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Vittorio Bottego: il Destino di un Esploratore

Il nome di Vittorio Bottego potrebbe non esservi familiare, ma non ve ne fate un cruccio. Tanti esploratori italiani, complice il cattivo rapporto tra la storiografia italiana e la vicenda coloniale del Regno d’Italia, non hanno ricevuto la giusta attenzione a livello mainstream.

Eppure, quella di Vittorio Bottego non è una storia di guerra o, almeno, lo è solo parzialmente. Come molti grandi esploratori ottocenteschi, Vittorio è animato da una genuina passione per l’avventura e la scoperta. Il sense of wonder, che ora ricerchiamo nei romanzi, allora guida parecchi uomini.

Non a caso, molti di loro si addentrano in territori sconosciuti, pericolosi, con la concreta possibilità di non fare ritorno. Si tratta di viaggi fisicamente e psicologicamente durissimi, in cui, spesso, le condizioni dei capi spedizione europee non sono molto migliori di quelle dei portatori locali. Non a caso, ed è forse un’anticipazione che non apprezzerete, Vittorio Bottego muore a 37 anni per una strana concatenazione del destino, di cui lo scontro mortale con gli Oromo è solo l’atto finale.

Questo è il primo articolo che gli dedico, ma potrebbero seguirne altri. Qui di seguito, troverete un primo brano estratto dalla narrazione della sua seconda spedizione (1895-1897) fatta dai compagni di viaggio, il sottotenente di vascello Lanberto Vannutelli (1871-1966) e il sottotenente Carlo Citerni (1873-1918) nel 1899 e pubblicata da Hoepli. Essendo scaduto il copyright, sarebbe un onore poter ripubblicare per intero il volume (oltre 700 pagine). Prima o poi.

La spedizione, organizzata sotto l’egida della Società Geografica Italiana, salpa da Napoli il 3 luglio 1895 e raggiunge Massaua (Somalia italiana) il 14 luglio. I preparativi per il viaggio si protraggono per qualche settimana, ma il 4 settembre la spedizione muove i primi passi. Bottego, come si legge nel rapporto della SGI “era stato il capo-spedizione, nel 1892-1893, della fortunata esplorazione alle sorgenti del Giuba, che gli era valsa anche la medaglia d’oro della Società Geografica Italiana.

Nel maggio del 1894, scrisse a Doria per proporre una missione e si candidò per guidarla; nella lettera Bottego suggeriva di affiancare allo “scopo pietoso” anche un altro obiettivo: «togliere il velo che circondava il corso dell’Omo, le popolazioni che lo attorniavano ed il territorio ad occidente del lago Rodolfo e del Caffa». Nei mesi successivi, anche grazie ai contatti tra la Società Geografica e il governo italiano, gli obiettivi della spedizione andarono perfezionandosi: essa doveva partire dal porto di Brava (Somalia meridionale) e, dirigendosi verso Nord, avrebbe dovuto raggiungere Lugh.

Stabilita qui una stazione commerciale, si sarebbe dovuto procedere alla ricognizione delle regioni sud-occidentali della sfera d’influenza italiana, per cercare di risolvere la questione della pertinenza idrografica dell’Omo. Oltre alla conoscenza degli aspetti geografici connessi al fiume Omo, furono definite anche finalità commerciali e soprattutto politiche: una volta raggiunto l’Omo e le regioni circostanti, la spedizione avrebbe dovuto dirigersi a occidente, per raggiungere poi il versante occidentale dell’Altopiano etiopico.

Le direttive politiche del progetto erano strettamente legate al protocollo d’intesa anglo-italiano (24 marzo 1891) relativo alla delimitazione delle aree d’influenza in Africa Orientale: l’art. 2 di questo protocollo dava infatti la facoltà ai soggetti contraenti di modificare il limite stabilito delle due zone d’influenza “previo accordo e in conseguenza di ulteriori esplorazioni che dessero conto delle condizioni idrografiche ed orografiche del paese”. La spedizione venne allora concepita per essere uno strumento per ampliare i confini italiani, limitati a Nord del 6° parallelo: se si fosse rintracciato qualche elemento topografico, corso d’acqua o catena montuosa, che seguendo più o meno questo parallelo si fosse spinto più a Sud di esso, questi elementi avrebbero potuto costituire un “rampino” cui aggrapparsi per ottenere l’applicazione del protocollo in questione.

