Operazione Compass: una Caporetto Dimenticata?

Ritirata di Russia, el-Alamein, notte di Taranto, scontro di Capo Matapan: le molteplici disavventure militari dell’era fascista vengono giudicate di volta in volta come evitabili o meno, prese ad esempio di lampante impreparazione, di condotta criminale, perfino celebrate per l’eroico coraggio di fronte ad un nemico superiore.

A lottare per un triste posto in questo pantheon dei disastri troviamo una disfatta alla quale la storiografia nostrana non è nemmeno riuscita a dare un vero nome[1]: si tratta dei combattimenti in Egitto e Libia avvenuti a cavallo tra 1940 e 1941, generalmente identificati a partire dal nome dell’offensiva britannica che ne fu elemento centrale, l’operazione Compass. Combattimenti che meriterebbero ben più ampia attenzione, poiché si può parlare di una batosta senza attenuanti, le cui dimensioni, la rapidità del collasso e le conseguenze a livello geopolitico ne fanno una sorta di prototipo perfetto della sconfitta fascista, forse il migliore esempio di un momento nel quale tutta la criminale impreparazione di un paese che andava alla guerra in maniera amatoriale venne alla luce.

Non solo, il disastro in Africa Settentrionale è il biglietto da visita con il quale l’Italia si presenta nel conflitto, di concerto con la brutta figura al confine greco-albanese. A due mesi dall’entrata in guerra, queste le parole che il Duce invia al Comandante superiore in Africa Settentrionale, Rodolfo Graziani:

“[…] Ancora una volta vi ripeto che non fisso obiettivi territoriali, non si tratta di puntare su Alessandria e neppure su Sollum. Vi chiedo solamente di attaccare le forze inglesi che avete di fronte. Mi assumo la piena responsabilità personale di questa mia decisione.” [2]

Il significato dell’ordine è, usando le parole di Giorgio Rochat, chiarissimo: Mussolini ha bisogno che qualche caporale italiano si faccia ammazzare in Egitto in modo da reclamarne l’acquisizione territoriale al tavolo della pace. Poco importa che la pianificazione prebellica non preveda che una difesa passiva al confine libico-egiziano[3]: si tratta di prelevare le numerose truppe al confine con la Tunisia – obiettivo oramai sfumato – e rafforzare il contingente in Cirenaica.

Graziani, figura priva di legami con la corona e con i tradizionali ambienti militari, è più simile ad un fascista in alta uniforme, con alle spalle una carriera coloniale dai molti “successi”: anni passati in Libia, Somalia ed Etiopia tra rivolte represse, deportazioni ed efferatezze di ogni genere – incluso l’impiego di gas venefici[4]. Egli accoglie con cautela gli ordini ricevuti, essendo bene a conoscenza delle difficoltà logistiche a cui sono soggette le proprie truppe, dovute alla mancanza di camion e di adeguate scorte di rifornimenti nella colonia libica[5].

Ritenendo, inoltre, di avere di fronte a sé consistenti forze britanniche, Graziani opta per una soluzione di compromesso: una limitata avanzata oltreconfine sino a Sidi Barrani, raggiunta il 17 settembre. Avanzata non contestata dagli inglesi e presentata al Duce come una grande vittoria, la quale riesce però già a mettere in difficoltà il rifornimento della truppa. L’intento di Graziani diviene quindi quello di trincerarsi, in attesa di accumulare scorte sufficienti per una seconda offensiva.

Il teatro delle operazioni.

Quali le forze incaricate dell’invasione dell’Egitto? Si tratta di un dispositivo di una certa consistenza numerica, al comando della 10° Armata troviamo difatti nove divisioni[6] – quattro regolari, tre della milizia[7] e due libiche[8] – per un totale di circa 120.000 uomini. Tuttavia, gravi carenze – comuni a gran parte del Regio Esercito – minano l’efficienza di queste unità.

Anzi tutto la mancanza di mobilità, trattandosi essenzialmente di unità di fanteria appiedate: perfino le quattro divisioni regolari fregiate del titolo “Autotrasportabile” mancano dei veicoli necessari[9]. Questa lentezza sarà particolarmente gravida di conseguenze nel terreno desertico, consegnando l’iniziativa ad un avversario dotato di forze motorizzate, in grado di decidere se, quando e dove dare battaglia, oltre a rendere le truppe terribilmente vulnerabili in caso di ritirata.

