L’assedio di Orán e di Mazalquivir (1563)

L’assedio di Orán e di Mazalquivir (1563) rappresenta un importante momento di resistenza delle roccaforti europee in Nord Africa di fronte all’espansionismo ottomano.

Per alcuni decenni, fino al 1558 circa, Spagna e Marocco combattono e respingono insieme gli assalti degli uomini di Solimano incaricati di portare sotto il governo di Costantinopoli l’intera costa nordafricana, ma, nel 1563, gli Spagnoli si trovano a dover fronteggiare da soli gli uomini di Asam Pasha, figlio del più noto Barbarossa.

Dire che la Spagna sia uno dei protagonisti europei dell’intero XVI sec. rischia di essere scontato. Ma quando parliamo del regno di Carlo V prima, e di quello di Filippo II, di che regno stiamo parlando?

La domanda di per sé è fallace in partenza: fintanto che la monarchia ispanica sarà impero non adotterà mai il nome di “Spagna”, come invece si fa comunemente nei manuali di storia attuali, preferendo di gran lunga la definizione di “corona iberica” nel senso medievale, che intendeva i territori soggetti alla monarchia non come parte di un unico “impero” ma come parti distinte e distinguibili, soggette all’autorità del re.

Nei documenti ufficiali della monarchia asburgica saranno sempre citati i vari regni che la compongono: quello castigliano, aragonese e quelli americani senza che sia mai presente la dicitura “Spagna”, semplicemente perché l’idea dello stato iberico come unico regno era impensato e impensabile. La secolare monarchia ispanica si era sempre basata su un delicato meccanismo che al potere centralizzatore del re, contrapponeva una serie di privilegi e autonomie alle varie ragioni, nel rispetto delle consuetudini e tradizioni locali.

Il 13 settembre 1598 tutto l’Escorial era in preda al panico: da una delle più sontuose stanza del palazzo imperiale un nobile molto anziano non smetteva di lamentarsi chiamando a gran voce alternativamente il prete e il medico, invocando il viatico all’uno e qualcosa che lenisca il dolore all’altro. Erano i drammatici esiti di un cancro che lo attanagliavano da diverso tempo e che non gli davano tregua ormai da 52 giorni che il vecchio aveva passato in preda alla febbre, l’idropisia e la gotta.

Il vecchio non passerà la notte, morendo la giornata stessa: il suo nome resterà per sempre associato alla grandezza dell’impero che, con molti insuccessi e qualche vittoria, aveva contribuito a rendere il più grande d’Europa, talmente grande che si poteva a buon titolo dire che non vi “tramontasse mai il sole”; il suo nome era Filippo II.

La fama del suo nome resterà per sempre legata a un grande impero atlantico che aveva rafforzato ed espanso i suoi controlli sul nuovo continente americano mentre al contempo si era spinto fino ai limiti estremi dell’Asia riuscendo a conquistare le isole che, in suo onore, sarebbero state chiamate Filippine, tuttavia è compito dello storico ricordare che il grande e ambizioso progetto di Filippo II non fu solo questo: egli aveva sì intuito il grande potenziale del Nuovo Mondo ma, come dimostrato dalla sua partecipazione alle guerre contro i Turchi in qualità di membro della Lega Santa, non aveva dimenticato la vocazione mediterranea di una delle due componenti fondamentali della monarchia asburgica: il regno aragonese.

La storia mediterranea, dopo essere stata a lungo messa da parte in favore della ben più nota conquista delle Americhe, è stata riportata all’attenzione della storiografia internazionale grande al rigore scientifico di un grande maestro come Fernand Braudel che, nel 1949, con la pubblicazione del suo La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II portava all’attenzione di tutti gli esperti il tema fondamentale del rapporto tra il Mediterraneo e gli stati che si affacciano su di esso scegliendo, non casualmente, il nome di Filippo II per dare un nome a quest’epoca che, all’ora come oggi, viene studiata molto più spesso lungo le via “atlantiche” piuttosto che lungo quelle “mediterranee”.

Ma la storia del Mediterraneo non è meno ricca di quella atlantica per quanto riguarda assedi, gesta eroiche e battaglie disperate: se è vero che Cortés e Pizarro riuscirono a piegare i due più grandi imperi precolombiani con un pugno di uomini, pochi anni dopo, nel 1563, una guarnigione composta da poco più di un migliaio di uomini teneva testa a una forza ottomana dieci volte superiore e che poteva contare su una flotta in supporto, riuscendo infine a far rimanere le fortezze di Orán e Mazalquivir saldamente in mani spagnole (dati da Sánchez Doncel, Presencia de España en Orán (1509-1792)).