Inoltre, il suggerimento di spingere la spedizione fino all’Omo e anche al lago Rodolfo, entrambi posti a Sud del 6° parallelo, era da ricollegarsi al principio della priorità dell’esplorazione, che avrebbe egualmente garantito l’ampliamento della sfera d’influenza dell’Italia a territori esplorati per la prima volta da italiani.”

Il brano selezionato inizia proprio con l’arrivo a Massaua e dà molte notizie interessanti sull’organizzazione della logistica e la selezione degli uomini della scorta.

I diari originali della II Spedizione Bottego [copyright: archivio fotografico della Società Geografica Italiana]

All’arrivo ci accolgono altri compagni d’arme, amici, vecchie conoscenze. Tutti fanno a gara nel prodigarci cortesie; tutti hanno per noi una buona parola, un incoraggiamento, una prova di simpatia. Impazienti di muovere verso la meta, ci poniamo senza indugio all’opera per arruolare, armare ed equipaggiar gli uomini della scorta. Ma la cosa non è semplice quanto c’era parso di lontano.

Massaua è una colonia italiana dal 5 febbraio 1885. La sua “conquista” è stata una delle poche acquisizioni coloniali completamente pacifica. I 1.500 bersaglieri, al comando del colonnello Tancredi Saletta, entrano in città senza sparare un colpo. La guarnigione egiziana del posto viene assoldata in toto dagli italiani.

Pochi ci si offrono volentieri, preferendo servire il Governo della Colonia, che, a rinforzare il presidio, assolda quanti ascari può. Onde bisogna raddoppiare d’attività, correr giornate intere, cercar la cooperazione di amici, diffonder la voce della richiesta per venire a capo di qualcosa, e non perdere tempo. Ma sulle prime i risultati sono scoraggianti.

Per fortuna, ci si presentano, fra gli altri, Ismail Omar e Hummed Ali, due fedeli ascari che avevano già servito nella prima spedizione sul Giuba. Vengono per salutare il Capitano; e saputo che s’intrapende un nuovo viaggio, offrono d’arruolarsi e s’ impegnano di andare in cerca di altri compagni. E noi promettiamo loro in premio un tallero per ogni uomo volenteroso che condurranno. Mercé dell’opera loro, riusciamo in breve a raccogliere un centocinquanta volontari. Ma lo stare da mattina a sera sotto la canicola di Massaua a raccogliere informazioni e scrivere lo stato di servizio d’ogni uomo che si presenti, è un bell’esercizio di pazienza.

Com’è naturale, in mezzo a tanta gente, se v’hanno dei bravi ragazzi, ci sono anche de’ bricconi, che speran vivere allegramente alla ventura. Molti tra i convenuti presentano, come attestato di benservito, il foglio di congedo dalle truppe coloniali, nel quale è detto, per esempio, che furono espulsi per insubordinazione, ubbriachezza, ecc., colpe in verità non troppo gravi per noi che andiamo in cerca di gente pronta ad ogni sbaraglio. Tuttavia l’arruolamento procede lento; per cui, a invogliare altri, cominciamo a vestire gli assoldati; e per tenerli sempre pronti, li obblighiamo a presentarsi ogni giorno, e a ciascuno che si presenti diamo quotidianamente una lira in conto della paga pattuita.

Gli arruolati fan pompa della divisa: alcuni tra i più vanitosi passeggiano pavoneggiandosi con la pesante mantellina da bersagliere sulle spalle, noncuranti del solleone. Mentre ci si affanna a radunar gente, convien pensare alle mercanzie di scambio, come tela, cotone, fil di rame, ecc.; ai medicinali, ai pochi farinacei, e ai condimenti per noi Europei. Il contrattare con mercanti d’ogni sorta è cosa che opprime e mette a prova la pazienza, essendo costume, oramai sanzionato da lunghissimo tempo, che per comperare ogni piccola cosa le trattative diventino interminabili, tanto più se chi vende si accorge che d’una tal cosa non potete fare a meno! Egli cerca allora ogni mezzo per farvela pagare a peso d’oro.