Inoltre, nel 1940 il Regio Esercito entra nel conflitto con un armamento mediocre, completamente inadatto in ambiti come artiglieria, pezzi anticarro e mezzi corazzati; queste divisioni spintesi fino a Sidi Barrani non sono poi tanto meglio equipaggiate di quelle del 1918. La componente corazzata della 10° Armata è a dir poco insufficiente: i non pochi carri leggeri “L” distribuiti tra le fanterie sono un raro esempio di mezzo completamente inutile, al massimo impiegabile per azioni di polizia. Vi sono, tuttavia, due piccole formazioni mobili indipendenti a disposizione di Graziani, il gruppo Maletti e la brigata Babini[10], tra le quali troviamo un ridotto numero di carri dalla qualche utilità[11].

Graziani, che aveva la pretesa di guidare direttamente la 10° Armata privando di quasi ogni potere decisionale il legittimo comandante[12], si preoccupò di schierare le suddette unità cercando di evitare ogni possibile aggiramento britannico delle proprie linee: le truppe italiane spesero quindi quell’autunno in vari “caposaldi”, i quali – molto distanziati tra loro – erano disposti secondo una struttura vagamente triangolare, la base sul mediterraneo, il vertice verso il deserto. Dentro questi avamposti fortificati si andavano lentamente accumulando i rifornimenti per la prossima offensiva, mentre un paio di divisioni e la brigata Babini rimanevano in Libia.

Nel frattempo, circa cento chilometri più ad est, gli inglesi iniziarono a progettare un contrattacco volto a respingere al di là del confine il nemico. A prima vista (smentendo le convinzioni dei comandi italiani[13]) la “Western Desert Force” schierata nel deserto Egiziano non faceva una grande impressione, potendo contare su sole tre divisioni, circa 30.000 uomini – si tengano presenti le numerose contingenze che l’Impero Britannico si trovava ad affrontare in quel periodo.

In maniera simmetricamente opposta al caso italiano, tali forze erano tanto deboli di numero quanto ben equipaggiate e, si scoprirà, comandate. Il generale O’Connor, dal temperamento aggressivo, amava dirigere la Western Desert Force direttamente dal campo di battaglia, ed era propenso a prendere rischi sia personali che operativi; non a caso qualche mese più tardi finirà catturato sul campo. Egli godeva del lusso di poter svolgere il proprio lavoro senza eccessive ingerenze dei propri superiori; ai suoi ordini tre unità interamente motorizzate: una divisione di fanteria indiana, una di fanteria australiana e una divisione corazzata inglese. Il vero punto di forza di questo piccolo esercito risiedeva nei mezzi corazzati, con un mix di obsoleti carri leggeri, buoni carri Cruiser e utili autoblindo schierati dalla 7° Divisione Corazzata, per un totale di circa 300 mezzi. Menzione a parte merita, infine, il singolo reggimento di infantry tank che con soli 52 carri “Matilda” ebbe un impatto pesantissimo sui combattimenti.

Uno dei famigerati carri Matilda.

Numerose ricognizioni avevano donato ad O’Connor una visione accurata dello schieramento della 10° Armata, proprio ciò fu alla base dell’offensiva che prese il nome di Operazione Compass. Non potendo affrontare direttamente una forza tanto superiore di numero, egli intese sfruttare la grande distanza tra i singoli caposaldi italiani, tra i quali la mancanza di adeguata ricognizione aveva già permesso a piccoli raid esplorativi di penetrare nelle retrovie indisturbati. L’audace piano prevedeva di infilare la divisione indiana e quella corazzata tra i caposaldi, fingere un assalto frontale da est per poi sorprendere il nemico attaccando da ovest, ingaggiando un caposaldo alla volta – mezzi corazzati si sarebbero inoltrati nelle retrovie della 10° Armata, tagliandone la ritirata, mentre unità della Royal Navy avrebbero aiutato nell’assalto ai caposaldi costieri. Gli italiani, messi in crisi, si sarebbero ritirati.

Spesso i piani vanno in frantumi non appena inizia la battaglia, ma non in questo caso: quando i primi colpi di artiglieria risvegliano i fanti italiani all’alba del 9 dicembre, per essi è l’inizio di una vera e propria catastrofe.

