La Famiglia nel Medioevo: Caratteristiche Generali

Una panoramica sulla Famiglia nel Medioevo, tra curiosità, abitudini ed evoluzione delle legislazioni in materia.

Parlare della famiglia nel Medioevo è particolarmente complesso per tre ragioni fondamentali: (i) l’estensione cronologica di un periodo che, secondo la datazione ufficiale, copre mille anni; (ii) le enormi differenze geografiche e istituzionali che è necessario analizzare per dare una visione complessiva dell’argomento; (iii) il numero di istituti giuridici e consuetudini, dal matrimonio alla patria potestas, dall’educazione dei figli alla definizione della dote, che vanno a comporre il concetto stesso di famiglia. Insomma, con “famiglia medievale” possiamo intendere una varietà pressoché infinita di entità differenti. Da una famiglia gallo-romana dell’485 a una della Pisa del 1250, da un nucleo familiare cristiano nella Spagna islamica del 920 a uno inglese del 1420, l’assetto complessivo può cambiare parecchio.

Per provare a fare un poco di chiarezza, la cosa migliore è partire dalla radice comune del tessuto familiare europeo nel Medioevo, ossia dalla famiglia romana. Senza dubbio, la famiglia romana, come la maggior parte di quelle coeve – e, oserei dire, di quelle dei periodi successivi – è caratterizzata da una forte dimensione patriarcale, in cui l’intero assetto familiare ruota attorno al pater familias e alla sua vita necisque potestas sugli altri membri. Lo stesso Augusto, primo imperatore, viene chiamato Pater Patriae, poiché i doveri dei suoi sudditi sono, de facto, gli stessi che i membri della famiglia sono chiamati a rispettare nei confronti del pater familias. Moglie, figli, nipoti, mogli dei figli e mogli dei nipoti formano un insieme eterogeneo che risponde unicamente al patriarca.

Fino al I secolo, una delle caratteristiche più curiose (ai nostri occhi) della famiglia romana è proprio la sostanziale uscita delle donne dalla famiglia di origine nel momento del matrimonio. Il matrimonio (con manus) porta infatti le figlie e le nipoti dal pater familias all’interno della famiglia dei rispettivi mariti, e quindi le sottopone all’autorità di un altro pater familias. Questa pratica scompare in età imperiale, ma il potere dei patriarchi delle famiglie romane continua ad essere molto forte. La decisione sull’instaurazione del vincolo giuridico e religioso che crea la famiglia rimane comunque in capo al pater familias, che spesso utilizza l’istituto per creare legami familiari e sinergie atte a migliorare o rafforzare la posizione socio-economica della propria famiglia. Il matrimonio libero, inteso come consenso bilaterale, sembra comunque trovare un suo spazio nel tardo antico. Al contrario dell’uomo, la donna romana non può stipulare contratti, possedere beni o fare testamento.

Nell’Alto Medioevo, la famiglia dell’occidente europeo è, con le dovute distinzioni di tempo e luogo, un coacervo di istituti romani influenzati dal Cristianesimo, consuetudini germaniche ed elementi greci. Il colpo più duro dato Chiesa all’idea romana di matrimonio riguarda forse il divorzio, che prima dell’avvento del Cristianesimo veniva praticato con una certa regolarità, tanto che Seneca, parlando della Roma Imperiale, dice: “Nessuna donna arrossiva nel rompere il suo matrimonio, poiché le donne più nobili si erano abituate a contare i loro anni non con il nome dei consoli ma con quello dei loro mariti. Divorziano per maritarsi, si maritano per divorziare.”

