La Disfida di Barletta è uno dei capitoli della storia italiana più difficili da raccontare. Specie dopo l’opera di D’Azeglio, è diventato un momento formativo e corroborante dello spirito italiano risorgimentale, ma questo ha comportato qualche problema di parzialità nella narrazione storica dell’evento.
Qui sotto, troverete la ricostruzione della Disfida di Barletta che ho inserito nella monografia di Ettore Fieramosca nel volume I Padroni dell’Acciaio.
Il contesto storico in cui si svolge la Disfida è quella della Seconda Guerra d’Italia (1499-1504). Il Sud Italia è oggetto della contesa tra Francesi e Spagnoli. Questi ultimi, si sono asserragliati nella fortezza di Barletta e sono guidati da Gonzalo Fernández de Córdoba, ma tra i comandanti ci sono anche i fratelli Colonna (Prospero e Fabrizio). Nel corso della stessa guerra, tra l’altro, al largo della costa adriatica incrocerà anche un altro protagonista de I Padroni, Pregent de Bidoux.
In assenza di grandi battaglie, la Puglia fa da suggestiva quinta a numerose sfide individuali fra rappresentanti dei due eserciti. I Francesi, in particolare, si reputano i migliori cavalieri del mondo, e accusano gli Spagnoli di essere ottimi fanti, ma pessimi cavalieri.
Gli Spagnoli, punti nell’orgoglio, sfidano i Francesi, che accettano. Questa prima disfida, undici contro undici, si conclude con quello che potremmo definire un pareggio. Gli Spagnoli riescono infatti ad avere la meglio nei primi due scontri, ma poi i Francesi resistono, appiedati, fino al tramonto.
Lo stesso Ettore Fieramosca scrive al francese Forment, reo di aver denigrato il valore italiano, che è prontissimo a provarlo in duello. Il Forment preferisce un poco dignitoso silenzio alla prospettiva di scendere in campo contro uno dei guerrieri più rinomati dell’esercito spagnolo.
Anche se di molti non ci è giunta notizia, tra i due eserciti hanno luogo diversi scontri individuali. Uno di questi vede protagonisti il famoso francese Baiardo e il povero spagnolo Sotomaior, che rimane ucciso.
Il Baiardo, trafitto lo spagnolo, urla al suo padrino “Ho fatto abbastanza?”, il padrino risponde “Troppo!“
D’altronde, sconfiggendo il nemico si ottengono le sue armi e i suoi cavalli, e, soprattutto, si può ambire a un generoso riscatto. Possiamo dedurre che la frequenza dei duelli sia piuttosto alta anche perché i capitani francesi e spagnoli puniscono molti soldati – alcuni vengono addirittura giustiziati – “perché contro il divieto, di nascosto o palesemente, si erano studiati di venire alle mani con gli avversari.“
Gli eventi prodromici alla Disfida di Barletta sono questi.
All’inizio del 1503, il comandante spagnolo Diego Mendoza cattura un gruppo di cavalieri francesi e, come spesso accade, fa preparare una cena in loro onore. Francesi e Spagnoli bevono insieme, ed è lo stesso Mendoza a spendere parole di encomio per gli avversari sconfitti. Lo spagnolo sottolinea però come gli uomini dei Colonna, guidati dal Fieramosca, siano migliori dei Francesi.
La Mote, cavaliere francese, non accetta di essere considerato inferiore agli Italiani che, per lui, “trattavano le armi senz’arte e senza fede.” Al tavolo non ci sono Italiani, ma il Mendoza si avvicina al La Mote e gli fa capire che è meglio non parlare male di Ettore e dei suoi, perché, nel caso fossero venuti a saperlo, avrebbero chiesto ai Francesi ragione delle loro offese.
La risposta di La Mote è inequivocabile “Ed io, sono pronto a darla, io!”
Quando Mendoza racconta il fatto al Fieramosca, questi e gli altri Italiani fremono di rabbia. Prospero Colonna, che preferirebbe risolvere la questione senza perdere cavalieri e denari, manda ai Francesi due ambasciatori per chiedergli conto delle offese. La Mote non si tira indietro e conferma le sue parole.