Da settimane, i soldati della 10° Armata si aspettano che Graziani ordini la tanto attesa offensiva, non certo un attacco inglese; quel che è peggio, uomini e carri di ben due divisioni sono riusciti a penetrare nella notte tra i caposaldi senza essere individuati[14]! Mentre l’artiglieria colpisce da est, il vero attacco giunge da ovest, investendo per primo il caposaldo del gruppo Maletti; la sorpresa è tale che i carri italiani vengono messi fuori combattimento prima ancora di entrare in azione, mentre la fanteria scopre con orrore che i propri pezzi anticarro non hanno alcun effetto sui pesantemente corazzati Matilda. Nel frattempo, i mezzi della 7° divisione corazzata britannica sono già penetrati in profondità nelle retrovie delle forze di Graziani: un’ondata di vero e proprio panico si diffonde tra i comandi italiani; il gruppo Maletti, abbandonato a sé stesso, cessa di esistere dopo due ore di combattimenti, lasciando sul campo 800 uomini e 3000 prigionieri.

Non è che l’inizio. A mezzogiorno gli inglesi riprendono l’attacco, stavolta sulle posizioni della 2° divisione libica; al calar del sole, dopo un contrattacco che conferma l’inutilità dei carri “L”, l’unità è sopraffatta. I carri inglesi posizionati nelle retrovie della 10° Armata attendono un contrattacco che non arriva: Graziani continua a non voler impegnare la sua unica riserva mobile, la brigata Babini, che continua a giacere dimenticata in posizione arretrata; egli ordina invece di “resistere sul posto” e di spostare su nuove posizioni le forze di Maletti e la 2° divisione libica, le quali, in quel momento, non esistono più. Un suo sottoposto, generale Gallina, riesce a salvare l’altra divisione libica, ordinandone la ritirata dentro Sidi Barrani, dove raggiunge una delle divisioni della milizia. Non sono che poche ore guadagnate.

Colonna di prigionieri italiani in Africa Settentrionale.

Il giorno successivo, O’Connor investe la cittadina con attacchi ripetuti di fanteria, supportati da Matilda, attacchi aerei, artiglieria terrestre e navale; di fronte a questo assalto interforze il morale inizia a cedere: la mattina dell’11 è tutto finito, altre due divisioni smettono di esistere. L’effetto shock ottenuto dagli inglesi moltiplica l’impatto delle loro forze, facendole sembrare molto più ingenti; il terrore è palpabile da memorie come quelle di questo artigliere nell’inferno di Sidi Barrani:

“Ma a chi sparavi? Che c’erano due carri armati di qua, sei di là, quattordici da un’altra parte. C’erano le navi che ti sparavano dal mare ed erano a dieci chilometri […] E’ arrivato uno di questi proiettili a cento metri da noi, e non è neanche scoppiato […] pesava circa una tonnellata piena di tritolo. Pensa cosa sarebbe successo se fosse scoppiato. C’erano tanti di quei feriti […] gridavano mamma, chiamavano i suoi di casa…senza un braccio, senza una gamba. Sangue che girava sulle ruote dei camion[15].

Graziani ordina la ritirata su una linea più arretrata a due divisioni superstiti, la Cirene e la Catanzaro. Nella notte del 10, qualche camion e migliaia di fanti si mettono in moto, molti i cannoni trascinati a mano. La sera successiva, la Cirene è arrivata è in salvo, ma della Catanzaro, sorpresa in pieno deserto dai carri inglesi, non giunge che qualche stremato superstite.

Presa Sidi Barrani, Compass sarebbe tecnicamente arrivata a conclusione, ma il collasso italiano va oltre ogni più rosea previsione britannica: 38.500 (!) le perdite della 10° Armata, per la maggior parte prigionieri, al prezzo di nemmeno 700 uomini. O’Connor decide di proseguire l’avanzata in Libia.

Le avanguardie inglesi non fanno in tempo ad entrare in contatto con la nuova linea difensiva che Graziani ha un crollo morale, arrivando a scrivere al Duce di essere pronto a ripiegare addirittura a Tripoli per “mantenere almeno alta su quel castello la bandiera d’Italia”[16]. Eppure non viene esautorato, anzi, ordina alle forze superstiti di ritirarsi nuovamente, stavolta all’interno della piazzaforte costiera di Bardia, dove il 16 dicembre si ritrovano ammassati ben 40.000 uomini, cinque divisioni dalle ormai oramai dubbie capacità combattive. Questa manovra si rivela l’ennesima condanna a morte per le unità del Regio Esercito: a che pro rinchiudersi in una posizione senza via di fuga, mancando qualsiasi forza a proteggere i fianchi o in grado di permettere una ritirata?

