Parlare di Cannibali in Congo, o in qualsiasi altra parte del globo, può essere molto complesso, specie perché c’è una naturale tendenza – da entrambe le parti – a politicizzare il discorso.
Uno dei testi più interessanti in materia è stato scritto più di cento anni fa, ed è anche uno dei più apprezzabili per l’estrema sincerità e il rigore della narrazione.
John H. Weeks è un antropologo e missionario inglese molto capace. A soli 21 anni, nel 1882, parte per il Congo, allora sotto la feroce amministrazione belga. Rimane lì per trent’anni, testimoniando le brutalità degli uomini di Leopoldo II e le usanze dei Boloki e di altre tribù del Congo. I suoi lavori sono classici dell’antropologia, frutto di un’eccezionale cura per l’analisi degli eventi.
Il titolo dell’opera Among Congo Cannibals, è dovuto agli episodi di cannibalismo che, suo malgrado, deve osservare. Uno di questi, occorso nel novembre del 1890, ha luogo dopo una battaglia tra la tribù presso cui è stata stabilita la missione di Weeks e una tribù nemica. Vi consiglio di leggerlo tutto:
… mentre eravamo seduti a bere il the, arrivò l’ultimo gruppo di guerrieri, che passò in fila davanti a casa nostra portando gli arti dei nemici massacrati in battaglia. Alcuni portavano in spalla gambe umane, altri avevano ficcato le braccia dei cadaveri smembrati nel ventre di questi ultimi, formando una specie di “anello” in cui avevano infilato le loro braccia. In questo modo, camminavano con i torsi sanguinanti che penzolavano avanti e indietro. Questa visione oscena ci provocò i conati di vomito, costringendoci a smettere immediatamente di mangiare. Passarono diversi giorni prima che potessimo mangiare di nuovo con gusto.
Quelle immagini ci provocarono una forte tensione nervosa. Ci svegliammo nel cuore della notte dopo aver sognato enormi processioni di sangue e corpi smembrati.
Fuori, Mosembe e i villaggi vicini si erano lasciati andare a una festa cannibale che andò avanti tutta la notte. La mattina ci portarono pezzi di carne cotta alla missione, pensando di fare cosa gradita. Si offrirono di dividerla con noi. Sembrava carne di maiale nero bollita. Rifiutammo con disgusto l’offerta, facendo loro presente che la ritenevamo una cosa orribile. Parecchio tempo prima di stabilirci presso di loro, avevamo sentito voci sul cannibalismo, ma pensavamo facessero parte della mitologia locale: ora non possiamo fare altro che confermare quelle voci. Abbiamo poi ricevuto un rapporto circostanziato relativo al fatto che le tribù della parte più meridionale del nostro distretto comprano altre vittime delle loro orge cannibali presso le popolazioni di un affluente del fiume Congo.
In cambio di avorio, ricevono uomini e donne, che finiscono subito sul fuoco. A fare da intermediario ora c’era anche un uomo bianco, ma grazie alle pressioni di tutti gli altri bianchi del posto, è stato costretto ad abbandonare questo ruolo. Come un bianco ben educato possa cadere così in basso, diventando un rivenditore di carne umana a selvaggi africani è un mistero psicologico la cui soluzione lascio ad altri….
La missione presso cui opera Weeks è, tra l’altro, una delle più pericolose. Dei 110 missionari avvicendatisi a partire dal 1878, ben 38 perdono la vita in loco (1 su 3), dei quali 13 nel corso del primo anno in Congo. Alla partenza, dunque, ogni missionario ha il 12% circa di possibilità di morire nei primi 12 mesi e il 24% nei primi 4 anni.
Il XV capitolo del suo libro è dedicato agli scontri dei Boloki, in cui si specifica che il loro modo di combattere è differente a seconda che si tratti di una lotta tra famiglie dello stesso villaggio o di due villaggi diversi. Nel primo caso, infatti, si utilizzano solo bastoni, e tutte le altre famiglie assistono al combattimento disponendosi in circolo. La guerra tra villaggi rivali è invece, molto più cruenta. Nella maggior parte dei casi, è innescata da dispute sul possesso delle donne o delle risorse. I Boloki non hanno un esercito o un’organizzazione militare, e, quando un capofamiglia vuole tentare una sortita in un villaggio nemico, chiede pubblicamente il supporto delle altre famiglie. Gli uomini così radunati, insieme ai loro schiavi, attaccano il nemico lasciando al villaggio donne, vecchi e bambini; l’obiettivo è sempre quello di razziare l’avversario e uccidere o fare schiavi (che vengono uccisi per vendetta, tenuti o venduti a seconda della decisione del nuovo proprietario) quanti più uomini possibile. Tutti i morti in battaglia diventano, come anticipato, nutrimento per il villaggio vittorioso.
Altro particolare che sorprende Weeks è l’ampio uso della schiavitù da parte dei Boloki e l’estrema fluidità della condizione di schiavo (mombo). Testimonia addirittura di aver conosciuto uno schiavo che possedeva un altro schiavo che, a sua volta, ne possedeva un altro. In generale, Weeks ci dice che gli schiavi sono trattati piuttosto bene e, visto che hanno ampia libertà di girare per il villaggio e i dintorni, potrebbero scappare facilmente. Tuttavia, solo pochissimi di loro si danno alla fuga, mentre la maggior parte diventa parte della famiglia che li possiede. La responsabilità del padrone per i crimini dello schiavo è totale e può portare a conseguenze tremende, a meno che i danneggiati non si accontentino di ottenere un ristoro in denaro.
Nel 1892, uno schiavo ha ucciso un capofamiglia ed è fuggito. I parenti di quest’ultimo se la sono presa con il suo padrone: lo hanno legato, ucciso e mangiato.
Il rapporto degli uomini Boloki con le loro donne è, come dire, contraddittorio. A Weeks capita spesso di vedere coppie che girano con le braccia strette alla vita del partner, come potrebbe accadere “a una coppia di innamorati inglesi al tramonto“, e sottolinea come siano i nativi che mostrano in modo i propri sentimenti per la compagna. Tuttavia, quegli stessi uomini bastonano spesso le loro mogli e le e mandano sempre a mangiare da sole, lontano dalla loro vista, perché le reputano inferiori. Quanto alle mogli-schiave, può capitare che il padrone le uccida in un impeto d’ira e che le butti nel fiume o, più spesso, inviti le altre famiglie a banchettare con il suo cadavere.
Insomma, usanze che hanno punti in comune con quelle delle altre società tribali esistite, con le dovute differenze cronologiche, in ogni parte del mondo.
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Come su tutte le usanze, potrebbe darsi che, nonostante l’attenzione e la schiettezza, si sia ridotto un poco all’aneddottica, generalizzata in modo improprio. Cannibalismo a parte, potrebbe aver visto “tradizioni caotiche” dove invece stava osservando comportamenti e mentalità di singoli, liberi di fare a loro completo giudizio (o capriccio) più o meno in assenza di norme accettate sul tema?
Sempre ottimi articoli: ho una curiosita’: ha idea se il bianco che faceva commercio di avorio in cambio di schiavi abbia ispirato la figura di Kurtz nel “Cuore di Tenebra” di Conrad? Il cannibalismo rituale è ancora attivo in alcune aree della Nigeria.
Un testimone diretto, che conobbe le zone nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale, mi riferiva che la parte più apprezzata era il braccio, tra spalla e gomito.