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Giannizzeri e Spagnoli (fonte: www.elgrancapitan.org)

Qualche secolo più tardi, nel 1846, un grande politico e storico spagnolo, Evaristo Fernández de San Miguel y Valledor pubblicava una grande opera in due tomi dal titolo Historia de Felipe II: Rey de España nella quale, coerentemente con l’incipiente sviluppo della disciplina storiografica, cercava di ricostruire la seconda metà del XVI sec., indiscutibilmente caratterizzata  dalle imprese di Filippo II.

San Miguel ricostruisce nella sua opera, anno per anno, tutti i principali eventi del regno del famoso sovrano spagnolo e, come sottotitolo per l’anno 1563, decide di riassumerli con:

CAPITOLO XXIX.

Problemi dell’Africa – Asam, Dey di Algeri, progetta la conquista di Orán e di Mazalquivir – I suoi preparativi – Le forze di cui dispone – Parte la spedizione via terra e raggiunge le prossimità delle mura di entrambe le fortezze – Condizioni di queste – Comincia l’assedio – I mori catturano il forte di los Santos – Parte da Algeri la squadra [flotta] del Dey – Si bloccano [si intende un blocco navale] le fortezze assediate – Il conte di Alcaudete a Orán – Don Martin di Cordoba a Mazalquivir – Si assedia questa ultima fortezza – Attacchi al forte di San Miguel – I nostri lo abbandonano – Vari assalti alla fortezza di Mazalquivir – Tutti respinti – Gli assedianti avvistano i soccorsi della Spagna – Levano l’assedio.

1563.

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Il Capitolo XXIX della Historia di Filippo II

Non vi è alcun dubbio che l’assedio di quelle che erano restate le principali piazzeforti spagnole in terra africana, venga riconosciuto come l’evento principale di un anno, il 1563, che, ad esempio, aveva anche visto la tanto agognata chiusura del Concilio di Trento.

San Miguel ci spiega a grandi linee la situazione dell’Africa della seconda metà del XVI secolo:

«Già abbiamo visto il potere acquisito dal famoso corsaro Barbarossa, e quello che in quel tempo dispiegava Dragut, del suo stesso livello e degli antecedenti. Questi era considerato come uno dei principali capitani di mare al servizio della Sublime Porta, e operando già sotto i suoi ordini, o per i suoi propri interessi, era riuscito a stabilirsi a Tripoli come sovrano, sempre però sottomesso ai turchi».

Nella politica mediterranea di Filippo II, l’attenzione ai berberi e ai turchi era un obbligo per vari fattori: il principale era la composizione stessa della popolazione del Meridione iberico che, a settant’anni dalla terminata Reconquista, era ancora “etnicamente” arabo e quindi considerato inaffidabile, ma anche le lamentele del regno di Aragona, componente della monarchia asburgica da sempre orientato ai commerci mediterranei, che riguardavano l’instabilità dovuta alle continue azioni di pirateria da parte dei berberi e, ultimo ma non per importanza, il fatto che la potenza turca sembrava ancora invincibile (la vittoria di Lepanto, che segna l’inizio del declino per l’impero turco, sarebbe arrivata solo 8 anni dopo, anche se, nel 1565, la resistenza dei Cavalieri di Malta al Grande Assedio assestò un duro colpo psicologico ai vertici militari ottomani).

Tutte queste cause portano Filippo II a interessarsi della stabilizzazione del suo “fronte meridionale”, quello con i maomettani, stabilizzazione che poteva avvenire solo attraverso una supremazia marina e attraverso il controllo di piazzeforti chiave sul suolo nordafricano.

Tuttavia

«Le due fortezze di Orán e di Mazalquivir, le sole che, assieme al forte della Goleta, occupavamo in quelle coste, non avevano una guarnigione consistente, né tutti gli attrezzi di guerra che erano necessari in vista di una tale attiva e aspra ostilità dei maomettani, circostanza che diede loro l’incoraggiamento a intraprendere un famoso assedio che stiamo per descrivere, anche se in modo molto succinto».

È grazie alla conoscenza delle cattive condizioni dei forti, unito al problema che Filippo II stava affrontando nelle Fiandre e alla guerra civile in Francia tra cattolici e calvinisti, ci informa San Miguel, che porta Asam ó Hascem, figlio di Barbarossa e Dey di Algeri, a pianificare l’assalto per respingere gli spagnoli dall’altra parte del Mediterraneo.

