L’epopea di Maya e Conquistadores è, dal punto di vista della ricerca storica, una delle più appassionanti e complesse.
Spesso, almeno a livello divulgativo, ci si limita a sottolineare l’efferatezza dei sacrifici umani degli indigeni e quella dei conquistadores, e si tendono a dimenticare e/o tralasciare particolari importanti delle vicende relative all’area yucateca.
Lavorando con i resoconti cinquecenteschi dell’area menzionata (di cui ho parlato in precedenza in questo articolo: I Maya: Il Passato Mitico nella Relazione di Quitelcam e Cabiche) ho notato due tratti ricorrenti presso la quasi totalità delle comunità indigene della penisola: l’incredibile mobilità dei suoi abitanti, che non disdegnavano di percorrere chilometri pur di lasciare la comunità che li aveva cresciuti e protetti sino ad allora, e l’altissimo tasso di alcolismo diffuso presso gli indigeni di quasi tutta l’America spagnola e portoghese.
Secondo le stime di Nancy Farriss, vera autorità per quanto riguarda i maya post-classici e coloniali, gli indigeni insieme ai meticci e ai mulatti, ma senza contare le donne (alle quali non era permesso bere), bevevano una media di 7,38 frascos di acquavite (nome che veniva genericamente dato a qualsiasi bevanda alcolica tra i 40 e i 45 gradi circa) all’anno pro capite, contando ogni maschio non bianco di più di sette anni. Il frasco era un recipiente destinato a contenere il vino ed equivaleva probabilmente all’otre castigliana che può contenere circa 16 litri. Abbiamo così un consumo annuale di 118,1 litri pro capite. Cifra che potrebbe salire ulteriormente se escludiamo i ragazzi dai sette ai sedici anni e se escludiamo quella parte di maschi astemi che, ovviamente, esiste fisiologicamente (Farriss, La sociedad maya bajo el dominio colonial, Madrid, Alianza Editorial, 1992).
Alla stregua di quel mostro sacro di Eric Thompson, anche io ritengo che lo storico dovrebbe avere domicilio al 221b di Baker Street, e questi due elementi sarebbero stati sicuramente sufficienti per mettere in moto le elucubrazioni del celebre consulente investigativo londinese.
L’esistenza di una possibilità molto concreta di fuggire per gli indios (tecnicamente sottomessi al rigido controllo coloniale) e, allo stesso tempo, l’endemico alcolismo che veniva strenuamente combattuto dalla Chiesa perché causa dei peggiori vizi, ci devono far riflettere sulla natura dello Stato cinquecentesco e, in particolare, su quello presente nella penisola dello Yucatán.
Per quanto potrebbe sembrare sensato discutere sugli strumenti del potere europeo, a mio avviso tale questione è marginale, visto che la maggior parte dei maya “plebei”, chiamati macehuales, erano governati direttamente dai loro antichi signori “etnici” i batabes, che avevano su di loro giurisdizione pressoché totale per quanto riguarda il diritto latamente “civile” e più ristretta per quanto riguarda quello penale (i casi di omicidio o di ribellione dovevano essere giudicati in primo grado dal governatore spagnolo).
La natura del controllo esercitato dai governanti indigeni ai loro sottoposti fu naturalmente influenzata sia dall’invasione europea sia da tutto quell’armamentario culturale, religioso e giuridico che di certo sembrò più innocuo dell’acciaio europeo ma, non per questo, risultò meno destabilizzante per i maya delle terre basse. Dopo le prime fasi della conquista e l’arrivo dei frati francescani negli anni ’40 del Cinquecento, si assiste a una fase di relativizzazione del potere: le grandi famiglie nobiliari maya, che sin dai tempi di Mayapan avevano gestito il commercio sulle lunghe distanze, vengono costrette dagli spagnoli a un ridimensionamento del loro potere che si manifesta in una sempre maggiore involuzione in centri autonomi e “autogestiti”: le repubbliche di indios.