La diffusione del cristianesimo e del suo sostanziale rifiuto del divorzio porta gli imperatori romani a restringere progressivamente l’ambito di applicazione dell’istituto, ma non arrivano mai ad abolirlo. In fondo, per il diritto romano, il matrimonio nasce dal consenso degli sposi (e, soprattutto, delle loro famiglie) e cessa nel momento in cui quello stesso consenso viene meno. Anche le convenzioni giuridiche germaniche attribuiscono una completa facoltà di divorzio all’uomo, e quindi si trovano anch’esse in contrapposizione con la nascente dottrina contraria al divorzio nella Chiesa. Tuttavia, ci vogliono diversi secoli prima che la posizione della Chiesa diventi quella comune.

La famiglia germanica, anch’essa patriarcale, è il nucleo fondamentale della Sippe, un’aggregazione di più famiglie consanguinee sulla cui estensione e funzione gli studiosi sono ancora divisi. Ogni Sippe, stando alle ricerche più interessanti (vedi David Herlihy) è formata da un numero massimo di cinquanta famiglie circa.

La Maggiore Età nel Corpus Iuris Civilis
Il Corpus Iuris Civilis, la compilazione del diritto romano voluta da Giustiniano, ultimo Imperatore di madrelingua latina, mostra in modo molto chiaro quale fosse la concezione della maggiore età alla fine dell’Evo Antico. Fino al compimento dei 7 anni (infantia minor), il bambino era sempre considerato completamente incapace; dai 7 ai 14 anni (infantia major) gli veniva attribuita una limitata capacità d’agire; dai 14 ai 25 anni, il minore di 25 anni riceveva tutela dalla Lex Laetoria, che concedeva la possibilità di agire in giudizio contro chi avesse approfittato dell’inesperienza del minore (fattispecie analoga alla circonvenzione d’incapace) durante la stipula di un contratto.

Ad ogni modo la famiglia germanica,come quella romana, vede la donna in funzione della sola procreazione e cura della casa. Qualsiasi donna, sia essa figlia, madre o nonna, rimane sempre in uno stato di sostanziale incapacità giuridica. Il mund, ossia il diritto-dovere di protezione, tradotto dai latini come mundium e riconducibile, nei contenuti, alla patria potestas romana, passa dal padre al marito della donna, ma non arriva mai nelle sue mani. A differenza dell’autorità del padre romano, il mund sui figli maschi cessa quando questi ultimi raggiungono la maggiore età.

Per quanto riguarda le questioni economiche legate al matrimonio, la dote, ossia i beni portati dalla sposa nell’asse ereditario dello sposo, è un istituto fondamentale nel matrimonio romano, mentre è completamente assente in quello germanico, dove è invece fondamentale valutare il prezzo che l’uomo deve corrispondere alla famiglia della moglie. La dote romana scompare nel corso di pochi secoli, e ne abbiamo una prova inconfutabile nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano, in cui è stabilita un pari contributo agli oneri matrimoniali da parte dell’uomo (donatio propter nuptias) e della donna (dos). Ci vorranno più di quattrocento anni prima di trovare un “revival” della dote

Nel variegato mondo europeo altomedievale, la donna è molto più oggetto che non soggetto del matrimonio, tanto che non esiste alcun obbligo di fedeltà da parte del marito. I casi di poligamia sono frequentissimi, specie tra i nobili e i sovrani germanici. Clotario I, sovrano merovingio fino al 561, ha probabilmente due o quattro mogli nello stesso momento; pochi decenni dopo il suo discendente, Childeberto II, re dei Franchi, si sposa a 15 anni pur avendo già una concubina e un figlio;  al punto che Lotario è costretto a legiferare in materia ancora nell’855. Per comprendere a fondo l’entità del potere nelle mani dell’uomo, si può prendere ad esempio il codice visigoto. Qui, nella parte relativa al matrimonio, è trattato anche il caso (più frequente rispetto ad oggi) della c.d. “morte presunta” del marito. Alla donna è infatti permesso contrarre nuove nozze, ma deve prima effettuare tutte le indagini (con i mezzi dell’epoca!) necessari ad accertare la morte del marito.

famiglia medioevo
Molto bello il dettaglio del “girello”

