coltivi basso medioevo

I Coltivi nel Basso Medioevo

I coltivi, ossia i terreni coltivabili, conoscono una stagione di grande ampliamente nel corso del Basso Medioevo.

La prima parte del periodo altomedievale è segnata da un significativo calo demografico e dalla diffusa prevalenza dell’incolto sulle terre coltivate. Scrive Alfio Cortonesi:

Lo scarso numero degli uomini, dispersi nelle grandi estensioni dei boschi, sovente isolati gli uni dagli altri, impediva, altresì, che si potesse prestare l’attenzione dovuta alle acque di scorrimento, rinforzando gli argini di fiumi e torrenti, e alla manutenzione di fossi e canali artificiali, con il risultato che paludi, acquitrini, stagni ovunque si generavano mescolandosi alle selve e dando vita a paesaggi cangianti, ben difficilmente assoggettabili all’iniziativa dei pochi coltivatori[1].

Con lo spopolamento delle città e l’avanzamento delle superfici forestali, tanto in area mediterranea che nell’Europa centro-settentrionale, il bosco diventa l’eterogenea fonte primaria di sostentamento per la popolazione: da luogo di allevamento (prevalentemente per il pascolo di suini) e caccia (nonché pesca), a riserva di legname[2]. Come visto nel primo capitolo «a boschi largamente umanizzati, punteggiati di radure destinate perlopiù alla coltivazione dei cereali, percorsi frequentemente da pastori, taglialegna, carbonai, altri si affiancavano pressoché inviolati, battuti al più da cacciatori e dimora di qualche raro eremita[3].

La situazione inizia a mutare significativamente nella seconda metà dell’alto Medioevo, quando la popolazione dell’Europa occidentale ricomincia a crescere[4], ma è nel periodo bassomedievale che si verifica un profondo mutamento. Tra il X e il XIV secolo, con un picco fra XI e XII, l’incremento demografico europeo è radicale, passando da 42 a 73 milioni di abitanti, sebbene alcune stime siano anche maggiori, arrivando a proporre per l’inizio del Trecento una popolazione complessiva di circa 100 milioni di persone[5].

Il ripopolamento delle città[6] è affiancato da un considerevole ampliamento delle superfici coltivate e da alcune innovazioni tecniche[7] per rispondere al crescente bisogno di prodotti agricoli[8]. Favorita dalle condizioni climatiche che, caratterizzate da differenze stagionali, influiscono assai positivamente sulla varietà e sulla produttività dei terreni[9], l’estensione dell’agricoltura segna il passaggio da un’economia fortemente improntata alla pratica della caccia, all’allevamento, alla pesca e allo sfruttamento delle molteplici risorse naturali, a una strettamente legata alla lavorazione della terra, facendo delle superfici coltivate (cultum) il supporto indispensabile della sussistenza urbana e rurale, soprattutto attraverso l’ampliamento degli spazi della cerealicoltura[10].

Spinti dalla ricerca di «lembi di terra nuova da sottoporre all’aratro»[11] i coltivatori danno vita a opere diffuse di disboscamenti, bonifiche e dissodamenti. Queste iniziative possono essere suddivise in due categorie. La prima è quella che riguarda le regioni di antico insediamento, già presidiate durante l’alto Medioevo, nelle quali dopo l’anno Mille prende vita l’offensiva contro i boschi e le sodaglie. La seconda riguarda l’aggressione degli spazi dominati dalla natura selvaggia e appena intaccati dalla presenza umana:

Il successo dell’iniziativa era in questi casi legato alla presenza di nutrite schiere di coltivatori, alla possibilità di mettere in campo un progetto di bonifica e di riduzione a coltura, alla disponibilità di capitali non esigui, infine alla collaborazione o, comunque, al consenso di quanti godevano di diritti di proprietà e/o giurisdizionali sui territori da colonizzare[12].