La battaglia per Bardia è preceduta da numerosi bombardamenti aerei, in barba ad una Regia Aeronautica tanto pubblicizzata quanto effimera alla prova dei fatti. Si ripete su scala ancora maggiore il copione visto a Sidi Barrani: a partire dal 3 gennaio gli australiani, che hanno sostituito gli indiani, danno il via all’assalto interforze. Un grosso colpo al morale italiano viene inflitto dal bombardamento operato da tre corazzate inglesi, operanti indisturbate grazie alla inattività della Regia Marina ancora impegnata a leccarsi le ferite di Taranto. Tre giorni di combattimenti e la resistenza crolla, altri 38.000 i prigionieri nelle mani britanniche, cifre da capogiro. Ancora una volta decisivi i carri Matilda, che gli artiglieri italiani in queste terribili settimane avevano imparato a immobilizzare mirando ai cingoli, salvo ritrovarli riparati e nuovamente in azione in breve tempo.

O’Connor rimette in moto le sue truppe, raggiunge il porto di Tobruk, lo espugna in soli tre giorni, in un modo del tutto simile ai precedenti; 23.000 i prigionieri. Graziani non fa che ordinare ritirate su ritirate, questa volta su una nuova linea, Derna-Mechili.

Nel frattempo Roma accetta l’aiuto tedesco, il primo nucleo del famoso Afrika Korps di Rommel inizia ad essere preparato, mentre la divisione corazzata Ariete e quella motorizzata Trento iniziano ad essere traghettate per Tripoli: due formazioni fra le pochissime dell’esercito italiano ad essere adatte al combattimento desertico vengono messe in campo solo ora, a disastro compiuto!

Ben poche briciole della 10° Armata rimangono a questo punto in gioco; prima che anche le nuove posizioni vengano sgominate, l’unica azione degna di nota è quella dei carri della brigata Babini, utilizzati per la prima volta in massa in uno scontro vittorioso con le avanguardie corazzate inglesi. Gioia di breve durata, in quanto la perdita di Mechili condanna tutto il resto della linea difensiva all’aggiramento. L’ultimo atto della tragedia si va avvicinando: il 31 gennaio l’ennesima ritirata generale viene emanata dal comando italiano, ma ancora una volta O’Connor è una mossa avanti: mentre i resti delle forze di Graziani si ritirano verso Bengasi, la stremata 7° divisione corazzata inglese viene lanciata in un’ultima corsa volta a tagliare loro la ritirata a sud della città. Anche Bengasi va evacuata, e con essa fuggono molti civili, molti altri sono abbandonati da Graziani alla buona volontà degli inglesi[17]; in ogni caso è troppo tardi.

Il 5 febbraio le avanguardie britanniche tagliano la strada costiera a Beda Fomm, mezz’ora prima dell’arrivo dei primi reparti italiani in fuga. Nonostante l’esiguità del cordone inglese, i male improvvisati attacchi dei reparti accerchiati falliscono: gli ultimi resti della 10° Armata capitolano, la tragedia è compiuta.

Prigionieri italiani sorvegliati a vista.

I numeri di Compass sono ancora oggi impressionanti: 115.000 prigionieri, 1300 cannoni, 400 carri persi dagli italiani, al prezzo di 500 morti e 1500 feriti britannici, indiani e australiani.

Pazzesco è pensare come forze italiane di tale entità siano collassate di fronte all’azione congiunta di non più di due divisioni, dando pessima prova di sé anche quando si trovarono a difendere posizioni statiche, un tipo di impiego apparentemente a loro congeniale. A livello geopolitico, a pochi mesi dall’inizio della “guerra parallela”, l‘Italia diveniva dipendente dall’aiuto tedesco perfino nella sua stessa colonia.

Terrificante fu la prova di inettitudine data dai comandi italiani, ma anche l’inadeguatezza degli armamenti. La guerra voluta era stata ottenuta, eppure le truppe nel primo teatro degli scontri col nemico sono tra le più impreparate, l’appoggio aereo della tanto decantata “arma fascistissima” inesistente, la flotta così terrorizzata dal disastro di Taranto da lasciare campo libero alla Royal Navy in frangenti cruciali.