Anche il nuovo marito è sottoposto allo stesso obbligo e, come se non bastasse, in caso di ritorno del primo marito entrambi i coniugi diventano, di fatto, una sua proprietà, e può disporre di loro nel modo che preferisce, anche vendendoli come schiavi. In Italia, il primo re Longobardo a concedere alcune facoltà alle donne è Liutprando, fortemente influenzato dal Cristianesimo. Infatti permette loro sia di esprimere il proprio consenso al matrimonio, sia di esprimere una limitatissima capacità testamentaria in materia di lasciti pro anima. Per quanto considerata inferiore all’uomo sotto molteplici aspetti, la donna trae un grande vantaggio dall’affermazione del cristianesimo come unico vero collante della società: non è infatti più sottoposta in modo perpetuo alla potestà paterna o al mund.

E’ necessario sottolineare che, per circa due secoli, i regni-romano barbarici si fondavano su una concezione etnica del diritto, per cui il diritto romano veniva applicato alla popolazione romana soggiogata, mentre quello germanico rimaneva in vigore per i soli conquistatori. Ad ogni modo, la situazione si fece più fluida con il passare del tempo, fino ad arrivare a una sostanziale uniformità giuridica anche grazie all’opera omologatrice della Chiesa.

La Presenza del Sacerdote
Le influenze cristiane sul matrimonio trasformano quindi un patto tra privati – in cui lo Stato non è presente né dal punto di vista giuridico né da quello religioso – in un atto indissolubile. Il dogma del matrimonio di Cristo con la Chiesa, a partire dal X secolo, diventa specchio di questa nuova concezione. E’ un tipo di unione che ben si adatta alla conservazione del patrimonio e del lignaggio e, grazie allo sviluppo della società feudale, alla sempre maggior attenzione posta al principio patrilineare e alla maggior considerazione del primogenito. La presenza del sacerdote inizia a esser sempre più frequente, fino ad essere sancita in modo definitivo dal Concilio di Trento a metà del XVI secolo

L’incontro e progressiva compenetrazione degli istituti romani, germanici e cristiani porta anche a un cambiamento nel calcolo della discendenza. Da quella, essenzialmente patrilineare, romana e germanica, si arriva a un tipo di discendenza c.d. cognatizia in cui hanno rilievo sia gli antenati della parte maschile che di quella femminile. Ma il cristianesimo incide in modo netto anche in tema di incesto. I Romani vietavano il matrimonio tra consanguinei fino al quarto grado (sorelle/fratelli, zii/zie, nipoti), ma permettevano ampiamente il matrimonio tra cugini di primo grado. La Chiesa invece, a partire dal VI secolo, vieta anche questo tipo di unione. Le restrizioni al matrimonio dovute a rapporti di parentela diventano sempre più strette nell’VIII secolo, fino a proibire le unioni fino al settimo grado di parentela. In pratica, anche il solo sospetto che potesse esserci un qualche tipo di parentela portava all’impossibilità di contrarre matrimonio.

Anche la concezione della prole e del trattamento riservato ai bambini mutò in modo progressivo, ma radicale, con l’introduzione della dottrina cristiana. Con le dovute eccezioni di tempo e di luogo, il neonato romano doveva essere riconosciuto dal pater familias, ossia sottoposto “ufficialmente” alla patria potestas, per diventare qualcosa in più di un semplice oggetto. Bambini deformi, i figli arrivati in una famiglia già numerosa e molte neonate venivano “esposte” sulla porta di casa o addirittura nell’immondizia, quando non direttamente asfissiate. Era questa la terribile vita necisque potestas detenuta dal patriarca. A questa, esercitata con frequenza nettamente inferiore anche dai padri germanici, si oppone la nascente dottrina cristiana, che vede l’aborto e l’infanticidio come peccati capitali. Tuttavia, la considerazione della Chiesa nei confronti della verginità, considerata la via perfetta per il sesso femminile (davanti alla vedovanza e alla vita matrimoniale, in ultima posizione!), probabilmente aiuta a controbilanciare, dal punto di vista della procreazione, le posizioni assunte sugli altri temi.