Esempi di questo secondo tipo sono rappresentati dall’assalto mosso in Germania fra XII e XIV secolo alle vaste distese boschive poste a est dell’Elba e della Saale che porta alla costituzione di insediamenti umani in regioni fino a quel momento scarsamente popolate e connotate da un’economia silvo-pastorale, dalla lotta «di scure e di vanga per ridurre a coltura la zona di foreste e brughiere compresa fra Ypres e Bruges» nelle Fiandre e dalle spedizioni di dissodamento sulle più alte pendici francesi, come le montagne della Lorena, della Franca Contea, del Delfinato e dell’alta Provenza[13]. In Francia le azioni di bonifiche e dissodamenti, prima realizzate da coltivatori indipendenti, nel periodo bassomedievale vengono sempre più sostenute dai signori:

Principi e castellani, vescovi e abati non tardarono a rendersi conto del profitto che era possibile ricavare dall’incremento delle superfici coltivate e del popolamento rurale, e conseguentemente presero a stimolare e a dirigere il movimento di colonizzazione. La disponibilità di uomini e capitali fece sì che gli obiettivi fossero, a questo punto, ben più ambiziosi che quello di ricavare parcelle e strisce di terreno ai margini del bosco: intere contrade, fino a quel momento lasciate alla foresta e all’acquitrino, furono sottomesse all’aratro, sul terreno vergine si crearono nuovi territoirs, si misero in piedi dal nulla villaggi di varia consistenza demica. Alle operazioni fu impresso, insomma, un evidente cambiamento di passo[14].

Dal canto suo l’Inghilterra, nei secoli della grande crescita demica, non è caratterizzata da una spettacolare avanzata dei coltivi, dato che già nell’XI secolo l’occupazione dei terreni argillosi di buona qualità, preferiti dai coltivatori inglesi, può dirsi conclusa, mentre nella penisola iberica la colonizzazione e l’espansione dei coltivi procedono in stretta connessione con la Reconquista, conoscendo dunque ritmi e dinamiche peculiari, iniziando nelle regioni del nord e del nord-est già dal IX secolo, tanto che in Catalogna le terre coltivate raggiungono quasi ovunque i limiti del possibile avanzamento già prima dell’anno Mille[15].

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In Italia, dopo una complementarità marcata durante tutto l’alto medioevo tra l’incolto e i centri urbani, «già a iniziare dal secolo XI, – scrive Rossella Rinaldi -, possiamo avvertire, anche all’interno delle città, e sotto la spinta di un consistente sviluppo demografico, i segni di un rinnovamento che rientra a pieno titolo in quel processo di umanizzazione assai ben conosciuto per le campagne»[16]. Similmente al caso francese anche nella penisola italiana dopo il Mille all’iniziativa individuale subentra quella collettiva, «promossa da monasteri, signori, vicinie e consorzi di coltivatori, infine, da comuni rurali e cittadini», da cui derivano i risultati più significativi, quali l’arginatura di fiumi (tra cui il Po), lo scavo di canali e collettori, l’espansione del coltivo su zone prima boschive e paludose[17].

Come rimarca Paola Galetti nel suo saggio, le motivazioni della privatizzazione degli spazi incolti, in atto nel territorio piacentino già dal IX secolo, sono di natura politica:

I signori tendevano a mettere le mani sull’incolto per colpire la libertà contadina, in quanto la proprietà in comune unita al libero sfruttamento delle aree incolte garantiva alle comunità di villaggio quella coesione ed autonomia economica necessarie anche per il mantenimento della libertà giuridica. Il possesso di boschi, pascoli, paludi da parte dei signori significava che il loro sfruttamento avrebbe dovuto essere assoggettato al pagamento di un tributo, e quindi, all’accettazione di uno stato di dipendenza da parte delle comunità contadine[18].

Di pari passo al processo di espansione della grande proprietà fondiaria, il piccolo proprietario viene inglobato all’interno delle aziende curtensi, diventando un colono dipendente. Così, pure se generalmente l’appropriazione delle aree incolte da parte dei signori riguarda la loro proprietà e non esclude la comunità contadina dagli antichi diritti d’uso, si viene a creare un meccanismo di dipendenza e soggezione verso il potere[19].

