Il Congresso Internazionale della Pace di Ginevra (1867) è figlio di un processo decennale, fulcro del pacifismo moderno organizzato, schiacciato dai venti di guerra e sepolto dalla storia. Fino a ora.
«L’Impero è la pace», aveva dichiarato Napoleone III nel 1852 a Bordeaux, dopo essere divenuto imperatore il 2 dicembre dell’anno precedente. La guerra di Crimea prima (’53-’56), l’impegno nella seconda guerra di indipendenza italiana poi (’59-’60), la costante volontà di ampliare i propri confini verso il Reno: sono tutti fatti che smontano progressivamente la presunzione di quell’affermazione.
Nel marzo ’67, la Francia si accorda con i Paesi Bassi per l’acquisizione del Lussemburgo. L’accordo sembra siglato, quando la Prussia di Guglielmo I e del cancelliere Otto von Bismarck, fresca vincitrice della guerra contro l’Austria (battaglia di Sadowa, 3 luglio ’66) e guida indiscussa della nuova confederazione tedesca, si oppone. Bismarck rifiuta, infatti, di ritirare la guarnigione presente da tempo sul territorio. La tensione è lampante, ma i prodromi del futuro conflitto franco-prussiano si sgonfiano nei mesi successivi, risolvendosi nella Conferenza di Londra dell’11 maggio, che sancisce la neutralità e l’indipendenza del Lussemburgo.
Commenta lo storico Michele Sarfatti: «Questo accordo fu reso possibile dal desiderio di Bismarck di non apparire come l’iniziatore di una guerra offensiva e dalla ancora non completa ristrutturazione dell’armamento dell’esercito francese»[1]. Eppure, proprio quest’esito sarà un fattore determinante di quella che Sarfatti stesso definisce una vera e propria sollevazione di ‘massa’ pacifista. Una definizione da prendere con le molle e da relazionare al contesto dell’epoca, ma indubbiamente esplicativa della situazione corrente.
Ma che significa essere pacifisti nell’Europa del XIX secolo? Di cosa ha bisogno la pace per essere attuata? Quali conseguenze determinerebbe concretamente? Procediamo con ordine.
Il pacifismo moderno organizzato prende le mosse dalle Peace Societies di New York, dell’Ohio e del Massachussets, fondate tra il 1815-’16, a cui seguono la londinese Society for the promotion of permanent and universal peace e altre realtà in diversi paesi europei:
«L’ispirazione di questi gruppi era essenzialmente religiosa […] Essi mantenevano stretti legami con le organizzazioni che si battevano contro la pena di morte e – specialmente in America – contro lo schiavismo, mentre si astenevano volontariamente dal prendere posizione sulle questioni più prettamente politiche»[2].
Nel bel mezzo delle sollevazioni del ’48, a Bruxelles viene convocato il primo Congresso degli amici della pace universale, che sarà seguito negli anni successivi da quelli di Parigi, Francoforte e Londra. Sono eventi partecipati, catalizzatori delle tesi pacifiste degli ultimi decenni. Tuttavia, il colpo di stato di Napoleone III e la successiva guerra di Crimea arrestano gli entusiasmi, facendo sprofondare il tema nel dimenticatoio, proprio fino al ’67, quando i grandi conflitti precedenti possono dirsi conclusi, ma altri già si stagliano all’orizzonte. Quello franco-prussiano spaventa ancor più dei precedenti:
Questa volta essa sarebbe stata apertamente e senza alcuna possibilità di equivoco una guerra fra due nazioni, fra due popoli, fra due ‘patrie’. E, al di là dei regimi politici che li guidavano, le caratteristiche dei due contendenti erano tali che il loro scontro avrebbe sicuramente lacerato in profondità il continente, e colpito pesantemente le sue componenti progressiste[3].