Nel Medioevo, i bambini crescono spesso all’interno di quelle ampie famiglie ereditate dalla tradizione romana e germanica, in cui possono essere presenti anche i figli avuti dal padre da altre donne, cugini rimasti orfani, ecc. Le famiglie più abbienti potevano mettere a disposizione dei figli un tutore, mentre quelle contadine, o comunque con bassa disponibilità economica, li inserivano nella routine del lavoro familiare nei campi o nelle botteghe. Resta comunque difficile avere un’idea accurata della famiglia plebea, poiché la maggior parte delle testimonianze scritte riguardano, ovviamente, la nobiltà. Ad esempio sembra che le famiglie contadine si formassero con un certo ritardo rispetto a quelle aristocratiche. In queste ultime, i coniugi si sposano in un’età compresa, solitamente, tra i 14 e i 20 anni, con circa dieci anni di anticipo rispetto ai loro omologhi delle campagne. Probabilmente, questa crescita dell’età media nei ceti poveri è dovuta anche alla necessità di attendere l’inabilità al lavoro dei genitori (o la loro morte), in modo da poter far sopravvivere la nuova famiglia con i miseri introiti della generazione precedente.

L’Età Giusta per il Matrimonio
Dato interessante è che, almeno secondo Cesare e Tacito, per i popoli germanici l’età del matrimonio era abbastanza alta, circa venti anni, ma dovevano comunque esserci casi di eccessiva giovinezza, al punto che nella Lex Romana Wisigothorum viene considerato nullo il matrimonio in cui la donna sia più grande del marito, e Liutprando è costretto a vietare il matrimonio di ragazzi e ragazze minori di 13 anni. In generale, anche considerando la normazione in materia di Carlomagno, sembra che il matrimonio ideale nei territori romano-germanici sia quello concluso tra coetanei di 20-25 anni.

Nel Medioevo, la divisione dei compiti – degli oneri e degli onori diremmo oggi – all’interno della famiglia era piuttosto netta. L’uomo, sia prima di sposarsi che una volta divenuto marito, passava gran parte del tempo fuori dalle mura domestiche. Che fosse un soldato, un contadino o un burocrate, svolgeva le attività necessarie al sostentamento della sua famiglia lontano da quest’ultima, almeno nella maggior parte dei casi. Al contrario, la donna si occupava di tutte le faccende domestiche. In realtà, era una vera e propria amministratrice della casa, impegnato su fronti molto diversi che potevano andare dalla cura dei bambini al conteggio delle entrate e delle uscite familiari.

Il processo di crescita delle realtà cittadine europee, sempre più netto a partire dall’XI-XII secolo, porta all’aumento delle famiglie stabilite all’interno delle mura. In Italia, dove le istituzioni di ispirazione romana e la vita cittadina è sopravvissuta nel corso dell’Alto Medioevo, questo processo è ancora più evidente. Nelle città, diversi aspetti della vita sono più frenetici rispetto alla campagna: la vita istituzionale, la competizione nel commercio, gli intrighi per raggiungere una posizione privilegiata rispetto al vicino. Questi e altri fattori portano a un aumento della rilevanza della famiglia rispetto all’individuo, e poi delle consorterie – ossia i raggruppamenti di famiglie abbienti – rispetto alla singola famiglia. Sono proprio le unioni di consorterie a far nascere le fazioni politiche che dilaniano la vita urbana italiana del Basso Medioevo.