Ad ogni modo è evidente come le modalità di espansione cambino a seconda dei territori presi in considerazione. Tra XI e XII secolo nei pressi di Verona una palude di oltre mille ettari viene messa a coltura da un consorzio di cittadini, mentre in area bergamasca, cremonese e bresciana si assiste ad un’opera di sistematica bonificazione e di complementare irrigazione[20]. Nei documenti bassomedievali dell’Alto-Adige, similmente a quanto rilevato per la Commedia di Dante, il bosco viene designato con tre termini differenti (buscus, nemus e silva), sebbene questa differenziazione sembri essere solamente formale[21]. Come nel caso piacentino, dal IX al XIII secolo, anche in queste terre si rintraccia la presenza di aree boschive all’interno delle grandi proprietà laiche ed ecclesiastiche che, attraverso le donazioni e le confische di beni senza eredi, riescono a loro volta «ad estendere le proprie maglie sull’incolto e le foreste»[22].

Nell’Italia centrale e meridionale la conquista di nuove superfici per la pratica agricola non presenta dimensioni comparabili con quelle riscontrate nelle contrade del nord:

Bonifiche e arroncamenti ebbero qui a iscriversi, per solito, nel contesto di una trama insediativa fitta e di genesi antica, che disegnava orizzonti fra i più umanizzati dell’intero continente europeo. L’avanzamento dei coltivi vi si realizzò a seguito di iniziative individuali e di piccole comunità, che raramente si configurarono come massiccia aggressione alle selve e ai pantani[23].

Nel Lazio, la massiccia opera di dissodamento che investe le campagne bassomedievali, non si presenta certo come fattore caratterizzante, non affermandosi mai come azione di conquista e non conoscendo «orizzonte che non sia quello umanizzato e familiare dei tenimenta urbani e castrensi»[24]. In Calabria, una delle regioni più verdi in passato, la maggior parte della popolazione continua a vivere sparsa in minuscoli villaggi circondati da fasce di coltivazioni intensive, al di là delle quali si aprono enormi estensioni spopolate e lasciate alle attività silvo-pastorali, risolvendo il rapporto fra uomo e territorio con la netta prevalenza dei fattori ambientali sulla componente umana[25]. Infine la Sicilia e la Sardegna non conoscono affatto lo stimolo per la conquista di terre nuove, soprattutto a causa della cronica carenza di uomini[26].

A seguito di tutte queste attività si registrano, tra pieno e tardo Medioevo, «gli effetti disastrosi di un grave squilibrio ambientale che minaccia, in primo luogo, l’organizzazione e l’assetto delle aree agricole»[27]. Continua Rinaldi:

Già sul finire del secolo XII, nella Padania, si avvertono i primi segnali di un grave dissesto idrogeologico che minaccia nelle campagne la riconversione degli spazi agricoli in aree incolte. Privato di vaste superfici su cui dispiegare liberamente foreste e paludi, aggredito, quasi, dall’incessante lavoro dei coloni, costretti dai proprietari terrieri ad allargare l’estensione del coltivo, l’ambiente naturale sembra ora deciso a vendicarsi: inondazioni e frane si abbattono con una violenza ed un’assiduità esasperanti sulle terre più umanizzate, mentre l’avvicendarsi delle stagioni, agli occhi degli uomini del tempo, sembra avere abbandonato il suo corso regolare[28].

Questi gravosi effetti non risparmiano le piccole ramificazioni fluviali delle città, che solcano «i nuclei urbani per esigenze legate in primo luogo alle attività economiche»[29].

Come sostenuto anche da Cortonesi, dalla metà del XIII secolo traspare una diffusa consapevolezza del danno ecologico che potrebbe derivare da un’ulteriore estensione dello sfruttamento del territorio a fini agricoli, e si diffonde «la preoccupazione per i destini del patrimonio boschivo: si avverte come i delicati equilibri della sussistenza dipendano per aspetti non secondari dalle attività silvo-pastorali e, dunque, dall’uso degli incolti»[30]. Del resto «il dilavamento di superfici collinari o di montagna, causato da disboscamenti spinti oltre il sostenibile e dalle lavorazioni “a ritocchino” (cioè condotte perpendicolarmente alle curve d’altitudine) ancora prevalenti, è attestato a più riprese»[31], come nei territori limitrofi a Siena e Firenze.