Dunque bisogna agire. La Francia, con la sua vena internazionale e progressista, è il paese in cui queste correnti si (ri)organizzano. Tra il ’63-’66, attorno alla piccola Lega universale del bene pubblico di Edmond Potonié[4], si erano raggruppate personalità fondamentali per gli sviluppi successivi: da Richard Cobden a Giuseppe Garibaldi, da Frédéric Passy a Eugène Chemalé. Se Cobden, che è nell’ambiente pacifista almeno dal Congresso del ’48, sostiene il raggiungimento della pace attraverso l’istituzione e il corretto funzionamento del libero mercato, Chemalé e Passy sono i promotori di due associazioni nella primavera del ’67.
Il primo è uno dei maggiori sostenitori della Lega internazionale del disarmo, la quale si presenta fin da subito come una costola dell’Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) e ha una storia del tutto embrionale. Il secondo è il fondatore della Lega internazionale e permanente della pace, continuatrice dei progetti precedenti e per questo confinata in un terreno pacifista ideale, determinato dall’accettazione della situazione politica esistente.
Ben diversa è, invece, la prospettiva che porta al Congresso internazionale della pace di Ginevra. La necessità di quest’assise viene evocata dal sansimoniano Charles Lemonnier con una lettera al giornale democratico di Nantes Le Phare de la loire, accolta positivamente dal direttore Evariste Mangin, il quale rilancia la proposta con l’articolo Un congrès de la paix. Gli eventi si sviluppano rapidamente e già a maggio un Comitato organizzativo, composto da dodici membri capitanati da Lemonnier e dall’avvocato Acollas, si riunisce a Parigi.
L’11 giugno viene emanato il manifesto programmatico. In poche righe, la pace viene presentata in una forma del tutto innovativa, intrinsecamente legata alla libertà, alla democrazia, ai diritti e alla fondazione di una confederazione dei popoli, da raggiungere attraverso il Congresso ginevrino di settembre. Perché Ginevra? La Confederazione elvetica si presenta come il luogo ideale per due ragioni principali: la sua struttura federale (un piccolo modello di ciò che si vuole realizzare in grande) e la sua neutralità internazionale.
Inoltre, Ginevra, la patria di Calvino e Rousseau, è la terra che offre asilo agli esuli francesi (ostili al bonapartismo) e in cui tra il ’63-’64 è stata fondata la Croce Rossa. Come rimarca Jules Barni nel suo discorso di apertura del 9 settembre, in Svizzera:
Lavoriamo per opporre allo spirito allo spirito cesareo lo spirito repubblicano, allo spirito militaresco lo spirito civico, allo spirito centralizzatore lo spirito federativo; in una parola, allo spirito di dispotismo e di guerra, lo spirito di libertà e di pace[5].
Proprio Barni, professore di filosofia in esilio volontario e curatore delle opere kantiane in francese, a luglio dà vita ad un secondo Comitato organizzativo a Ginevra, che conta otto membri (di cui sette svizzeri) e i cui compiti sono puramente pratico-organizzativi.
La presidenza viene affidata al politico radicale James Fazy, il quale, volendo sfruttare l’occasione per riportarsi al governo della città, si rivelerà uno dei massimi oppositori interni all’assise. Tuttavia, già in questo momento, non si dimostra in grado di condurre il percorso verso il Congresso, in quanto la sua posizione ricalca quelle delle iniziative pacifiste precedenti, non prefigurando di entrare nella sfera politica per intaccare le scelte dei singoli stati. Per questo, a fine luglio viene sostituito da Barni, mentre i membri diventano sessanta, provenienti dai diversi paesi europei.
La struttura internazionalista prende finalmente piede, alla luce di un’idea estremamente decisa di federazione: gli Stati Uniti d’Europa. Nel suo saggio del ’72, Lemonnier ripercorre la storia di questo termine, profondamente kantiano nei contenuti:
«Riassumendo, la conclusione pratica del Saggio sulla pace perpetua è l’affermazione della necessità di una Costituzione federale dei popoli europei, oltre che la dimostrazione della possibilità di questa federazione, verso cui le nazioni vengono spinte da tutte le correnti della civilizzazione»[6].