Questa soluzione accontenta entrambi gli universi: da un lato gli spagnoli si assicurano un controllo indiretto su enormi territori che sarebbe stato impossibile sorvegliare in altri modi (vista la totale inesistenza di ogni apparato proto-burocratico), dall’altro le élite maya conservano, seppur ridimensionato, il monopolio della forza sui macehuales maya al prezzo, come già detto, di una riduzione del loro potere a vantaggio dei nuovi padroni europei.
Nonostante i maya conservassero quindi in buona parte i loro vecchi governanti, la situazione era lungi dall’essere la più rosea possibile: i gravami fiscali erano uguali se non peggiori a quelli del periodo preispanico (incrementati dalle “elemosine” non esattamente volontarie richieste dai francescani dopo il loro arrivo), le tasse imposte dagli spagnoli non prevedevano la sospensione in caso di calamità naturali (per nulla rare in una penisola tormentata continuamente dalla siccità), mentre il nuovo panorama religioso e culturale europeo andava ad attaccare i legami più intimi della società indigena (come nel caso della famiglia allargata tipica dei maya postclassici, proibita dai frati francescani poiché considerata ricettacolo di perversioni sessuali come l’incesto e la sodomia).
I disagi dovuti alla nuova condizione di vassalli della corona castigliana (titolo che però gli verrà riconosciuto solamente dopo la promulgazione delle Leyes Nuevas del 1542) erano noti anche presso la corona spagnola che, non a caso, inserirà nel questionario del 1579-1585 il punto 15:
15. Come si governavano e con chi andavano in guerra, come combattessero, che abiti indossassero allora e adesso, che alimenti consumassero allora e adesso e se vivessero più o meno sani prima rispetto a ora e il motivo di ciò.
Le risposte, solo per citarne alcune, sono decisamente unanimi nell’affermare che prima della Conquista, il tenore di vita fosse decisamente migliore:
- Dopo che questa terra fu conquistata, ovunque gli indigeni sono andati diminuendo, come appare nelle cedole di encomienda che sono state date agli encomenderos e nei registri dei battesimi e delle cresime […] La causa di questa diminuzione, a quanto dicono gli indios, è la severità con cui sono stati trattati sotto ogni aspetto, visto che nel tempo della loro gentilità, anche se i loro signori li castigavano con molta durezza per i loro vizi, comunque li lasciavano vivi e li facevano vivere come gente senza Dio e senza ragione. Alcuni dicono inoltre che il vino di miele che consumavano era salutare e purgativo. (Relazione di Cansahcab, Cristóbal de San Martín)
- Gli indios sono diminuiti molto dal nostro arrivo. Si dice che sia stato all’inizio il fatto di unire molti pueblos in uno unico, cosa che si fece con santo zelo affinché fossero meglio indottrinati, ma dopo il quale ci furono grandi carestie per mancanza di acqua e grandi epidemie provocate dalla febbre di un indio e un’india che però si potrebbero guarire bagnandoli con dell’acqua fredda, ma né la cura dei religiosi né quella degli encomenderos né il rigore della giustizia ad ora sono riusciti a impedirlo, e così muore molta gente. (Relazione di Sinanche e Egum, Juan de la Cámara)
- E vivevano molto più sani una volta rispetto ad ora, e dicono che la causa di ciò è che prima bevevano un vino che si facevano con acqua, miele e mais in ammollo, al quale aggiungevano alcune radici che li facevano ubriacare e che serviva loro come purga, ma che adesso è proibito. (Relazione di Hocaba, Melchor Pacheco)
- Gli indigeni oggi vivono meno e più malati, e dicono che la mancanza maggiore è quella di un vino che essi consumavano nell’antichità, che facevano con acqua, miele e mais e con altre radici che lo rendeva più forte, con il quale si ubriacavano e purgavano, e sembra proprio che una volta tutta questa terra fosse molto popolata, vedendo i vecchi insediamenti e gli edifici antichi che si trovano in zona. (Relazione di Sotuta e Tibolon, Juan de Magaña)
- Dopo la conquista di questa terra, gli indios continuarono sempre a diminuire di giorno in giorno, in modo che il suddetto pueblo di Tabi e le sue frazioni mi furono consegnati in encomienda con 400 tributari, mentre al giorno d’oggi non sono più di 150 indigeni, mentre il suddetto pueblo di Chunhuhub aveva più di 300 tributari, mentre nel presente saranno al massimo 80; la causa di questo, dicono gli indigeni, è dovuta alla grande rigidità con cui sono governati oggigiorno, perché durante la loro gentilità i signori li lasciavano alla loro volontà. Alcuni dicono che un vino che erano soliti fare con miele e con una certa corteccia di alberi era molto più salutare rispetto a quello castigliano, al quale comunque sono molto avvezzi. (Relazione di Tabi e Chunhuhub, Pero García)
La diminuzione degli indios è presente in quasi tutte le relazioni compilate nello Yucatán e non è difficile comprendere che le famigerate malattie portate dagli europei ebbero un’importanza decisiva nel determinarla. Tuttavia molte delle diminuzioni (termine corretto perché non in tutti i casi si trattarono di morti) erano provocate da un comportamento sociale tipico degli indigeni delle terre basse: la transumanza semi-permanente o definitiva.