In un libello stampato più volte a partire dal 1633, Historia Del Combattimento: De’ Tredici Italiani Con Altrettanti Francesci, Fatto in Puglia Tra Andria, E Quarati; E La Vittoria Ottenuta Da Gl’Italiani Nel L’anno 1503 à 13 Di Febraro, Scritta da Autore di Veduta, che vi intervenne, troviamo una serie di missive tra Indico Lopez, Ettore e La Mote, date per autentiche, che mostrano per intero il proseguire della disputa fino al giorno della Disfida. Lo scambio epistolare è appassionante, ma non sembra autentico. L’analisi del Faraglia (il maggiore biografo del Fieramosca), in questo caso, si è dimostrata impietosa. Tutte le missive sono state scritte, con ogni probabilità, dalla stessa persona, e in effetti è bizzarro immaginare che cavalieri francesi e uomini d’arme italiani utilizzino lo stesso linguaggio e la medesima sintassi. La prima lettera attribuita a Ettore è, però, molto utile per ricostruire, in modo sintetico, la vicenda:
La Motta. Lo Signor Indico Lopez ha fatto intendere ad alcuni Italiani haver ricevute lettere vostre del 28 del presente mese di Gennaro, per le quali dicete haver trovati dieci huomini d’armi Francesi per combattere dieci huomini d’armi Italiani, cento corone, e le spoglie, cioè l’ armi, e i cavalli. Vi dico, che quantunque questa non sia querela conveniente à Cavalieri; per farvi conoscere come gl’Italiani son huomini, che amano la conservation dell’honor loro; Io, e diece altri huomini d’armi Italiani, che faranno il numero d’undeci, semo per difendere dette cento corone, armi, e cavalli, e sodisfare alla requsition vostra. Declarate dunque luogo comune con uguale segurtà, e la giornata, avisando tre dì prima, a tale possiamo comparire a tempo.
Da Barletta a 29 Gennaro 1503
Hettorre Fieramosca
Si decide quindi di organizzare una prova d’armi fra Italiani e Francesi. All’inizio, la Disfida viene pensata come uno scontro undici contro undici, ma alla fine si arriva a tredici contendenti per parte. Ogni uomo d’arme deve portare 100 corone d’oro, in modo che ai vincitori vada anche un premio in denaro oltre ai cavalli e alle armi degli sconfitti.
Prospero Colonna ottiene da Consalvo il permesso di scegliere i tredici Italiani. L’operazione si rivela difficilissima fin dal principio a causa dell’enorme numero di volontari. Fra questi c’è anche il nipote di Prospero, un giovanissimo Pompeo Colonna.
Si tratta però di una sfida fra cavalieri esperti, e quindi entrano nella lista italiana solo cavalieri di nome: Ludovico d’Abenavolo, Francesco Salomone (Sicilia), Guglielmo Albamone (Sicilia), Romanello da Forlì, Miele, Ettore Giovenale detto Peracio, Giovanni Brancaleone, il Capoccio, Marco Corollario, Mariano Abignete di Sarno, Riccio e Giovanni Bartolomeo Fanfulla di Lodi. A guidarli, Ettore Fieramosca.
In quella francese troviamo invece: Carlo de La Mote, Marco du Fresne, Chastelart, Graiano d’Asti, Pietro de Chals, Giacomo della Fontaine, Forfais, Bartault, Richebourg, Francesco de Pise, La Faxe, Casset e Le Landais.
Il giorno fissato per la sfida è il 13 Febbraio 1503; il luogo, un terreno pianeggiante tra Andria e Quarata.
Il giorno prima della Disfida, gli Italiani si armano sotto la supervisione di Fabrizio e Prospero Colonna:
Prospero e Fabrizio Colonna invigilarono sull’armamento de’cavalieri; diedero a ciascuno due stocchi, uno appuntato largo e corto, atto a ferire di taglio e di punta, l’altro più lungo e aguzzo: ciascuno dei cavalieri portava quello alla cintura, questo fermato all’arcione, a manca. Invece dell’azza aggiunsero una scure rustica e pesante con mezzo braccio di manico legato con una catenella di ferro all’arcione, sulla destra; scelsero lance molto forti, mezzo braccio più lunghe delle francesi. Ai cavalli fu coverto il capo con frontali lucenti di ferro, il collo di corazza, il resto con un arnese di cuoio ricotto ornato ad oro ed a vari colori, onde il petto e le groppe erano difese molto comodamente.
La mattina successiva, gli Italiani si recano a messa; il Fieramosca, inginocchiato sull’altare, giura che morirà piuttosto che arrendersi. Si spostano poi a casa di Prospero Colonna per una modesta colazione e attendono lì l’arrivo del salvacondotto per il campo francese. Appena giunge il messo con il documento, il gruppo si dirige al campo scelto per la sfida.