Il primo ad utilizzare esplicitamente questo termine è Carlo Cattaneo, che conclude la sua Dell’insurrezione di Milano del 1848 con: «avremo pace vera, quando avremo gli Stati Uniti d’Europa»[7]. Il modello di Lemonnier sono evidentemente gli Stati Uniti d’America, con la loro federazione di trentasei stati, ciascuno dei quali è una nazione a sé (col proprio governo, le proprie finanze, la propria milizia) legata alle altre:
Trasportiamo dall’America all’Europa la costituzione politica di cui abbiamo appena abbozzato i tratti principali. Al posto dei singoli Stati la cui Unione forma gli Stati Uniti d’America mettete le principali nazioni d’Europa, la Francia, la Germania, l’Italia, l’Inghilterra, la Spagna, l’Austria, la Grecia, il Belgio, la Svizzera, l’Olanda, la Danimarca, la Svezia. […]
Immaginate che ognuna di queste nazioni, ciascuna mantenendo beninteso la sua piena autonomia, la sua indipendenza, il suo governo, la sua amministrazione interna, dia il consenso alla formazione di un governo generale europeo al quale venga assegnata la funzioni di governare ed amministrare gli interessi generali e comuni della federazione, in modo da avere da questa parte dell’Atlantico, di fronte agli Stati Uniti d’America, gli Stati Uniti d’Europa. Ebbene, a questo punto non attaccatevi ancora una volta alle difficoltà di realizzazione, se ne discuterà più tardi, ma chi non sarebbe colpito dalla potenza, dalla moralità, dalla grandezza dei risultati?[8].
Questo passo sintetizza bene l’orizzonte di senso di una nutrita parte (la maggioranza) dell’assise ginevrina. Perché sperperare risorse (materiali e intellettuali) per farsi la guerra tra stati, quando si può vivere assieme e meglio in pace? È a questa domanda che il Congresso vuole rispondere, attraverso una proposta concreta, come rimarca lo stesso Lemonnier durante il suo intervento:
«Il congresso della pace è un congresso anche politico […] Noi siamo venuti tutti qui per lavorare su un’impresa seria, non già per parlare, ma per compiere un’azione»[9].
Un’impresa che vede coinvolti personaggi, posizioni e movimenti eterogenei. Ci sono repubblicani, democratici, socialisti, progressisti, sansimoniani, massoni, Edgar Quinet, John Stuart Mill, Michail Bakunin… Giuseppe Garibaldi, come presidente onorario. L’idea dell’eroe dei due mondi come rappresentante di un evento di questo tipo potrebbe far storcere il naso a molti, soprattutto a quelli che si rifanno alle sue parole, secondo cui la guerra es la verdadera vida del hombre[10]. Ma Garibaldi non è certo un guerrafondaio e la ricerca della pace occupa una parte significativa della sua riflessione, così come la prefigurazione di una federazione europea. Si era espresso così poco dopo la battaglia del Volturno:
Per esempio, supponiamo una cosa: Supponiamo che l’Europa formasse un solo Stato. Chi mai penserebbe a disturbarlo in casa sua? Chi mai si avviserebbe, io ve lo domando, turbare il riposo di questa sovrana del mondo? Ed in tale supposizione, non più eserciti, non più flotte, e gli immensi capitali, strappati quasi sempre ai bisogni ed alla miseria dei popoli per essere prodigati in servizio di sterminio, sarebbero convertiti invece a vantaggio del popolo in uno sviluppo colossale dell’industria, nel miglioramento delle strade, nella costruzione dei ponti, nello scavamento dei canali, nella fondazione di stabilimenti pubblici, e nell’erezione delle scuole che torrebbero alla miseria ed all’ignoranza tante povere creature[11].