La consorteria, nell’Italia Comunale, assume un notevole peso politico. All’abitazione della famiglia principale si affiancano quelle delle altre famiglie facenti parte della consorteria. I Corbolani di Lucca, ad esempio, sono una consorteria formata da 16 famiglie che si esprime attraverso un proprio console. La consorteria, tra l’altro, si distanzia dalla rigida successione diretta dei figli del patriarca precedente, e permette, anzi, incoraggia la scelta dei membri collaterali, anche nipoti o fratelli, che abbiano maggiore propensione al comando. Le esigenze di primazia e di difesa militare portano anche a far erigere torri sempre più alte al centro del blocco di edifici abitati da una determinata consorteria. Una città come San Gimignano arriva a contare, tra Duecento e Trecento, ben 74 torri.

famiglia nel medioevo
Abitazione rurale e attività contadine nel XV secolo

Il contraltare popolano alle consorterie sono le corporazioni. Si tratta di organismi che raggruppano tutti gli appartenenti a una “categoria professionale” (commercianti, artigiani, medici, notai, ecc.) e iniziano ad acquistare un potere sempre maggiore a partire dal XII secolo. La vita delle famiglie legate alle corporazioni scorre in funzione dei processi produttivi di queste ultime e, per acquistare potere economico e sociale, si cerca spesso di unire più famiglie attraverso il matrimonio tra due giovani membri delle stesse. Se in Italia parliamo di corporazioni, il un termine utilizzato nell’Europa centrale e settentrionale, è “gilde”, anche se i due istituti non sono completamente sovrapponibili.

In questo periodo, trova nuovo vigore anche l’istituto della dote. Le ragioni della rinascita sono forse da ascrivere al lavoro di elaborazione fatto dagli studiosi italiani in materia di diritto romano e alle mutate condizioni economico-sociali, che vedono un incremento del benessere nelle classi più agiate. La dote è, inoltre, un ottimo mezzo per stringere alleanze anche se, a detta del cronista Giovanni Villani (morto nel 1348) la consistenza assurda delle doti richieste da alcune famiglie aveva causato un drastico calo del numero di matrimoni. Dante, riferendosi proprio a questo istituto, nel XV Canto del Paradiso, scrive: “Non faceva, nascendo, ancor paura / la figlia al padre, ché ‘l tempo e la dote /non fuggien quinci e quindi la misura”. Nella stessa Firenze, nel 1425 nasce il “Monte delle Doti”, presso il quale chi aveva una figlia poteva depositare, poco alla volta, delle piccole somme destinate a costituire la dote della giovane!

Ancora nel XIV e XV secolo, l’uso di promettere in sposa una bambina di 8-10 anni era piuttosto comune nell’aristocrazia.  Ad esempio, nella seconda metà del XV secolo, Ludovico il Moro chiede in sposa la sua futura moglie quando questa ha solo 5 anni. Anche il ceto dei commercianti accoglie questa consuetudine, in modo da pianificare con calma e raziocinio le strategie commerciali e politiche da mettere in atto. Alla luce di quanto detto sino ad ora, la nascita di una figlia poteva essere un grosso problema, almeno all’interno di una famiglia nobile. Oltre a non poter essere d’aiuto nelle questioni militari e politiche, avrebbe infatti necessitato di una dote commisurata alla ricchezza della famiglia. Questo pensiero porta Alfonso D’Este ad annullare tutte le feste previste quando viene a sapere che invece di un maschio è nata una femmina, Beatrice.

Quella della famiglia nel corso del Medioevo, solo accennata in questo articolo, è dunque una storia ricchissima di spunti relativi ad elementi molto differenti tra loro. Abbiamo anticipato all’inizio di questo articolo come l’amalgama di istituti giuridici, affetti personali e strategie politiche renda impossibile offrire un quadro d’insieme davvero esaustivo; tuttavia, anche omettendo molti particolari, è possibile seguire l’appassionante percorso evolutivo che porta la familia romana ad assimilare le influenze germaniche e cristiane e a trasformarsi in una realtà molto differente nel corso dei secoli.


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Un pensiero riguardo “La Famiglia nel Medioevo: Caratteristiche Generali

  1. Molto interessante. Sulla famiglia medioevale ha scritto un libro anche.la nostra Franca Leverotti. Lo conosci?

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