengono gli ammiragli – che lo faccia contro i gruppi di portaerei, bersaglio ben più prestigioso, anche se certamente più elusivo. Il piano viene approvato e messo in atto, principalmente perché il tempo stringe e sembra essere l’unica strada percorribile; Toyoda concede ai propri sottoposti la libertà di ingaggiare i gruppi di portaerei nemici solo se essi si presentano a tiro[4].

Sebbene l’invasione delle Filippine colga la marina imperiale in un momento critico, priva di portaerei in efficienza e divisa in due tronconi,[5] essa è ancora una forza che non può essere ignorata, e quella che sta per avere luogo è una delle battaglie navali maggiori di tutti i tempi. Kurita salpa al comando di cinque corazzate,[6] dodici incrociatori e quindici cacciatorpediniere; la forza secondaria di Nishimura dispone di due corazzate,[7] un incrociatore e quattro cacciatorpediniere, ed è seguita da una piccola squadra guidata da Shima, con tre incrociatori e sette cacciatorpediniere. Anche l’esca al comando di Ozawa ha una certa consistenza: una portaerei di squadra e tre leggere, con solo circa 100 velivoli a disposizione, due corazzate, tre incrociatori e otto cacciatorpediniere.[8]

Tuttavia, se la flotta giapponese è consistente, essa non regge il confronto con i mezzi messi in campo dall’avversario, dotato di una formidabile forza aerea imbarcata. La Terza Flotta al comando di Halsey schiera cinque grandi portaerei e sei leggere con circa 700 aerei a bordo, sei corazzate,[9] otto incrociatori e quarantasei cacciatorpediniere, mentre la Settima Flotta di Kinkaid – incaricata di fornire supporto diretto alle truppe da sbarco – può contare su altre sei corazzate, diciotto piccole portaerei di scorta, una dozzina di incrociatori e un gran numero di cacciatorpediniere e unità minori.[10]

I quattro momenti salienti della battaglia, in ordine cronologico: gli attacchi aerei statunitensi nel Mare Sibuiano (1), la distruzione della squadra di Nishimura nello Stretto di Surigao (2), l’attacco di Halsey all’esca di Ozawa (3), lo scontro al largo di Samar tra Kurita e le portarei di scorta della Settima Flotta, conclusosi con il dietrofront giapponese (4).

L’inizio delle operazioni non è promettente per Kurita, poiché un’abile imboscata di sommergibili statunitensi lo priva di tre incrociatori, due dei quali spediti in fondo al mare a poche ore dalla partenza. È solo l’inizio del calvario: una volta entrata nel Mare Sibuiano, la principale forza giapponese viene avvistata dalla ricognizione aerea avversaria.

La Terza Flotta statunitense è in quel momento impegnata a difendersi da insistenti attacchi aerei provenienti da terra, il cui unico successo sarà l’affondamento della portaerei Princeton. Tale è la forza a disposizione di Halsey che l’ammiraglio può permettersi il lusso di difendersi ed attaccare simultaneamente: nella giornata del 24 ottobre, numerose ondate di velivoli si levano dalle sue portaerei.

Quel giorno, per quattro volte la principale squadra nipponica si ritrova sotto attacco. Resisi conto della totale assenza di copertura aerea sul bersaglio, i piloti americani temporeggiano come avvoltoi al di fuori del raggio della contraerea, radunandosi in grandi gruppi prima di gettarsi avanti in attacchi sapientemente coordinati, volti ad attaccare medesimi bersagli da più direzioni, rendere difficili le manovre evasive e sopraffare le difese con la forza dei numeri. Avvertita dai radar dell’arrivo degli stormi nemici, la squadra giapponese si porta a piena velocità; una volta sotto attacco, le grandi navi si esibiscono in violente manovre, un susseguirsi di accostate condotte a cinquanta chilometri orari che dimostrano una agilità sorprendente e disegnano enormi cerchi nell’acqua. Le manovre evasive e l’intenso fuoco antiaereo limitano la precisione degli attaccanti, i quali mettono comunque a segno i primi colpi sulla corazzata Musashi: inizia così una sorta di duello tra gli stormi aerei e la grande nave giapponese, che diviene bersaglio privilegiato di ogni incursione. Il gigante d’acciaio evade ed assorbe colpi su colpi, ma inesorabilmente vede la propria manovrabilità diminuire a causa dell’acqua imbarcata, fino a ritrovarsi troppo lento per tenere il passo con il resto della flotta di Kurita. Quando l’ultimo attacco aereo della giornata lascia il Mare Sibuiano, la Musashi è quasi immobile, ma galleggia ancora – bassa sull’acqua – dopo avere incassato qualcosa come quindici bombe perforanti e venti siluri: un poco invidiabile record nella storia della guerra sui mari. Al calar del sole, infine, soccombe agli allagamenti, trascinando con sé centinaia di uomini.[11]