Sembra di leggere Lemonnier. Nonostante ciò, il condottiero, vittorioso a Bezzecca poco più di un anno prima (21 luglio ’66) e in procinto di vivere la cocente delusione di Mentana (3 novembre ’67), in un primo momento rifiuta l’invito del comitato organizzativo. Sarebbe potuta essere un’altra grande assenza, assieme a quelle di Mazzini e Marx[12]. Col passare delle settimane, Garibaldi, impegnato a preparare l’impresa romana, capisce che la platea ginevrina può essere un’ottima alleata per la sua missione. Lo storico Alfonso Scirocco è molto schietto in proposito:
«Ginevra diventa la tribuna ideale per proclamare la crociata contro il papato, garantirsi il sostegno del mondo liberale alla lotta contro questa istituzione […] tutti capiscono che va a Ginevra per protestare davanti all’Europa contro il malvagio governo del papato e contro la protezione francese»[13]. Se è evidente dunque che il Congresso fa gioco a Garibaldi, è indubbiamente vero anche il contrario. Fin dal suo arrivo in città, l’8 settembre, viene accolto con grande clamore dalla popolazione locale: «era il mito dell’Eroe che trascinava i ginevrini, che generava curiosità ed entusiasmo presso gli stessi cattolici»[14]. Allo stesso modo, il suo ingresso in aula, l’abbraccio con Bakunin e il suo intervento a conclusione del primo giorno di assemblea sono tutti momenti che raccolgono piogge di applausi.
Da giugno a settembre i due comitati organizzativi (di Parigi e Ginevra) portano avanti una campagna mediatica intensa, attraverso conferenze in tutto il continente. Al momento dell’apertura dell’assise, lunedì 9 settembre, i firmatari del manifesto di convocazione sono 10.666, un numero del tutto parziale, sia perché molte delle liste non vengono riconsegnate sia in quanto intere società vengono conteggiate spesso come una sola presenza. I partecipanti effettivi sono 5.915, con «una forte prevalenza locale ed una presenza internazionale assai consistente e del tutto nuova per quei tempi»[15]. Ci sono anche delle donne, le quali hanno il diritto di votare le risoluzioni, ma non possono prendere direttamente la parola.
Durante i quattro giorni di lavoro l’unica donna a parlare indirettamente è Fanny Lewald-Stahr, la redattrice dei Dieci articoli contro la guerra, esposti durante la terza seduta da Karl Vogt. I congressisti si riuniscono nella sala del Batiment électoral, concessa dalle autorità cittadine. La tribuna d’onore è occupata dal comitato direttivo: a fianco di Garibaldi siedono il presidente effettivo Pierre Jolissaint e il vicepresidente Barni.
La prima seduta è aperta da una lettera di Camperio, presidente del Dipartimento di giustizia e polizia di Ginevra, in cui si ribadisce che «i congressisti potranno usufruire della libertà di pensare e di discutere la plus illimitée»[16]. È la legittimazione dell’approccio democratico radicale (almeno per i tempi) voluto fin dall’inizio dal comitato organizzativo ginevrino. Quest’assoluta libertà di partecipazione e di parola rappresenta un’arma a doppio taglio per il buon esito del Congresso: un dibattito sincero, intenso, animato dalle prospettive eterogenee presenti, ma contaminato dalle proteste degli oppositori, non sempre in buona fede, che vogliono sabotarlo dall’interno. L’ostilità è manifestata da gruppi minoritari, ma non per questo inconsistenti. Innanzitutto, gli agenti della polizia bonapartista e probabilmente anche delle altre grandi potenze europee.
Poi l’ala radicale capitanata dal già presentato Fazy, affiancato dal giornale La Suisse Radicale:
«quanto il suo comportamento fosse strumentale, lo dimostrerà lui stesso durante le quattro giornate del congresso, quando, sostenuto dall’amico Carteret, si troverà a scavalcare gli stessi conservatori ginevrini nel tentativo di affossarne le conclusioni»[17]
Infine, i conservatori, appunto, riuniti nel cosiddetto partito dei timidi svizzero, sostenuto da testate quali il Journal de Genève e la Democratie Suisse. Proprio il Journal ospita, la mattina di mercoledì 11, una lettera di protesta dell’ultima componente avversa ai lavori, quella cattolica. I cittadini cattolici si risentono dell’aggressività di una parte degli interventi in aula contro il papato e la loro fede:
Sotto il pretesto del Congresso della pace, abbiamo udito delle parole che sono un’incitazione alla guerra civile, una violazione del rispetto dovuto alla coscienza della metà degli abitanti del cantone di Ginevra. A tutela del nostro onore dobbiamo levare una protesta pubblica e manifestare vivamente la nostra intenzione di vedere rispettate tutte le nostre libertà, soprattutto le nostre libertà religiose. La nostra neutralità è la garanzia della nostra sicurezza per l’avvenire, come lo è stata per il passato[18].