Il corteo italiano è composto dai 13 cavalieri, ornati di tutto punto, preceduti da altri 13 cavalli da battaglia e seguiti da 13 gentiluomini che portano le armi dei cavalieri. Il terreno della sfida è segnato con un solco sul terreno e ha una lunghezza di un quarto di miglio con una piccola tribuna su uno dei lati lunghi. Chi uscirà dal solco, verrà considerato fuori combattimento. I Francesi arrivano, anche loro bardati in modo lussuoso, qualche minuto dopo. Esaurita la fase di vestizione e preghiera (che non manca mai), Ettore Fieramosca invita i Francesi a entrare nel campo per primi.
Gli arbitri scelti da entrambe le parti sono già pronti. Il forte vento alza nuvole di polvere, ma a infastidire maggiormente gli Italiani è il fatto di dover combattere con il sole negli occhi.
Al terzo squillo di tromba, il Fieramosca cala la visiera e fa avanzare i suoi a lance abbassate, ma senza caricare. I Francesi seguono le mosse degli Italiani a specchio, ma a venti passi di distanza si dividono in due ali di 6 e 7 uomini; Ettore ordina ai suoi di formare due gruppi asimmetrici: 5 uomini nel primo, 8 nel secondo.
Lo scontro, visto che le cariche sono arrivate a velocità ridotta, non è particolarmente violento, ma i Francesi si disuniscono. Il vento, poi, rende difficile maneggiare le lunghe lance, quindi entrambi gli schieramenti passano a spade, scuri e mazze (il Galateo parla di enses, secures et clavas).
Il primo ad essere disarcionato è Graiano d’Asti, seguito da altri due Francesi. Ettore Fieramosca è una furia e incoraggia i suoi, che incalzano i nemici. In uno scontro singolo, un francese frantuma il cranio al cavallo del Capoccio, che salta in terra. Il cavaliere italiano non è ancora sconfitto; afferra uno degli spiedi posizionati nelle retrovie e tempesta di colpi un altro francese, costringendolo a uscire dal solco che delimita il campo, poi si gira verso Graiano d’Asti, corso in aiuto del compagno, e lo colpisce con estrema violenza sull’elmo.
Nel descrivere la ferita del cavaliere, è particolarmente macabro il Giovio, che parla di sangue e cervella che escono dal naso. Graiano è dunque il primo a essere disarcionato, e anche il primo a morire. Grazie al vantaggio acquisito, gli Italiani vogliono evitare che i Francesi riescano a riorganizzarsi; in un eccesso di foga due di loro inseguono altrettanti transalpini fuori dal solco, finendo eliminati a loro volta.
L’inerzia però rimane dalla parte italiana. Tutti i Francesi rimasti, eccezion fatta per La Mote e altri tre, sono stati disarcionati o feriti, mentre gli Italiani sono quasi tutti a cavallo. Il nuovo attacco italiano spinge Fraxe e Forfais fuori dal campo, mentre La Mote cade da cavallo e rotola nella polvere. Anche appiedato, combatte con grande valore, ma il Fieramosca gli piomba addosso. Lo segue dall’inizio della sfida e vuole essere lui a eliminarlo. Ogni suo colpo spinge indietro La Mote, che in pochi secondi finisce fuori dal campo.
Sono rimasti solo quattro Francesi. I tre a cavallo combattono con tutta la forza che gli rimane, ma alla fine si arrendono o escono dal campo.
In piedi, coperto di terra e trafitto più volte, rimane solo Pierre de Chals. Accerchiato dagli Italiani, continua a colpire con la spada. Gli Italiani gli chiedono di arrendersi, ma Pierre, pieno di adrenalina, si rifiuta e continua a incassare colpi. Alla fine, sono gli stessi giudici a portarlo fuori dal campo per evitargli la morte.
Gli Italiani hanno vinto la Disfida. Esultano e corrono per il campo mentre gli spettatori rimangono ammutoliti. Diego di Vera, il giudice di campo italiano, si dirige verso la sua controparte francese chiedendo le 1.300 corone (100 per ciascun cavaliere) messe in palio da ciascuna parte in caso di sconfitta.
I Francesi però, convinti della vittoria, non hanno consegnato al loro giudice una sola moneta. L’unica soluzione rimane quella di consegnarsi agli Italiani e percorrere accanto a loro la via verso Barletta come trofei di guerra. I due Colonna, accompagnati da Consalvo in persona, si fanno incontro ai vincitori. I tre comandanti hanno grande esperienza di cose militari, e sanno perfettamente quanto il morale delle truppe sia, al pari delle armi e del vettovagliamento, un fattore fondamentale nel corso di una guerra. A tal proposito, il Guicciardini sottolinea:
[…] ed è cosa incredibile quanto animo togliesse questo abbattimento all’esercito francese e quanto s’accrescesse all’esercito spagnolo, facendo ciascheduno presagio da questa esperienza di pochi del fine universale di tutta la guerra.