La Musashi sotto attacco nel Mare Sibuiano.

Mentre tutto ciò accadeva, Kurita cercava invano di contattare l’aviazione di terra per richiedere soccorso, ignaro che ogni velivolo a disposizione era già impegnato ad attaccare le portaerei americane. Impotente di fronte ai continui attacchi, l’ammiraglio decide quindi per un temporaneo dietrofront, volto ad evadere nuove incursioni, per poi ritornare sulla rotta prestabilita al calar del sole. Questa manovra è prodiga di conseguenze. Halsey ritiene infatti di avere inflitto danni tali con i propri aerei da avere costretto la squadra nemica alla ritirata,[12] e non cambia idea nemmeno quando, nella notte, la squadra di Kurita viene nuovamente rilevata in avvicinamento: deve trattarsi di poche unità superstiti, ragiona Halsey, da cui la Settima Flotta potrà difendersi da sola. L’uomo al comando della Terza Flotta decide quindi di lanciare le proprie navi all’inseguimento delle portaerei di Ozawa nel frattempo individuate a nord, ignaro di fare il gioco del nemico.

Una seconda conseguenza è che, avendo Kurita perso tempo nell’inversione di rotta, l’avanzata delle due squadre giapponesi verso il Golfo di Leyte non è più coordinata. Le navi di Nishimura vanno incontro a un terribile destino. Idealmente, questa debole flotta avrebbe dovuto piombare sui trasporti statunitensi mentre Kurita affrontava il grosso del nemico, ma la realtà è ben diversa: fiducioso che Halsey si sia occupato delle forze giapponesi più a nord, l’ammiraglio Kinkaid schiera tutte le unità a sua disposizione a sud, in agguato all’uscita dello Stretto di Surigao. Nella notte, appena uscita dallo stretto, la forza di Nishimura viene distrutta in pochi minuti di scontro impari, devastata dai siluri dei cacciatorpediniere e dal fuoco di numerose unità maggiori, tra cui le cinque corazzate danneggiate a Pearl Harbour. La piccola squadra di Shima giunge in ritardo: visto il destino delle navi di fronte a sé, fa dietrofront e si salva.

Tutto ciò conduce all’evento principe della grande battaglia: al sorgere del sole del 25 ottobre, uscite dallo Stretto di San Bernardino, le corazzate di Kurita avvistano delle portaerei in lontananza. Di che si tratta? Non delle potenti forze di Halsey, in quel momento impegnate molto più a nord a mangiarsi l’esca di Ozawa,[13] bensì delle piccole portaerei di scorta della Settima Flotta, dedicate a fornire appoggio aereo ai marines a terra, che si ritrovano loro malgrado ad essere l’unico ostacolo tra Kurita e il Golfo di Leyte. Abboccando all’esca, Halsey ha clamorosamente lasciato strada libera al nemico!

Ciò che segue è un ottimo esempio della abissale differenza esistente tra l’esaminare eventi militari a decenni di distanza – con i tempi, la prospettiva e gli strumenti degli storici – rispetto al dover prendere decisioni immediate, dipendendo da informazioni parziali, immersi in prima persona nello svolgersi degli eventi.