Spetta dunque a Jolissaint e ai fedelissimi (Barni, Lemonnier, Amand Goegg e altri) mantenere le redini del Congresso per tutta la sua durata, permettendo di arrivare alla risoluzione proclamata giovedì 12, in un clima tutt’altro che disteso: «L’unico tema all’ordine del giorno è lo scontro tra i fazysti, ormai affermatisi come il principale centro di opposizione del congresso, e lo schieramento democratico-repubblicano appoggiato dai socialisti»[19]. Fazy e Carteret insistono fino all’ultimo per aggiornare l’assise senza alcuna risoluzione, discutendo unicamente della sua riconvocazione, ma vengono sconfitti dalla maggioranza dell’assemblea.
La risoluzione prevede la fondazione della Lega internazionale della pace e della libertà e del suo giornale franco-tedesco Gli Stati Uniti d’Europa. I principi e gli obiettivi di questi organismi sono quelli elaborati ampiamente nel corso dei mesi e prevedono diversi tipi di lotta: contro le monarchie, in favore dei regimi repubblicani; contro gli eserciti permanenti, per l’instaurazione di milizie volontarie; per il miglioramento della classe operaia, senza appiattirsi alle posizioni dell’AIL; contro l’ignoranza e i pregiudizi, puntando all’istruzione pubblica e alla diffusione dei lumi. Insomma, finalità interconnesse in vista di una grande meta comune: la fondazione di una federazione di stati europei.
«Il principio – scrive Lemonnier nel ’72 – sul quale si fonda la creazione degli Stati Uniti d’Europa, cioè l’istituzione giuridica di una Federazione di popoli, è il principio medesimo della Repubblica, che altro non è che il principio stesso della morale»[20]. Il Congresso si propone di attualizzare e concretizzare il disegno prospettato da Kant, inaugurando un percorso decennale di conferenze ed iniziative volte a considerare il tema della pace nella sua accezione più politica possibile, almeno fino al grande Congresso universale della pace a Parigi nel 1889. Ma allora perché, si chiede retoricamente Francesco Gui, «risulta tuttora improbabile ritrovare nelle storie, ovvero nei manuali scolastici, una qualche efficace citazione di tanto egregia esperienza?»[21].
La risposta, fornita subito dopo dal professore, va rintracciata nel trionfo della guerra (da quella franco-prussiana nell’immediato, fino ai due conflitti mondiali) sulla pace:
E pertanto si possono anche comprendere sia storici che narratori politici per i quali, salvo onorevoli eccezioni, è risultato spontaneo considerare i convenuti di Ginevra del ’67 degli inguaribili quanto trascurabili buonisti. Gente ingenua insomma, quei convenuti perdenti, che nulla avrebbe compreso di dove andasse davvero il mondo, di quanto dura e cruda fosse la verità vera. E allora che motivo c’era di farne ancora parola? Quanto poi all’Europa federata, è noto che al di là delle Alpi, ma anche di qua, essa suscita tuttora in molti un senso di fastidio, se non di ripulsa[22].
Di motivi per riesumare quest’evento ce ne sono almeno due. Il primo è quello della ricostruzione storica, come si è provato a fare brevemente (e quindi parzialmente) in questo articolo. Il secondo, conseguenziale, riguarda il confronto col presente. Questo controverso ed eterogeneo Congresso può rappresentare l’occasione per elevare la qualità dello stantio dibattito contemporaneo, ragionando su termini impiegati oggi con troppa frenesia, ingenuità e parzialità. Si pensi al rapporto tra stato nazionale e federazione europea. Scrive lo storico Patrick Pasture:
L’associazione tra nazionalismo e europeismo può apparire sorprendente agli occhi di coloro che, da una prospettiva “presentista” e “acronica” (e discutibile dal punto di vista teorico), immaginano una contraddizione tra una visione europeista e il nazionalismo. Eppure, essa è essenziale per ben comprenderne le origini. Nazionalismo ed europeismo andavano di pari passo come movimenti liberatori: la nazione costituisce in questa ottica il fondamento della repubblica e il contrario del regime assolutista[23].