Non è dunque un caso che, soprattutto sul finire del Medioevo, si diffondano regolamentazioni volte a tutelare l’ambiente naturale. È ciò che avviene nel reggiano durante il Quattrocento a seguito del grave depauperamento boschivo che spinge «il governo cittadino a tutelare le specie arboree rimaste, riconoscendone implicitamente l’utilità nell’equilibrio biologico»[32] e quanto emerge dai molti statuti piemontesi in cui «vi sono contenute in abbondanza informazioni sulle misure adottate dalle comunità per la tutela del bosco, inteso come bene pubblico»[33]. Inoltre, a seguito dello spopolamento causato dalla Peste nera, «sulle più alte colline e in montagna, il recupero alla copertura forestale di aree più o meno vaste contribuì, altresì, a ripristinare le condizioni di un equilibrio ambientale che diboscamenti talora dissennati avevano in molti luoghi compromesso»[34].

Conclusione

Coerentemente con quanto sostenuto nell’Introduzione di questo lavoro, il rapporto tra l’uomo del Medioevo e l’ambiente naturale è stato ripercorso attraverso due prospettive complementari. Nel primo capitolo sono stati messi in luce gli elementi culturali, letterali e simbolici della questione, mentre nel secondo si è passati a una disamina più propriamente socio-economica incentrata sul periodo bassomedievale. La convinzione di fondo, testimoniata dai rimandi tra le varie parti del testo, è che questi approcci vadano letti contemporaneamente, al fine di comprendere l’estrema importanza rivestita, in modi diversi a seconda dei tempi, dalla natura per le differenti popolazioni europee medievali: «Le foreste – dice nel XII secolo san Bernardo a un giovane tentato dalle nuove scuole urbane – ti insegneranno più che i libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che non apprenderesti dai maestri della scienza»[35]. Una centralità così consolidata da non dover essere ribadita in continuazione dalle fonti e in grado di ispirare riflessioni estremamente contemporanee:

L’uomo del Medioevo concepisce se stesso come una realtà incapsulata nella natura, e non deve sorprendere che in un rapporto talmente intricato sia il senso ecologico che quello estetico risultino talmente ovvi, talmente scontati da ritenerne quantomeno pleonastica la segnalazione. Il silenzio in questo caso ci pare indichi una presenza fortissima, non detta esplicitamente proprio perché «indicibile». In fondo, la coscienza ecologica dei nostri tempi nasce anche dalla effettiva lontananza (materiale e culturale) di quelle realtà di cui si rivendica l’importanza[36].