Quando i primi colpi iniziano a piovere attorno alle piccole portaerei, il Contrammiraglio Sprague al loro comando invia disperati messaggi di soccorso e reagisce immediatamente con ognuna delle poche armi a sua disposizione: tutti i velivoli si levano dai ponti di volo, anche se spesso privi di armamento adatto, mentre i cacciatorpediniere emettono cortine fumogene e si lanciano contro la squadra nemica. La situazione è seria, le portaerei di scorta sono troppo lente per fuggire, la potente Terza Flotta troppo lontana per intervenire; Kinkaid – il quale scopre solo adesso di come Halsey abbia lasciato le proprie posizioni! – dispone delle corazzate uscite vittoriose dallo scontro di Surigao, ma a corto di munizioni in seguito allo scontro notturno. In ogni caso, anch’esse sono troppo lontane per fornire rapido aiuto a Sprague.

Mentre dei caccia si apprestano a decollare, una seconda portaerei di scorta (sullo sfondo) viene mancata di poco dai grossi calibri nipponici.

Da parte sua, Kurita non perde tempo in seguito all’avvistamento, ed ordina ad ogni nave di muovere all’attacco alla massima velocità. Per due ore l’inseguimento si protrae, i cacciatorpediniere statunitensi si immolano nel tentativo di rallentare il nemico, mentre le piccole portaerei di Sprague si nascondono dietro cortine fumogene ed in fortuiti banchi di nuvole basse. Infine, quando oramai gli incrociatori alla testa della formazione di Kurita sono giunti a soli dieci chilometri dal bersaglio, un colpo di scena: le navi nipponiche fanno dietro front e si ritirano! Non entreranno più a contatto con forze nemiche.[14]

Termina così, in questa maniera inaspettata, l’ultimo degli scontri della Battaglia di Leyte. Come spiegare la rinuncia giapponese all’inseguimento, proprio in procinto di ottenere una vittoria, quando la strada per il Golfo di Leyte era aperta?

La storiografia statunitense ha a lungo posto l’enfasi sulla coraggiosa reazione dei cacciatorpediniere di Sprague e dei velivoli delle piccole portaerei, in grado di mettere in difficoltà una forza ben più potente; per forza di cose, una risposta definitiva si può però solamente trovare nella mente di Kurita e dei suoi collaboratori.

Sappiamo che la situazione agli occhi dell’ammiraglio giapponese appariva ben diversa da come la conosciamo noi oggi. Anzi tutto, non essendo a conoscenza della riuscita dell’esca di Ozawa,[15] per tutta la durata dello scontro Kurita ritiene di avere di fronte parte della flotta da battaglia di Halsey, non unità ausiliarie; il fraintendimento è cruciale, poiché è noto che le grandi portaerei americane fanno 30 nodi e quindi difficilmente possono essere raggiunte. D’altronde, in quei momenti la confusione regna sovrana, come risulta anche dal rapporto di un ufficiale della corazzata Haruna: nelle due ore di inseguimento, per sette volte la nave apre il fuoco, ed ogni volta è costretta a cessarlo dopo qualche minuto; la visibilità risulta terribile, a causa dei banchi di nuvole e delle cortine fumogene le navi statunitensi non appaiono che per brevi attimi. I cacciatorpediniere avversari vengono ripetutamente scambiati per incrociatori, informazione che suggerisce la convinzione giapponese di avere di fronte la flotta principale nemica.[16] In sostanza, ciò che spinge Kurita a desistere dall’inseguimento è la convinzione di avere di fronte alcune delle veloci portaerei di Halsey, e che tutto ciò stia divenendo una futile perdita di tempo; al contrario, i danni provocati dalla reazione statunitense non sembrano avere particolarmente influito sulla decisione.[17]

Parte del tracciato contenuto nel rapporto di un ufficiale a bordo della corazzata Haruna, descrivente la parte iniziale dell’inseguimento delle portaerei americane. Per tre volte la nave apre il fuoco (7.01, 7.15, 7.50; contrassegnati dalle “nuvolette”) ma ogni volta è costretta a cessarlo dopo pochi minuti a causa della scarsa visibilità.