La cosa che si tende a dimenticare riguardo l’area maya è che, al contrario del Messico di Cortés, essa fu definitivamente conquistata e sottomessa solamente nel 1697, anno dell’assedio della fortezza dei maya ancora pagani di Petén Itzá. Ciò significa che per i maya coloniali costretti in una condizione di sudditanza verso i vecchi e i nuovi padroni restava sempre aperto un barlume di speranza per migliorare le loro effettive condizioni materiali: la possibilità, cioè, di trasferirsi temporaneamente o definitivamente nella zona non pacificata (fuori dall’orbita spagnola) o in altre comunità dove fosse per loro possibile ripartire da zero.
Generalmente i soggetti che prendevano tale decisione erano giovani appena sposati o con i figli molto piccoli, in grado di poter percorrere lunghe distanze ma, soprattutto, poter contribuire attivamente alla vita della comunità che avrebbe accettato di ospitarli; anche se non mancano casi eccezionali nei quali intere comunità decisero di passare la frontiera della zona pacificata sfruttando così la transumanza come strumento di lotta politica nei confronti dei loro governanti. Nel 1784, ad esempio, il parroco di Nabalam ci informa in una nota che gli ufficiali di uno dei suoi pueblos lo avevano avvisato che gli indigeni stessero pianificando una fuga in massa a causa del comportamento tirannico dell’ufficiale spagnolo della regione (AA, Visitas pastorales 5, Informe parroquial, Nabalam, 1784 in Farriss, La sociedad maya bajo el dominio colonial, p. 132).
Non tutti però avevano la possibilità o la volontà di fuggire dalla loro casa e dalla loro comunità, per questi le condizioni materiali che gravavano sugli indigeni delle colonie non dovevano affatto essere più sopportabili che a quelli che decidevano di fuggire, la resistenza silenziosa ai soprusi europei si sfogava quindi in un endemico alcolismo.
Come sempre motivi sociali si intersecano a quelli antropologici e meramente rituali. William Taylor, ad esempio, nel suo Drinking, Homicide and Rebellion sostiene che gli spagnoli esagerassero riguardo l’ubriachezza indigena perché non erano in grado di distinguere tra l’uso rituale e l’alcolismo sociale, mentre Charles Gibson conclude il suo studio sugli aztechi dell’epoca coloniale dicendo che «Se le nostre fonti sono degne di credito, ci furono pochi popoli nella storia dell’umanità più propensi all’alcolismo degli indigeni della colonia spagnola» (Charles Gibson, The Aztecs Under Spanish Rule: A History of the Indians of the Valley of Mexico, 1519-1810, Stanford University Press, 1964).

Naturalmente tra il fraintendimento e la totale invenzione c’è un abisso che va colmato.
Sarebbe stupido e odioso pensare che gli indigeni fossero “razzialmente” inclini all’ubriachezza come sembrano testimoniare i cronisti spagnoli ma, dall’altro lato, non si possono nemmeno deresponsabilizzare interamente comunità per le quali l’ubriachezza, in un certo senso, rappresentava la quintessenza stessa della convivialità e della festa mondana. Si può pensare, come sociologi e letterati del passato hanno fatto, che l’ubriachezza patologica possa essere l’indice di un malessere sociale più che la sua causa, teoria che assieme alle transumanze semi permanenti o definitive a cui accennavo sopra, potrebbe risultare assolutamente convincente nell’essere considerata una delle possibili valvole di sfogo di una resistenza disarmata ai colonizzatori.