Scortano quindi il Fieramosca e i cavalieri italiani nell’accampamento spagnolo, seguiti dai prigionieri. I soldati esultano e festeggiano soprattutto Ettore Fieramosca.
Forse non arriva al metro e settanta, ma in quel momento è un gigante.
Consalvo ordina di far tuonare i cannoni e illuminare la notte di Barletta con fuochi e fiaccole; la festa continua fino a notte fonda. Il cardinale Pompeo Colonna, testimone degli eventi, dice che “quelle feste non se potrian en humana lingua narrare a compimento.”
Consalvo consegna a ciascun cavaliere una collana con tredici anelli d’oro; un simbolo che potranno inserire anche nei loro stemmi di famiglia. I cavalieri francesi rimangono a Barletta fino al pagamento del loro riscatto, che avviene quattro giorni dopo la disfida.
La Disfida di Barletta trasforma un ottimo uomo d’armi in un eroe di cui si declamano le gesta in canzoni e poesie. Il nome Ettore, poi, permette di collegare il Fieramosca al più noto eroe troiano. A differenza di quest’ultimo però, l’Ettore italiano ha vinto la sua contesa.
Crisostomo Colonna, suo coevo, nel De pugna tredicim equitum scrive: Esto Hector verus, sic Hector major Achilles. Ecco il vero Ettore, un Ettore superiore ad Achille.
Consalvo da Cordova, soggiornando in Barletta, scrive a Luigi Dentice, Barone di Vigiano:
… essendo la superbia de Francisi tanta che niente, e, multo poco li pare vogliano o, se possano comparar ad essi li homini de altre natione et specialmente la gente Ytaliane: havendo essi in questi di fatta Elettione de Tridici homini d’arme Capi fra tutte le gente loro ch’teneno a lo apposito mio, mandarono ad regueder l’Ytaliani che stanno appresso noi ch’sono circha cento homini de arme che voliano gbatter con tridici Taliani et mostrarli che le gente francese sono miglior ch’ li Taliani, et andando in questo lo honor de tutta la Nation Ytalicha; la qual’amamo noi non altramente ch’la Spagnola et parendone farli gran mancamento quando dal canto mio non se fosse asutata et datoli modo a gbatter (combattere):
Anchor ch’ tutti li homini d’ arme Taliani se offerissero voler gbatter uno per uno con ditti francesi non demeno reduttese ad equal numero de tridici consertato da l’una et l’altra banda le cose conveniente al gbatter, heri se condussero fra Andri et Corata alloco deputato dove, essendo devenuti ale mano, quantunque francesi fossero stati delli più valenti homini loco et se havessero demostrato gagliardamente, no demeno fo tanta la animosità et gagliardia delli 13 Taliani, ch’in meno spatio de una hora amazzorno uno francese, un altro fererno à morte, et li altri undici buttaro per terra.
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Uno dei tredici combattenti, il Miele (?) era Ettore de Pazzis o Miale da Troia in Capitanata provincia di Foggia).
Mi chiedo perché si insista a chiamarli italiani, mentre erano sotto la Spagna o al massimo considerabili sudditi del Regno di Napoli… Considerato che vi cadde un D’Asti, allora fu una sfida fratricida?
Gli italiani erano considerati una nazione specifica già da secoli. Ci sono migliaia di fonti che ne parlano già dal X secolo. La zona di Asti e determinate regione dell’attuale Piemonte, Val d’Aosta e Alto Adige spesso non erano considerate italiane. Anche negli assoldamenti delle compagnie mercenarie o nella composizione degli eserciti del XV secolo si identificano spesso i gruppi etnici di appartenenza (italiani, spagnoli, francesi, ecc)
Da questo punto di vista è condivisibile, si identificano gli italiani sotto un profilo strettamente geografico, ma da quello della Dottrina della statualità, si dovrebbe parlare, se non di spagnoli, almeno di napoletani…
“Dottrina della Statualità” (vedi La terza via della storia, Pisa 1997) di Francesco Cesare Casula.
Il Gran Capitano lo vessò, gli storigrafi non hanno certezze sulla sua morte, in Spagna solo gli esperti conoscono il suo nome…A me risulta, che solo Ferdinando il Cattolico ebbe considerazione di Ettore Fieramosca…