Bisogna poi imballare, disporre nelle cassette e distribuire ogni cosa in guisa da poter esser comodamente someggiata [portata dalle bestie da soma]. Cosi conviene comporre i carichi in modo che non sian troppo grevi e ingombranti, dividere uno stesso genere di roba in più some, si che ove una si perda, non s’ abbia a rimaner privi affatto di quel genere stesso. Tutto poi s’ha da preparare in maniera che la pioggia, l’umidità o gli urti non abbiano a recarvi danno.

E in questo che si è detto non c’è neppure quanto basti per capire solo in parte quale improbo lavoro sia l’allestire una spedizione. Il numero degli ascari arruolati, nonostante i nostri sforzi, non è cresciuto, onde siam costretti ad assoldare qualche Abissino o Galla o Somalo, che l’esperienza consiglierebbe di respingere come pericoloso. Per buona sorte l’autorità locale ci permette di levar gente anche tra i galeotti del penitenziario di Nocra [costruito nel 1887, diventerà un vero e proprio campo di concentramento negli anni’30 del XX secolo]. Costoro non avranno diritto che a metà della paga stabilita per gli altri; ma in compenso ricevono la promessa d’esser liberati al ritorno, a patto che se ne Sian mostrati meritevoli.

Le prigioni rispondono volentieri all’appello: settanta giovani robusti e svelti accorrono nelle nostre file, scelti bensi fra i più baldi, ma non fra gli Abissini, i Galla e i Somali. Frattanto, per non perder tempo, il dottor Sacchi parte per Brava a comperare, riunire e farci trovare pronti quanti cammelli son necessari. Il grosso della spedizione lo seguirà sulla R. Nave Dogali, messa dal Ministero della Marina nostra disposizione. Gli ascari già assoldati, intanto, trovandosi in ozio e con una lauta mercede giornaliera, si danno a far pazzie e in breve mettono a soqquadro mezza Massaua: piovono quindi reclami d’ogni parte per offese all’altro sesso, per risse, e per bastonate date e ricevute.

Giacchè poi non potrebbe il Dogali accogliere a bordo tutti in una volta i 250 ascari che devonsi imbarcare per aver completo il nostro piccolo esercito, e dovendosi per di più menare a Brava alcuni muli qui acquistati che non posson comperarsi laggiù, cosi Vannutelli ci precede col vapore postale, menando seco un primo distaccamento di 42 ascari, 30 muli e una parte delle salmerie. Il 14 settembre, tutto essendo finalmente pronto, ascari, bagagli, casse, ed ogni altra cosa, passano a bordo del Dogali che si prepara a salpare. A sera, gli ufficiali presenti in Massaua c’invitano a un pranzo d’ addio, ove tra i saluti più caldi e i più fervidi auguri, ci affidano, con gentile pensiero di patriotti e di soldati, la bandiera nazionale che, simbolo della grandezza d’Italia e del progresso civile, sventolerà sotto il sole d’ignote contrade. Sul cofano che conteneva quel sacro deposito era scritto:

Calde, affettuose parole, ardenti di patrio affetto e di nobile entusiasmo rivolse allora ai compagni il Capitano accomiatandosi. Chi avrebbe pensato mai che fra tanti e cosi cari amici che allora ci salutavano baldi e sicuri, pochi avrebbero riveduto la terra nativa? All’alba del dimani, nuove strette di mano, nuovi saluti ed auguri; poi il Dogali si mette in moto! Una nube di lieve malinconia ci vela l’anima; ma si dilegua al dileguarsi di Massaua, lasciando tornare il brio e l’allegrezza. In Aden, ove facciamo una breve sosta, ci accoglie il R. Console Sig. Bienenfeld, colmandoci, come suole, della sua splendida cortesia. II 10 ottobre finalmente il Dogali giunge a Brava.