Il Dey Asam, dopo aver mandato emissari a tutti i suoi vassalli e alleati, riesce a raccogliere un contingente di 24.000 uomini e, commenta il San Miguel «l’esercito era molto consistente per quanto riguarda la cavalleria, e non gli mancavano pezzi di artiglieria pesante da assedio, con le sue munizioni e gli attrezzi necessari». Mentre al porto di Algeri si stava raccogliendo la squadra navale che avrebbe scortato e supportato la spedizione terrestre, il punto di raccolta viene fissato sul fiume Cirito, a cinque leghe di distanza (circa 28 km) dalle due fortezze spagnole.

Era governatore il conte di Alcaudete che, ricevendo notizia della spedizione che era stata progettata, ne informò il re, chiedendo supporto di uomini, come di munizioni e di viveri; non esimendosi, da parte sua, di prendere tutte le misure necessaria per approntare le migliori difese nelle fortificazioni sotto il suo comando. Tuttavia la maggior parte delle galere del re di Spagna stavano in Sardegna, a Napoli e in Sicilia. Ce n’erano disponibili solo alcune che stavano a Cartagena, Valencia e Barcellona. Scrisse al re tutte queste cose, pregandolo che si mettessero subito in marcia in soccorso delle fortezze che stavano per essere assediate, oppure che già lo erano, portando con sé quante più munizioni e attrezzi avessero a disposizione. Ugualmente scrisse ai provveditori di Malaga, che inviassero immediatamente viveri; e le stesse comunicazioni le inviò ai viceré di Sicilia e Napoli, al governatore di Milano, al Gran Maestro di Malta, e ai duchi di Firenze e Savoia, alle repubbliche di Genova e di Venezia; a riprova della grandissima importanza che egli dava alla difesa di queste fortezze e della totale impreparazione che aveva portato i berberi a provare il colpo di mano.

All’inizio di aprile del 1563, le truppe di Asam si mettono in moto. La sua guardia personale è composta da 500 giannizzeri e da altrettanti soldati turchi.

Assedio di oràn
I luoghi dello scontro

Nel frattempo:

Dopo aver riparato e aumentato le fortificazioni della piazzaforte [Orán], il conte di Alcaudete incarica suo fratello Don Martin di Cordoba della difesa di Mazalquivir. Le forze di entrambi erano decisamente scarse, ed erano ben lontane dell’essere abbondanti le munizioni e i viveri. La loro forza militare era di circa 1.400 uomini, i pezzi di artiglieria 90 e avevano 500 quintali di polvere da sparo, con le corrispondenti palle di cannone.

San Miguel ci informa inoltre della volontà del conte di Alcaudete di tentare una sortita ai danni degli invasori, opzione successivamente scartata per l’imbarazzante rapporto di forza a loro sfavore rappresentato dall’esercito maomettano che avrebbe così avuto la possibilità di avvicinarsi alle mura e assalire le mura del forte di Los Santos, avancorpo isolato rispetto alle due fortificazioni, e di catturarlo al fine.

Tra le due fortezze, Mazalquivir (come si può notare dalla mappa) era decisamente quella più lanciata verso il mare e, quindi, l’unica delle due che avrebbe potuto sperare nel soccorso alleato dal Mediterraneo; Asam, conscio di ciò, decide di porre un “corpo d’osservazione” intorno alla fortezza di Orán, concentrando la direttrice principale d’attacco verso la piazzaforte di Mazalquivir.

Il San Miguel si dimostra davvero un collega degno degli storici contemporanei, avvertendo il lettore di quanto le fonti, da cui lui stesso ha attinto le informazioni, non siano da considerarsi come verità assolute, ma come irrimediabilmente influenzate dal loro tempo:

Per catturare Mazalquivir, bisognava cominciare con il forte di San Miguel, che domina la città. Lì quello di Algeri [Asam] concentrò i suoi attacchi, senza però raccogliere alcun risultato. I cristiani resistettero a due assalti, uccidendo duecento giannizzeri e turchi [notare la distinzione tra giannizzeri, che sono dei cristiani convertiti e delle truppe d’élite, dai generici soldati “turchi”] e perdendo solo venti dei nostri. Ma torniamo a ricordare al lettore di esercitare sempre il dubbio in quanto al numero dei morti, dei feriti e dei prigionieri perché, trattandosi di guerra e battaglie, le esagerazioni erano comuni sia per spirito di appartenenza a una delle due fazioni, sia per ignoranza. Inoltre si deve tenere presente che gli storiografi di queste guerre sono tutti cristiani, e quindi, gente di una sola delle due fazioni.