In realtà la squadra giapponese non si ritira, ma si prepara ad attaccare l’obiettivo principale, i trasporti nel Golfo di Leyte. È a questo punto che avviene l’ultima, importante decisione di Kurita: l’improvvisa rinuncia ad attaccare i trasporti, e l’ordine di dirigersi a nord per trovare ed ingaggiare il nucleo della Terza Flotta americana. Una decisione che non porta a nulla, poiché dopo una breve e infruttuosa ricerca la squadra giapponese sarà costretta a ritirarsi definitivamente a causa della scarsità di carburante, ma che illustra come l’ammiraglio nipponico abbia infine deciso di andare contro gli ordini ricevuti, ritenendo forse inutile sacrificare le proprie navi ed i propri equipaggi per distruggere dei trasporti più o meno carichi – una decisione sorprendente se si pensa alla diffusa immagine di comandanti giapponesi facilmente propensi a seguire ordini suicidi.[18]

La Battaglia di Leyte si concluse con una sconfitta per l’Impero Giapponese, non solo per i danni subiti, ma soprattutto per la perdita delle Filippine che immobilizzò quanto rimase della flotta. Rimane la grande incognita di cosa sarebbe potuto succedere se Kurita non avesse desistito: con tutta probabilità, nel giro di breve tempo tutte le portaerei di scorta di Sprague sarebbero state distrutte. Ma a quel punto? A cosa avrebbe portato il tanto atteso ingresso nel Golfo di Leyte? Le corazzate di Kinkaid avrebbero avuto difficoltà contro la squadra di Kurita, e l’eventualità che quest’ultimo facesse scempio dei trasporti nel Golfo non può essere esclusa. Ciò che è certo è che, inevitabilmente, la forza giapponese sarebbe stata decimata dagli attacchi aerei, e che tutto ciò avrebbe avuto ben poca influenza sul corso del conflitto. La decisione di Kurita fu forse errata dal punto di vista militare, tuttavia – con il senno di poi – l’unico risultato che ebbe fu quello di evitare l’inutile sacrificio dei propri equipaggi in una guerra già persa.

Bibliografia e Sitografia

Tomas J. Cutler, “The Battle of Leyte Gulf at 75: a retrospective”, Naval Institute Press, Annapolis, 2019

Masanori Ito, “La Marina Imperiale Giapponese”, Longanesi, Milano, 1970

Fletcher Pratt, “Storia della guerra nel Pacifico: lo scontro navale tra Stati Uniti e Giappone”, Res Gestae, Milano, 2013

Stan Smith, “The Battle of Leyte Gulf”, Eschenburg Press, 2017

JACAR (Japan Center for Asian Historical Records), Ref.C08030567500, “Painting of Warship Haruna battle scene of Battle of Leyte Gulf from October 22 to 28, 1944” (National Institute for Defense Studies of the Ministry of Defence) – archivio consultabile online a www.jacar.go.jp; traduzione resa possibile grazie al gentile aiuto di Masafumi Katsukawa.

United States Strategic Bombing Survey [Pacific], Naval Analysis Division, “Interrogations of Japanese Officials”, OPNAV-P-03-100 – consultabile online a http://www.ibiblio.org/hyperwar/AAF/USSBS/IJO/index.html

Fotografie reperite da Wikipedia e da www.history.navy.mil.

NOTE

  1. La tanto attesa “Kantai Kessen”, o scontro decisivo, avrebbe visto le corazzate giapponesi dare battaglia solo in seguito al logoramento della flotta statunitense tramite attacchi aerei, imboscate di sommergibili ed incursioni notturne da parte di incrociatori e cacciatorpediniere. Frutto di tale dottrina fu lo sviluppo di sistemi d’arma particolarmente avanzati, come i siluri “Lunga Lancia”, bombardieri a lungo raggio e le corazzate della classe Yamato.

  2. L’aviazione imbarcata nipponica aveva appena subìto un ulteriore salasso di uomini e macchine nel tentativo di respingere un’incursione statunitense su Formosa. L’erronea convinzione di avere in tale occasione inflitto perdite importanti ai gruppi di portaerei americani sembra avere giocato un ruolo nella decisione giapponese di cercare uno scontro decisivo a Leyte, vedi Stan Smith, “The Battle of Leyte Gulf”, Eschenburg Press, 2017, cap.1.