La prima vista di questa sabbiosa e ignuda costiera dell’Africa Orientale è addirittura desolante, come l’aspetto del paese è misero e triste. Ivi rivediamo Sacchi, giuntovi pochi di innanzi. Vannutelli, sbarcato a Kisimajo, vi s’era fermato due giorni, accoltovi con ogni riguardo dal Residente britannico. Egli giunse poco dopo in Brava per via di terra, menando seco gli ascari e i muli. Ivi anche Ugo Ferrandi si unisce a noi, prescelto dal Capitano per dirigere la stazione commerciale, che fonderemo a Lugh. Egli sarù nostro compagno di viaggio fin là. Ferrandi da alcuni anni viveva, quasi da eremita, sulla costa in mezzo a queste popolazioni poco men che selvagge, vero pioniere della civiltà, adoperandosi, con dolcezza e con rara pazienza, a destar negli indigeni l’amore per la giustizia e pel lavoro.

Ora comincia per noi un altro compito penoso: il comporre ed ordinare la carovana. I 250 ascari arruolati son divisi in sei buluk, o drappelli, a ciascuno dei quali vengono preposti un bulukbasci e un muntaz. Si distribuiscono poi, fra i meglio adatti, le incombenze speciali di sarto, calzolaio, trombettiere, cuoco, sellaio, attendente, ecc.

II nostro manipolo è in verità un’accolta di genti diverse per razza, lingua e origine. Ve n’ hanno d’ogni sorte; dai condannati all’ergastolo per rapina, omicidio od altro, ai migliori ragazzi di questo mondo. Alcuni, tra i più facinorosi, come se raccontassero prodezze, si vantano d’aver ucciso due, tre, sino a sette uomini, or combattendo, ora rubando..! Non si direbbe, a prima giunta, che quei neri dall’indole ardente, dallo slancio spontaneo, dall’istinto spensierato, in fondo in fondo non sian davvero che fanciulloni.

In questi giorni scacciano i tristi pensieri, se pur ne hanno, abbandonandosi alle orgie più sfrenate, e son quasi di continuo ubriachi. Sorvegliare tanti sfaccendati di tal genere non è fatica da prendere a gabbo; e chi volesse scrivere la storia di ognuno di loro, troverebbe da mettere insieme un bel volume ricco di fatti curiosi.

Non mancano neppure i sacerdoti: ne abbiamo due, cristiano runo e musulmano l’altro. Vengono entrambi da Nocra. Questo che ha nome Mohammed Abd-el-Cader, condannato a 17 anni di reclusione qual mercante di schiavi, sembra uomo intelligente, e fin d’ora ha un grande ascendente su tutti i suoi correligionari che gli danno dello sceicco; l’altro, il cristiano, Tafari Negussè, condannato a 10 anni per furto, un tigrino di Adua, non ha altro merito, a quanto sembra che il saper scrivere l’arnharico [lingua parlata dagli abissini] Non ha alcuna autorità sui suoi, sempre restii ad ogni vincolo, sia pur religioso, al quale si adattano sol quando conviene.

Tuttavia a tali sacerdoti vengono dati incarichi di fiducia, si che oltre la cura delle anime, spetta loro il delicato servizio di polizia. Un altro incarico fra i più importanti è quello d’interprete, al quale ufficio bisogna scegliere coloro, sulla cui intelligenza e fedeltà non corra dubbio. In questo affare, convien dire che la fortuna ci fu propizia. Il più intelligente era Iscar Mohammed che sapeva scrivere in italiano, ed era per di più un eccellente preparatore di animali per raccolte.

