Guelfi e Ghibellini: la Realtà Italiana

Guelfi e Ghibellini, due fazioni che si sono combattute a lungo, anche dopo che le ideologie alla base di ciascuna di essa erano ormai sparite.

In uno degli ultimi eventi cui ha partecipato il Centro Studi Zhistorica, mi è caduto l’occhio su un volume dedicato a Guelfi e Ghibelli edito da Edizioni Chillemi (“l’Osprey Italiano”). Si tratta di un agile volumetto di 74 pagine, in b/n e con 4 tavole a colori, scritto dall’avvocato romano Alfonso Sergio Scaramella. A parte qualche refuso e una sintassi molto influenzata dal mestiere esercitato, l’Avv. Scaramella riesce a proporre un affresco conciso e interessante della realtà italiana duecentesca attraverso le lotte tra guelfi e ghibellini. Per questo motivo – ma anche per coadiuvare gratuitamente gli sforzi di alcuni editori e scrittori italiani – vi propongo un estratto dell’opera. Buona lettura.


Nel contesto italiano, più precisamente fiorentino, i termini guelfo e ghibellino comparvero rispettivamente nel 1239 e nel 1242, negli anonimi Annales Fiorentini (redatti tra 1242 e 1244) per designare le parti fiorentine e toscane in conflitto. Se ne ha, poi, notizia in una lettera dei Capitani fiorentini della “… pars guelforum …” (1248); nella cronaca fiorentina del 1248, compresa nel Chronicon de mundi aetatibus del notaio piacentino Giovanni Codagnello (Johannes Caputagni); in una lettera di Federico II (1248), in un registro di delibere di S. Gimignano (1248) ed in due lettere papali (1248 e 1250). Fuori Firenze, le prime menzioni dei due nomi si reperiscono in Arezzo e Borgo Sansepolcro (1249).

Per riassumente velocemente l’origine di guelfi e ghibellini mi permetto, in questo caso, di utilizzare l’ottimo specchietto presente sulla pagina wiki italiana:

Guelfi e Ghibellini erano le due fazioni opposte nella politica italiana dal XII secolo fino alla nascita delle Signorie nel XIV secolo. Le origini dei nomi risalgono alla lotta per la corona imperiale dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125) tra le casate bavaresi e sassoni dei Welfen (pronuncia velfen, da cui la parola guelfo) con quella sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen (anticamente Wibeling, da cui la parola ghibellino). Successivamente, dato che la casata sveva acquistò la corona imperiale e, con Federico I Hohenstaufen, cercò di consolidare il proprio potere nel Regno d’Italia, in questo ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l’impero (Ghibellini) e chi lo contrastava in appoggio al papato (Guelfi).

Tra la fine del XII secolo e la metà del XIII, in quasi tutti i Comuni di formarono due partiti che, pur recependo le originarie contese dinastiche germaniche, le modellarono sulla realtà italiana e municipale. Ora, in Italia, poiché il Papa parteggiava per le casate guelfe, questa parte divenne il partito del Papa, del pari, i ghibellini, persa la contraria coloritura dinastica, divennero il partito imperiale. Né tanto bastò perché la complessa articolazione delle fazioni interne ai Comuni finì per generare in ciascuna città formazioni politiche i sottordine, spesso legate a consorterie plurifamiliari e clientelari.

Si pensi alle acerbe contese tra fazioni nominalmente guelfe (le prime) e ghibelline (le seconde): a Firenze (1216) tra Fifanti e Uberti e tra Buomdelmonti  ed Amidei; a Pisa fra Pergolini e Raspanti; a Genova (1241) fra Raspini e Mascherati; a Modena tra Anginoni e Fregnanesi detti Gualandelli (1188) e, poi, fra Aigoni (o Aginoni) e Grasolfi; a Bologna fra Geremei e Lambertazzi e tra Scacchesci e Maltraversi; ad Arezzo fra Parte Verde e Secchi; a Verona tra Capuleti e Montecchi.

guelfi e ghibellini
Battaglia di Montaperti

Situazioni così complicate, ove le nominali appartenenze guelfe e ghibelline non riescono da sole a spiegare lotte che hanno nelle faide familiari la loro matrice preponderante; il tutto aggravato dalle catene clientelari che accompagnavano ogni famiglia notabile. Pare, ad esempio, che il seguito dei Lambertazzi (i c.d. Lamberteschi) contasse ben 158 famiglie, delle quali si conoscono: Accarisi, Angelelli, Belvisi, Balla, Bombace, Boninsegni, Boschetti, Bonigari, Carbonesi, Fabbri, Fava, Foscarari, Garzoni, Gessi, Guidotti, Guastavillani, Lojani, Lambertini, Magnani, Marani, Mariscotti, Nanni, Orsi, Pasi, Prencipi, Sacchi, Salaroll, Sangiorgi, Toschi. Accadeva, cosi, che aderenti al medesimo partito fossero divisi in contrapposte ed agguerrite obbedienze che complicavano oltremodo la vita civile e politica delle città: ne derivavano interminabili faide e repentini cambi di governo; lunghi esili e bande di fuoriusciti.