Bibliografia

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NOTE

  1. Alfio Cortonesi, Il Medioevo. Profilo di un millennio, Carocci editore, Roma 2014, p. 97.
  2. Cfr: Ivi, p. 99.
  3. Ibidem.
  4. Si può ritenere infatti che «la crescita demografica abbia avuto inizio, in Europa occidentale, nella fase della riorganizzazione economica e istituzionale progettata e realizzata nei territori dell’impero carolingio tra l’VIII e il IX secolo». Alfio Cortonesi, Luciano Palermo, La prima espansione economica europea. Secoli XI-XV, Carocci editore, Roma 2019, p. 102.
  5. Cfr: Ibidem.
  6. Quando tra XIII e XIV secolo «diviene possibile valutare con migliore approssimazione il numero degli abitanti, ben pochi risultano gli insediamenti la cui popolazione sia superiore ai 50.000 abitanti»: le città più grandi (per estensione e popolazione) sono in Italia (Milano su tutte con i suoi 150.000 cittadini, ma anche Venezia, Firenze e Genova), nelle Fiandre (Gand e Bruges) e in Francia (Parigi). Londra conta 30-40.000 abitanti e in Inghilterra solo quattro centri urbani si attestano intorno ai 10.000. Cfr: Ivi, p. 104.
  7. È il caso dell’aratro a versoio che, provvisto di coltro e talvolta di ruote, garantisce un’efficacia certamente maggiore rispetto all’aratro semplice e dell’introduzione della falce lunga a partire dal XIV secolo. Nel periodo bassomedievale si assiste anche a mutamenti significativi nella trazione animale, come il passaggio dal giogo al collo al collare in spalla, nonché all’affermazione della rotazione triennale rispetto a quella biennale, soprattutto in aree (quelle del Centro-Nord) connotate dall’organizzazione collettiva degli spazi agrari. Cfr: Ivi, pp. 119-124.
  8. Ivi, p. 109.
  9. Cfr: Ivi, p. 17.
  10. In questo periodo il frumento e gli altri cereali diventano sempre più centrali nel regime alimentare europeo. Cfr: Ivi, p. 109.
  11. Ivi, p. 110
  12. Ivi, p. 110.
  13. Cfr: Ivi, pp. 110-112.
  14. Ivi, p. 112. I nuovi insediamenti hanno, a seconda delle aree, denominazioni diverse (villeneuves, bourgs, abergements, villefranches, sauvetés, bastides) a testimonianza della varietà e della vastità del fenomeno che, tuttavia, non deve essere ingigantito, visto che già intorno all’anno Mille «non erano molte nel regno le regioni vuote o quasi di uomini entro le quali i colonizzatori potessero riversarsi».
  15. Cfr: Ivi, pp. 113-114.
  16. Rossella Rinaldi, L’incolto in città. Note sulle vicende del paesaggio urbano tra alto Medioevo ed età comunale, in Il bosco nel Medioevo, p. 201.
  17. Cfr: Cortonesi, Palermo, p. 114.
  18. Paola Galetti, Bosco e spazi incolti nel territorio piacentino durante l’alto medioevo, in Il bosco nel Medioevo, p. 167.
  19. Cfr: Ivi, pp. 167-168.
  20. Cfr: Cortonesi, Palermo, pp. 114-115.
  21. «Probabilmente l’uso dei tre vocaboli varia a seconda delle cancellerie e dei notai che hanno emesso i vari documenti. Nemus infatti viene usato ben nove volte dal notaio imperiale di Bolzano, il quale un’unica volta fa ricorso a silva. Silva appare però sei volte nei documenti della cancelleria imperiale e quattro volte nelle permute effettuate senza l’ausilio esplicito di un notaio. Buscus, d’uso assai limitato, lo si può trovare in tre dei tredici documenti del notaio imperiale di Bolzano presi in esame». Giuseppe Albertoni, Boschi nell’immaginario e boschi nella realtà: riflessioni sulla presenza e l’uso nell’incolto nell’Alto-Adige medievale, in Il bosco nel Medioevo, p. 143.
  22. Ivi, pp. 143-144.
  23. Cortonesi, Palermo, p. 116.
  24. Alfio Cortonesi, La silva contesa. Uomini e boschi nel Lazio del Duecento, in Il bosco nel Medioevo, p. 241.
  25. Cfr: Carmela M. Rugolo, Paesaggio boschivo e insediamenti umani nella Calabria medievale, in Il bosco nel Medioevo, p. 268.
  26. Cfr: Cortonesi, Palermo, p. 116.
  27. Rinaldi, p. 201.
  28. Ivi, p. 205.
  29. Ibidem.
  30. Cortonesi, p. 249.
  31. Ivi, p. 250.
  32. Paola Foschi, Bosco e piccola proprietà contadina nell’estimo del 1315 in Val di Limentra (Appennino bolognese), in Il bosco nel Medioevo, p. 194.
  33. Irma Naso, Una fonte scritta per la storia forestale nel Medioevo: gli statuti delle comunità piemontesi e la salvaguardi dei boschi, in Il bosco nel Medioevo, p. 120.
  34. Cortonesi, p. 255.
  35. In Le Goff, p. 38.
  36. Andreolli, Montanari, pp. 8-9.

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