Un altro, un bulukbasci, che poteva anche dirsi il factotum della carovana, era Mohammed Seid, un uomo sulla quarantina, che si sarebbe preso per un giovinotto. Nato a Massaua, era stato al servizio dell’Egitto, poi aveva fatto parte di una compagnia di saltimbanchi, che corse l’Europa rappresentando nei circhi scene e avventure selvagge. Egli simulava in quelle l’uomo selvatico, che mangiava crudi sul palcoscenico polli e gatti. Facendo quel mestiere era stato in Italia, in Francia, in Germania e in fine, più povero di prima, se n’era tornato a Massaua.

Vittorio Bottego
Vittorio Bottego

Aveva guadagnato un migliaio di talleri, ma li aveva sciupati nelle città d’Egitto, salvando a mala pena i denari per il viaggio di rimpatrio. Assoldato nelle nostre truppe coloniali, fu ascaro di cavalleria, di fanteria e poi zaptiè. Al nostro giungere a Massaua era disoccupato; arruolatosi, parti con noi lasciando moglie e quattro figli, e si distinse subito per grande versatilità e prontezza in ogni cosa. Conoscitore perfetto di tutte le lingue e di tutti i dialetti parlati dai soldati, poteva anche egli fare un ottimo servizio di polizia. Parlava pure benissimo l’italiano e balbettava qualche parola di francese e di greco. Vero intrigante quanto mai, ma in fondo poteva render utili servizi, e li rese infatti dimostrandosi sopra tutto assai fedele.

Ma sulla fedeltà degli uomini conviene non illudersi; anzi essere accorti sempre, e, per prevenire diserzioni e tradimenti, bisogna investigare quanto avviene nel campo, avere insomma un perfetto servizio di spionaggio. Chi specialmente ebbe incarico di questo fu Mohammed il Monchino, Arussi di Bile, che, trovato dal Capitano nel suo primo viaggio, fu da lui condotto in Italia, ove visse sino alla nuova partenza. Della sua fedeltà non c’era da dubitare. Veramente a lui non era molto piaciuto il tornare nelle suo terre, ma la promessa fattagli di procurargli durante il viaggio una bella moglie, che al ritorno avrebbe condotta seco in Italia, lo rendeva contento e lo stimolava a ben fare.

In Brava si unisce noi anche Mohammed Urkei. Egli è l’amico dei frengi, colui che a Lugh salvò da sicura morte Dal Seno e Borchardt, quando il popolo inferocito voleva ucciderli; e poi accompagnò alla costa il Capitano nel suo primo viaggio. È un vecchietto molto asciutto, e abbastanza intelligente. per vari unni fu segretario del sultano di Lugh; è commerciante valoroso, uomo che ha viaggiato e conosce bene i porti dell’Africa Orientale e Zanzibar; perciò è tenuto in gran conto specialmente a Lugh. Egli ha casa e mogli da per tutto, a Brava, Morca, a Mogadiscio, a Lugh. Ad uno dei suoi figli, per gratitudine, pose nome Bòttego. Da lui parti il consiglio ai Lughiani di chiedere l’aiuto Italia.

Mercé dell’opera di Urkei giungiamo in breve completare il numero degli animali e ad assoldare 10 cammellieri indigeni sotto gli ordini di Omar Abd-el-Nur. Sembra costui un Somalo leale e degno di fede; egli s’impegna ad accompagnami fino a Lugli, e riportar poi sino alla costa la nostra corrispondenza. Terminati i preparativi, al veder la lunga fila di balle, di casse, di tende e d’altro c’ è da perdersi d’animo. Trattasi di quasi 20 tonnellate di peso che bisogna trasportare. Occorrono 140 cammelli e per ogni cammello un uomo che lo guidi. Cosi non ci rimarrebbero che ben pochi uomini liberi pronti per la difesa con le armi e per menare innanzi le mandrie di bestie da macello. Ma non è possibile, dal bel principio, pensare a diminuire il delle salmerie nè quello delle vettovaglie. Il consumo provvederà…

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3 pensieri riguardo “Vittorio Bottego: il Destino di un Esploratore

  1. Spero e credo che qui troverò un racconto dell’avventura di Bottego non così intriso di ideologia terzomondista come quello di Del Boca, che lo fa passare per poco meno che un pazzo omicida.

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