La storia è ulteriormente complicata, come succede sempre quando si prendono in mano le fonti primarie, dal fatto che il rapporto con gli alcolici non è assolutamente un’introduzione portata dalla conquista europea: come quasi tutte le risposte confermano, gli indigeni producevano già un loro “vino” di mais e radici, anche se non ci è dato conoscerne né l’esatta composizione né i modi di consumarlo. In che misura l’ubriachezza fosse una condizione atavica o nuova è ovviamente speculazione, anche se le fonti ci portano a pensare che in tempi preispanici l’alcol fosse relegato in maniera ferrea alla sfera del religioso e del rituale, e che sia stato “mondanizzato” dall’arrivo degli europei che ne regolarono il consumo fino a promulgare un vero e proprio editto di purezza nel 1680 almeno per la più famosa bevanda alcolica messicana, il pulque.
Legge XXXVII. Riguardo la bevanda del pulque, consumata presso gli Indios della Nuova Spagna.
– Gli indios della Nuova Spagna consumano una bevanda chiamata pulque, che distillano dall’agave, pianta che apporta benefici per vari motivi, la quale se bevuta con temperanza potrebbe essere tollerata, visto che loro ci sono abituati. Tuttavia abbiamo avuto esperienza di notevoli danni, di problemi nel modo che hanno di prepararla e conservarla, introducendoci alcuni ingredienti nocivi per la salute spirituale e temporale; con il pretesto di poterla meglio conservare e di non rovinarla, la mescolano con alcune radici, acqua bollente e calce. Con questi ingredienti la bevanda prende talmente tanta forza che obbliga gli Indios a perdere ogni percezione, essa abbraccia le principali membra del corpo e le danneggia, le fa contorcere e li fa facilmente uccidere; inoltre la cosa peggiore è che essendo completamente estraniati dalla realtà, commettono atti idolatri, cerimonie e sacrifici pagani; lottano tra di loro furiosamente, si ammazzano, commettono molti vizi carnali, nefandi, a volte incestuosi, cose per le quali, in accordo con il Viceré e la Real Audiencia, si è deciso che i prelati ecclesiastici ci pongano censura e la proibiscano. E Noi, attenti a estirpare tali vizi e a impedire le occasioni che possano provocarli, poiché desideriamo il bene spirituale e temporale degli indios nonché anche quello degli spagnoli che ne facessero uso, ordiniamo e diciamo che alla natura semplice e genuina dell’agave non si possa aggiungere alcun genere di radice, né alcun altro ingrediente che la renda più forte, acida o piccante, né per immissione, distillazione o infusione, così come in nessun altra forma che possa causare questi o simili effetti, anche qualora fosse a titolo di conservarla o di evitare che si corrompa –

La resistenza armata fu una strada tutt’altro che inesplorata da parte dei maya yucatechi che tentarono almeno due grandi rivolte durante l’epoca coloniale (una nel 1546-1547 e l’altra, guidata da Jacinto Canek nel 1761) e una nell’epoca repubblicana (durante la Guerra de Castas dal 1847 al 1901) ma fu solamente un’opzione particolare dello spettro di scelte tenute in mano dall’élite indigene e concesse dall’indirect rule spagnolo. Si sceglieva spesso il negoziato (anche forzando la mano facendo trasferire intere comunità al di là della frontiera), si presentavano richieste presso il Tribunale de Indios, che forniva assistenza legale alle comunità maya esentandole dalle tasse che, al contrario, i coloni spagnoli dovevano pagare ai giudici mentre, però, i comuni macehuales dovevano tirare avanti come avevano sempre fatto, cercando di sopperire alla povertà materiale o attaccandosi alla bottiglia o emigrando in comunità distanti da cui poter ricominciare una nuova vita, inseriti in un luogo dove la nuova classe dirigente ignorasse il loro passato.
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