Infine, ed è un tema sul quale solitamente la storiografia tace, colpisce la bassissima tenuta morale delle truppe italiane nel corso di questi episodi, forse non solamente frutto della criminale condotta dei comandi e dalle disperate circostanze in cui si trovarono puntualmente a combattere: è plausibile, infatti, intravedere in queste cifre di prigionieri un primo conto con la realtà di un paese che, per la prima volta, si rendeva conto di essere mandato al macello, in terra straniera, in nome della volontà di potenza di pochi.

Bibliografia

Lucio Ceva,”Africa settentrionale 1940-1943”, Bonacci Editore, Roma, 1982.

Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Libia: dal fascismo a Gheddafi”, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 2000.

John Gooch, “Mussolini e i suoi generali”, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone, 2011.

Giorgio Rochat, “Le guerre italiane 1935-1943: dall’impero d’Etiopia alla disfatta”, Torino, Einaudi, 2005.

James J. Sadkovich, “La Marina italiana nella seconda guerra mondiale”, Feltrinelli, Milano, 2014.

Andrea Santangelo, ”Operazione Compass: la Caporetto del deserto”, Salerno Editrice, Napoli, 2012.

Le foto sono reperite da Wikipedia.

  1. Occasionalmente è stato utilizzato il nome “Battaglia della Marmarica”.

  2. Mussolini a Graziani, 18 agosto 1940, in Giorgio Rochat, “Le guerre italiane 1935-1943: dall’impero d’Etiopia alla disfatta”, Torino, Einaudi, 2005, p. 296.

  3. Per approfondire sulla pianificazione prebellica dell’Italia fascista vedi John Gooch, “Mussolini e i suoi generali”, Libreria Editrice Goriziana, Pordenone, 2011, cap. VIII.

  4. Relativamente a Graziani, vedi sempre John Gooch, “Mussolini e i suoi generali”.

  5. Scorte non approntate per tempo nella colonia, nonostante in questo periodo iniziale del conflitto i convogli con la madrepatria agiscano praticamente indisturbati, vedi James J. Sadkovich, “La Marina italiana nella seconda guerra mondiale”, Feltrinelli, Milano, 2014, p.133.

  6. Si tratta di “piccole” divisioni binarie su due reggimenti, di dimensioni ridotte rispetto a quelle inglesi.

  7. Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, una sorta di esercito parallelo voluto da Mussolini, composto in parte da volontari, organizzato in maniera analoga alle divisioni regolari ma spesso a corto di uomini e dal peggiore addestramento.

  8. Formate con uomini reclutati in Libia, con ufficiali italiani, dotate di pessimo armamento.

  9. Una bizzarra creazione dell’era fascista: divisioni con veicoli sufficienti per muovere le armi pesanti, ma non la fanteria, la quale avrebbe dovuto dipendere di volta in volta da veicoli presi in prestito da una dotazione a livello di corpo d’armata, alla prova dei fatti quasi sempre completamente insufficienti.

  10. Dai nomi dei rispettivi comandanti.

  11. M11/39 e M13/40, i secondi più o meno comparabili ai carri cruiser inglesi, ma non ai Matilda.

  12. Generale Berti, sostituito per un breve periodo di malattia da Bastico, infine esautorato e rimpiazzato da Tellera, il quale morirà nell’epilogo di Beda Fomm.

  13. Ancora nel dopoguerra girava la convinzione che le forze di Graziani erano state sconfitte da un enorme esercito inglese, vedi Lucio Ceva,”Africa settentrionale 1940-1943”, Bonacci Editore, Roma, 1982, cap. 1.

  14. Nella notte precedente, il rumore dei veicoli fu mascherato appositamente dal volo di velivoli inglesi, mentre la Royal Navy operava attacchi diversivi lungo la costa. Quanto alla ricognizione aerea italiana, essa era stata impedita dall’attività della Royal Air Force nei giorni precedenti.
  15. Reperito in Andrea Santangelo, ”Operazione Compass: la Caporetto del deserto”, Salerno Editrice, Napoli, 2012.

  16. Vedi Andrea Santangelo, Operazione Compass: la Caporetto del deserto”, p. 85.

  17. Ci saranno invece vari episodi di saccheggi e violenze. Vedi Angelo Del Boca, “Gli Italiani in Libia: dal fascismo a Gheddafi”, Cles, Arnoldo Mondadori Editore, 2000, p. 302.

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