Nel frattempo erano partite via mare entrambe le flotte: quella cristiana con i rinforzi e quella di supporto di Asam, entrambe incontrano dei contrattempi, ma a differenza della seconda, che ritarda di qualche settimana, la prima viene completamente spazzata via, al punto che un’altra fonte ci informa che delle 27 navi partite dalla Spagna, 24 furono distrutte a seguito della tempesta dove morì anche il capitano generale della flotta Don Juan de Mendoza (Sánchez Doncel, Presencia de España en Orán (1509-1792)).

Infine, quando ad Algeri si furono risolti i problemi [i.e. cessarono i venti avversi], partì un’altra volta la flotta dal mare e arrivò senza contrattempi nell’area di Mazalquivir, composta da 26 buques, 2 galeotes e 4 navi francesi, ben armate di artiglieria, munizioni, viveri e tantissimi uomini di rinforzo.

La situazione tornata favorevole per il Dey di Algeri fa rinverdire la sua volontà di assaltare frontalmente il forte di San Miguel, dopo aver ricevuto un rifiuto all’offerta di un trattato ai cristiani con il quale avrebbero potuto abbandonare il forte e avere le loro vite salve, Asam ordina ai suoi uomini di attaccare in un assalto che sarà:

più funesto per quelli dei due precedenti, essendosi incendiate le fascine nel fossato [evidentemente messe dai difensori a tale scopo], che aumentarono le perdite da parte degli attaccanti. Un altro assalto, e ancora un altro, diedero ugualmente poco frutto ad Asam, che lasciava nel fosso il signore di Constantina tra i morti.

Nel frattempo, dalla parte dei cristiani, la situazione si faceva critica: iniziavano a mancare le munizioni, i viveri e le fortificazioni stavano crollando a pezzi, mentre il corpo d’osservazione a Orán impediva alle due forze spagnole di comunicare e sostenersi, in condizioni tanto disperata, il comandante in capo del forte dà l’ordine ai suoi di ritirarsi presso la piazza della città per tentare lì l’estrema difesa.

Occupato il forte di San Miguel dalle truppe di Asam, questi tornò a concentrare i suoi attacchi sul corpo della piazzaforte, credendola prossima a cedere dopo l’espugnazione di un punto così importante come il forte. Tuttavia Don Martin di Cordoba, avvisato da suo fratello, aveva già approntato le difese necessarie per resistere ai nemici.

È a questo punto, in una situazione nella quale la catastrofe sembra completa che San Miguel ci riporta uno dei brani più eroici dell’intero assedio di Mazalquivir: il secondo rifiuto alla resa proposta da Asam al comandante in capo Don Martin di Cordoba.

Assedio di Oran
Rappresentazione coeva delle manovre di assedio

Asam si avvicinava sempre di più alle mura della piazzaforte. Costruì le sue batterie e aprì delle trincee per porsi al coperto dai tiri degli assediati, ma questi smontarono due pezzi di artiglieria e cominciarono a fargli gran danno, senza che Asam potesse rispondere, occupato com’era nei preparativi. Desiderando di venire a termini con gli assediati, inviò un’ambasceria a Don Martin, offrendogli la capitolazione più onorevole se avessero aperto le porte della piazzaforte, visto anche lo stato penoso delle mura e la mancanza di artiglieria. Don Martin gli rispose che quella piazzaforte del re di Spagna sarebbe stata difesa dai suoi fino alla morte e, visto il cattivo stato delle sue strutture, i suoi nemici sarebbero potuti venire ad assaltarla quando avessero voluto.

Infuriato, Asam dà l’ordine di assaltare frontalmente la piazza, dividendo le sue forze in due corpi da 6.000 uomini ciascuno. All’attacco furioso, corrisponde un altrettanto furiosa resistenza da parte dei cristiani: più di 1.500 maomettani muoiono nel fossato, la maggior parte cadendo nel tentativo di scalare le mura; dopo il primo fallimentare assalto, ne seguono molti altri, tutti con il medesimo risultato.