Questi, poi, scacciati dalle loro città, cercavano in altre accoglienza e supporto per vendicarsi in armi della parte avversa. Si noti che la pluralità di gruppi e di interessi fu una costante dell’inurbamento, anche fuori d’Italia. Ora, però, mentre nelle città estere la tendenza prevalente fu la collaborazione fra i vari gruppi, nei comuni italiani lo scenario dominante fu una generalizzata conflittualità. Più avanti, allorchè, all’esito delle battaglie di Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268), la casata degli Hohenstaufen perse la corona imperiale e si estinse, il partito ghibellino finì scompaginato e presto dissolto.

La stessa parte guelfa subì una profonda spaccatura. I guelfi si divisero in Neri, oltranzisti filo-papali, e Bianchi, moderati filo-imperiali. Storica in Firenze la lotta infinita e crudelissima che oppose le famiglie dei Donati, guelfi neri, e dei Cerchi, guelfi bianchi. Per il vero, tale sviluppo partitico non aveva quasi più legame con le iniziali fazioni dinastiche e denunziava ad un occhio più attento l’irreversibile tramonto del Papato e dell’Impero quali potenze sovra-nazionali. E, mentre il Papa apparentemente trionfava per la sconfitta della casa degli Hohenstaufen a tutto vantaggio degli Angiò, suoi nuovi beniamini, Comuni e fazioni, ammantandosi delle casacche politiche bianche e nere, ingigantivano le lotte intestine e le feroci vendette familiari.

Questo stato di cose, slegato dalle originarie contese dinastiche, si tradusse in una guerra civile permanente, ove ogni città era coinvolta nelle sanguinose vendette di un’altra per un malinteso senso di obbedienza partitica. La stessa scandalosa lotta tra papato ed impero che per la natura stessa delle due istituzioni non avrebbe avuto ragion d’essere, le trasse in un gorgo senza fondo, che, di fatto, produsse la disintegrazione del mondo medievale con costi politici e civili che il tempo avrebbe rivelato indegni ed onerosi.

Non v’è dubbio che la casata Hohenstaufen fu travolta da questa temperie, ma il preteso vincitore, il papato pagò con la cattività avignonese la sua politica filo-francese e gli stessi comuni che, giocando ambiguamente su mille tavoli, svendettero a signori locali e monarchie straniere, al prezzo di secoli di guerre, le pretese “libertà” municipali strappate all’impero, il quale, in fondo, non era un estraneo “castigamatti”, ma il legittimo signore d’Europa e d’Italia secondo la successione carolingia che il Papato stesso aveva evocato e benedetto. Ma il dato veramente singolare e fin troppo illuminante è che, quando da lungo, lunghissimo, tempo le contese dinastiche tra le casate germaniche si erano spente, gli Hohenstaufen si erano estinti e lo stesso impero universale era irrimediabilmente tramontato, in Italia i comuni continuavano a combattersi dietro improbabili insegne guelfe e ghibelline.

Non a caso, Dante invitava i ghibellini a fare “… lor arte sott’altro segno …”, intendendo dire che l’insegna imperiale è cosa troppo degna per essere spesa ancora per lotte intestine, Inoltre, in taluni contesti urbani come quello fiorentino, il termine ghibellino divenne presto sinonimo di eretico; anzi, talune casate come gli Uberti o i Cavalcanti furono pubblicamente accusate di aderire a movimenti ereticali. In Italia settentrionale, i termini guelfo e ghibellino si conservarono per indicare genericamente le fazioni pro-papa e pro-imperatore. In area napoletana, in epoca angioina, sopravvissero per designare i filo-angioini ed i filo-svevi, ma, in entrambi i casi, la crudezza delle condotte non cambiò.

Ancora nel 1525, all’esito della battaglia di Pavia, si parlava ancora di guelfi e ghibellini per indicare il partito francese e quello imperiale. E c’è da pensare, poi, che se anche i due nomi si persero nell’uso, quel modo di appartenere e levare beghe ci sia rimasto appiccicato, avvelenando per secoli, o forse tuttora, la vita civile e politica di noi italiani. Non è, in fondo, un caso, che i due termini (in forma di neo-guelfi e neo-ghibellini) si siano riaffacciati in epoca risorgimentale per designare fazioni e progetti statuali contrapposti.


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