  3. Principale fonte di petrolio per l’Impero Giapponese erano i territori delle ex Indie Orientali Olandesi; Singapore fungeva da base di partenza per i convogli carichi del prezioso greggio.

  4. vedi Tomijii Koyanagi, “With Kurita in the Battle of Leyte Gulf”, in Tomas J. Cutler, “The Battle of Leyte Gulf at 75: a retrospective”, Naval Institute Press, Annapolis, 2019

  5. A causa della difficoltà nel trasportare carburante in Giappone, le unità principali di superficie erano state recentemente basate in prossimità delle fonti di greggio delle Indie Orientali Olandesi, in attesa di ricongiungersi con le nuove squadre di portaerei in addestramento in Giappone.
  6. Le tre corazzate rimodernate Kongo, Haruna e Nagato, più le moderne Yamato e Musashi, le due corazzate più grandi di tutti i tempi.

  7. Le corazzate rimodernate Fuso e Yamashiro.

  8. Nella squadra di Ozawa troviamo la Zuikaku – l’ultima portaerei superstite dell’attacco a Pearl Harbour – e le due bizzare Ise e Hyuga, corazzate rimodernate dotate di un ponte di volo, in quel momento prive però di aerei.

  9. Le sei corazzate di Halsey sono unità veloci e moderne.

  10. Le sei corazzate di Kinkaid sono tutte navi rimodernate, cinque delle quali riparate dopo i danni subìti a Pearl Harbour. Le cosiddette “portaerei di scorta” non vanno confuse con le loro cugine maggiori, in quanto trattasi di navi piccole e troppo lente per essere impiegate con la flotta principale, prevalentemente utilizzate per compiti secondari.

  11. relativamente allo scontro nel Mare Sibuiano vedi Karl Zingheim, ”Sibuyan Sea: The Price of Daring”, in Thomas J. Cutler,”The battle of Leyte gulf at 75”, Naval Institute Press, Annapolis, 2019.

  12. I piloti statunitensi riferirono di avere colpito un gran numero di bersagli, quando in realtà quasi tutti i danni delle circa 300 sortite furono assorbiti dalla Musashi. 18 aerei furono abbattuti dalla contraerea.

  13. La terza Flotta affonda la portaerei Zuikaku, tre portaerei leggere e tre cacciatorpediniere della squadra di Ozawa, prevalentemente tramite attacchi aerei, vedi Trent Hone, ”Halsey’s Decision”, in Tomas J. Cutler, op.cit.

  14. Nel corso dell’inseguimento, una portaerei e tre cacciatorpediniere americani vengono affondati, molte altre le navi danneggiate. Una seconda portaerei sarà di lì a poco affondata da uno dei primi attacchi Kamikaze della guerra. La squadra di Kurita perde tre incrociatori, alcuni affondati dai giapponesi stessi perché danneggiati e troppo lenti per il rientro alla base.

  15. Anche a causa di problemi tecnici, le comunicazioni tra le forze giapponesi nel corso della battaglia furono quasi inesistenti.

  16. per il rapporto della Haruna vedi JACAR (Japan Center for Asian Historical Records), Ref.C08030567500, “Painting of Warship Haruna battle scene of Battle of Leyte Gulf from October 22 to 28, 1944” (National Institute for Defense Studies of the Ministry of Defence), consultabile online a www.jacar.go.jp
  17. Rimane l’incognita di come Kurita abbia potuto stimare in maniera così errata la composizione e velocità della squadra nemica. Dalla Haruna abbiamo la testimonianza di almeno un impiego del radar di bordo, che avrebbe potuto fornire informazioni utili in tal senso. La squadra di Kurita pagava la quasi totale assenza dei velivoli da ricognizione usualmente imbarcati su corazzate ed incrociatori, la maggior parte dei quali furono sbarcati dalle navi prima della battaglia per essere ceduti a basi terrestri.

  18. per indagare la visione giapponese delle operazioni, molto utili sono gli interrogatori condotti nel dopoguerra dagli americani, reperibili online a http://www.ibiblio.org/hyperwar/AAF/USSBS/IJO/index.html

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