Le perdite tra i nemici erano grandi, al punto che alcuni storici esagerano, ma si può immaginare la strage anche solo pensando all’elevato numero di assalti infruttuosi. I morti erano talmente tanti che Asam dovette iniziare a bruciarli. I viveri iniziavano a scarseggiare anche nel suo accampamento. Le truppe cominciavano a disertare, altre a perdere la speranza nel bottino, speranza che aveva convinto loro a partire tanto entusiasti. Mentre, dall’altra parte, Asam non poteva fingere di non sapere che il re di Spagna avrebbe ricevuto notizie dell’assedio di Orán e di Mazalquivier e che avrebbe portato soccorsi.

Nonostante l’assedio continuo e il blocco navale imposto dai mori, i due fratelli al comando delle fortezze continuano a resistere, totalmente disillusi riguardo l’arrivo dei rinforzi che tante volte avevano reclamato al proprio re.

Dall’altra parte, il Dey di Algeri, certo invece che sarebbero arrivati prima o poi gli spagnoli a supporto degli assediati, dopo aver riunito il consiglio di guerra, opta per un ultimo attacco frontale con l’obiettivo di catturare le fortezza prima dell’arrivo delle truppe del re.

Si verificò effettivamente l’attacco detto, nel quale Asam impiegò tutte le sue forze sia per terra che per mare. Don Martin di Cordoba, avendo saputo che avrebbero attaccato, aveva preso le disposizioni necessarie. Tutti gli uomini si prepararono a combattere, dopo essersi confessati e comunicati, secondo una pratica comune nell’epoca di cui stiamo parlando. Don Martin di Cordoba esortava i suoi a combattere con valore con un crocifisso in mano, dicendo loro che quello sarebbe stato l’ultimo sforzo richiesto al loro valore. I soldati risposero con acclamazioni alle esortazioni di Don Martin e tutti si prepararono a respingere i nemici che già cominciavano a muoversi e diffondevano nell’aria le urla di clamore e il suono dei loro tamburi.

San Miguel ci comunica che, molto probabilmente, fu l’attacco più furioso di tutti: entrambe le parti combattevano con la forza della disperazione, i turchi da una parte sapevano che avrebbero dovuto conquistare la fortezza per poi respingere la controffensiva degli spagnoli che stavano giungendo dalla Spagna, mentre i cristiani non erano intenzionati a cedere un solo palmo di terra, come ricordato in precedenza dai reiterati rifiuti di Don Martin alla resa offerta dal Dey Asam di Algeri.

Molti furono precipitati dalla sommità dalle stesse mura verso le quali stavano salendo certi della vittoria. La perdita per i nemici fu enorme. Gli storici valutano che la nostra fu di soli 15 uomini, esagerazione poco degna per scritti seri come quest’opera. Tra i feriti si contò anche Don Martin, colpito da una pietra oppure da un frammento di mura che lo colpi non gravemente.

A seguito di questo, Asam dà ordine di caricare un’altra volta le mura della fortezza, ottenendo sempre lo stesso risultato, ma il morale dei maomettani stava ormai scemando e l’assalto, che si protrae per ben 5 ore, non riesce a sbloccare la situazione in loro favore, anzi al contrario sembra avvicinare sempre di più alla catastrofe Asam e i suoi.

Il 7 giugno 1563 vengono avvistate da entrambe le fortezze le vele della tanto agognata flotta cristiana che si stava dirigendo verso gli assediati, a tale vista, entrambe le guarnigioni gioiscono alzando urla di giubilo.

Mentre la flotta spagnola ingaggia lo scontro con quella turca, dimostrandosi subito superiore, Asam ordina ai suoi di smantellare il campo d’assedio, dando inizio concretamente alla ritirata da Orán e da Mazalquivir.

Le due guarnigioni di Orán e Mazalquivir, che erano state impossibilitate per tanto tempo a comunicare, si salutarono con dimostrazioni di vivo giubilo. Risuonarono dunque sulla spiaggia le salve di artiglieria e di archibugi, mescolate al suono delle trombe che gli uni e gli altri suonavano per festeggiare la tanto desiderata e ritrovata unione [dopo la sospensione delle comunicazioni tra i due forti a causa dell’assedio].

Alla fine dell’assedio, i 1.400 spagnoli avevano resistito da soli, divisi e con carenze su tutti i fronti a due mesi di combattimenti, durante i quali avevano perso un numero molto basso di uomini, a fronte delle svariate migliaia di nemici uccisi e della cattura di 5 galeotas e 5 caracche da parte della flotta spagnola giunta in soccorso.


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