Un concetto di cosmopolitismo moderato propriamente kantiano, incarnato da diversi patrioti (come Garibaldi) e ribadito dallo stesso Lemonnier, visto che per costituire l’Europa non si tratta affatto:
«di distruggere le nazionalità, di indebolire il patriottismo. Al contrario, la concezione stessa di una Federazione europea suppone e coinvolge una pluralità di nazioni, una distinzione tra gli Stati, una diversità: la patria, di conseguenza, ossia anche il campanile!»[24]
Altri tempi certo, con i propri problemi relativi al contesto specifico, ma non per questo estranei alla nostra realtà.
NOTE
- Michele Sarfatti, La nascita del moderno pacifismo democratico ed il Congrès international de la paix di Ginevra, Edizioni Comune di Milano, 1981, p. 12. ↑
Ivi, p. 6. ↑
- Ivi, p. 9. ↑
- Potonié stesso scriverà che la sua Lega ha rappresentato il punto di contatto tra il movimento precedente della pace e la grande agitazione pacifista del ’65-’70. Cfr: Ivi, p. 10. ↑
-
Carlo Moos, Il Congresso del 1867, la Svizzera e l’Europa, in Charles Lemonnier, Gli Stati Uniti d’Europa, Bulzoni editore, Roma 2018, pp. 163-164. ↑
-
Lemonnier, op. cit., p. 56. ↑
-
Alessandra Anteghini, La figura di Charles Lemonnier, uno dei padri degli “Stati Uniti d’Europa”, In Lemonnier, op. cit., p. 116. ↑
-
Lemonnier, op. cit., p. 77. ↑
-
Anteghini, op. cit., p. 114. ↑
-
Jean-Yves Frétigné, Perché Garibaldi è la figura tutelare del Congresso di Ginevra del 1867?, in Lemonnier, op. cit., p. 156. ↑
-
Sarfatti, op. cit., pp. 42-43. ↑
-
Mazzini si considera perfettamente in linea con l’intenzione dei congressisti, ma non ne condivide le modalità. Egli crede, infatti, che ci sia bisogno di «un’ultima, una grande, una santa crociata, una battaglia di Maratona a vantaggio dell’Europa». Marx, da massimo dirigente dell’AIL a Londra, teme che il Congresso possa rappresentare un pericolo per la propria associazione in un duplice senso: assimilazione o concorrenza. Inoltre, egli considera irrealistico parlare di disarmo in un contesto di grande tensione, soprattutto a causa dello spirito reazionario e bellico della Russia. Dopo un’iniziale volontà di adesione generalizzata al Congresso, gran parte dell’AIL sposa la sua posizione, tanto che a Ginevra si presenta soltanto una minoritaria delegazione ufficiale. Cfr: Sarfatti, op. cit., pp. 32-33, 38-39. ↑
-
Fretigné, op. cit., pp. 154-155. ↑
-
Sarfatti, op. cit., p. 46. ↑
-
Ivi, p. 48. ↑
-
Ivi, p. 54. ↑
-
Ivi, p. 52. ↑
-
Estratto della lettera di protesta dei cittadini svizzeri e ginevrini al Journal de Genève. Giuseppe Monsagrati, La protesta dei cattolici di Ginevra contro la visita di Garibaldi, in Lemonnier, op. cit., p. 183. ↑
-
Sarfatti, op. cit., p. 70. ↑
-
Lemonnier, op. cit., p. 91. ↑
-
Francesco Gui, Presentazione, in Lemonnier, op. cit., p. 12. ↑
-
Ibidem. ↑
-
Patrick Pasture, I molteplici volti degli Stati Uniti d’Europa verso gli anni Sessanta dell’Ottocento, in Lemonnier, op. cit., p. 187. ↑
-
Lemonnier, op. cit., p. 92. ↑
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