In seguito all’epidemia di Peste del 1656, che scosse in particolare l’Italia del sud, l’Ospedale Fatebenefratelli di Roma fu adibito a Lazzaretto per gli appestati.
L’isola Tiberina, che ancora oggi è occupata quasi per intero dall’Ospedale, permetteva infatti ai medici di prendersi cura di malati altamente contagiosi in uno stato di relativo isolamento.
La peste del 1656 fu molto virulenta. Il tasso di mortalità superò il 50-60% in tutte le zone colpite e nella sola Napoli morirono più di 200.000 persone. A Roma, dove arrivò a causa di un marinaio napoletano, i morti furono quasi 15.000 su una popolazione totale inferiore ai 100.000 abitanti. Sembra che i medici dell’Ospedale di San Giovanni non collegarono il decesso del napoletano, avvenuto presso la loro struttura, alla peste, e quindi non fecero mettere in quarantena la locanda di Trastevere dove aveva alloggiato prima di manifestare i sintomi più gravi.
Solo dieci giorni dopo, con la morte dell’ostessa e di tutti i suoi figli, i medici compresero cosa stava accadendo. Ma era troppo tardi, la peste si era già diffusa a Trastevere e nel Ghetto (dove morirono, in tutto, 1.600 ebrei). E a nulla valsero le misure estreme poste in essere dalle autorità cittadine, quali erigere una barricata di legno intorno a Trastevere e presidiarla con guardie armate che avevano l’ordine di sparare a vista.
La Peste a Napoli |
Salvatore De Renzi, nella sua opera Napoli nell’anno 1656, ovvero documenti della pestilenza che desolò Napoli nel 1656, pubblicato nel 1867, ci fornisce notizie molto interessanti sull’insorgere della Peste nella città. Cita infatti le osservazioni di un medico lucano dell’epoca, Geronimo Gatta, che era stato testimone oculare degli eventi. Quest’ultimo si trattenne a Napoli dall’inizio dell’anno al 22 marzo, e disse che le morti sospette (e quasi istantanee) erano iniziate a metà gennaio.
In particolare, il Gatta si trovò a prestare assistenza medica, nel febbraio 1656, a un uomo aquilano presso il carcere della Vicaria. Questi accusava dolori all’orecchio sinistro, febbre e urina nera come inchiostro. Nonostante le cure del Gatta, l’uomo morì in quattro giorni, seguito dai suoi compagni di cella. A quel punto, il Gatta scrisse alla sua famiglia che intendeva lasciare Napoli perché la città era stata colpita da una mezza peste. |
Nel 1657, il Lazzaretto dell’Isola Tiberina era sotto la direzione di Giuseppe Balestra, medico di Loreto, che, grazie al suo ottimo lavoro, fu promosso Chirurgo Primario dell’Ospedale. Il Balestra scrisse un volumetto sulla sua esperienza nel Lazzaretto, in cui si alternano osservazioni pratiche, istruzioni per le medicazioni da effettuare ed episodi curiosi (e spesso orribili) legati alla peste. Uno degli episodi narrati riguarda addirittura la morte del suo stesso figlio diciottenne (sempre a causa della peste).
Fra l’altro, il Balestra era un medico particolarmente attento alla pratica, tanto che un collega scrisse di lui “non essendosi risparmiato l’Autore di aprire coraggiosamente uno numero non piccolo di Cadaveri per adempiere le Parti d’un vero prattico Osservatore“.
Il volumetto del Balestra permette effettivamente di conoscere la sintomatologia del male e contiene anche delle riflessioni rilevanti sulla forza dell’autosuggestione (chiamata “immaginatione”) come causa concorrente della peste. Sono settantacinque pagine che ogni storico della medicina dovrebbe avere sempre a portata di mano.
Purtroppo non è possibile riportare lo scritto del Balestra per intero, quindi procederò con il solito metodo, tentando di rendere fruibile il testo in italiano corrente anche attraverso link ipertestuali e box di commento.
La Sete
La sete eccessiva è un’altra conseguenza della peste che provai anche io per sette giorni quando fui contagiato. Un caso orribile avvenne proprio in questo Ospedale dei Frati Benfratelli (Fatebenefratelli), nella corsia chiamata S.Orsola. Qui, un ammalato, devastato dalla sete, chiedeva continuamente di bere; le guardie che assistevano i malati gli portarono dell’acqua, ma quello riprese subito a chiederne dell’altra. I medici però, non potendo dargli molta più acqua rispetto agli altri malati, gliela negarono. L’uomo allora si alzò dal letto e, in pieno delirio, si gettò dalla finestra dicendo che avrebbe soddisfatto la sua sete nel Tevere. La stessa cosa accadde a una donna, che si gettò nel Tevere sempre per trovare refrigerio.
Altri malati avevano gravi difficoltà a respirare, scurimenti della lingua e sensazione di asprezza nella bocca. Altri segni gravi della Peste erano il delirio, l’epistassi, i bubboni, i carboni, le cancrene e le petecchie.
L’Immaginazione
Il 17 Giugno 1610 nacque, presso il Lazzaretto di Praga, un bambino sano in tutte le parti del corpo eccezion fatta per l’addome, che aveva una profonda apertura. Da questa penzolavano gli intestini, il fegato, lo stomaco e la milza. Di questa nascita mostruosa era responsabile la madre. Ella infatti, passando per il macello, vide un vitello cui avevano tolto le interiora. Colpita da quella vista, iniziò a pensare in modo quasi ossessivo a quell’evento, imprimendo le stesse caratteristiche al feto che le cresceva in grembo tramite la sua forte immaginazione. Il racconto originale è nel libro de’ medicamenti mirabili di Marcello Donato.
D’altronde, ci sono persone che, dopo un forte spavento o un grave incubo, hanno visto i loro capelli e la loro barba divenire da biondi a bianchi. Tommaso Verga, nel suo commento sull’Arte Medicinale di Galeno, narra un caso molto interessante. Un giovane, tormentato da una febbre altissima e da un principio di delirio, visualizzò nella sua mente che si sarebbe liberato dalla febbre se gli fosse stato permesso di nuotare in uno stagno o in un fiume. Questa idea era così forte che, sdraiato sul letto e circondato dai parenti, diceva loro di che se volevano vederlo di nuovo sano, dovevano permettergli di andare a nuotare in quel lago (mentre diceva queste ultime parole, indicava il pavimento).
Il medico che lo visitò poco dopo gli negò la possibilità di mettere in pratica la sua idea, dicendo a lui e ai parenti che gettarsi in acqua in quelle condizione lo avrebbe portato alla morte. Il diniego del medico gettò nella disperazione il malato, che continuò a pregarlo di permettergli di nuotare in “quel lago”. A quel punto, il medico gli concesse di nuotare. Il malato saltò di gioia e si sdraiò a pancia in giù sul pavimento, muovendo mani e braccia come per nuotare. “Mirate” diceva “che ora l’acqua m’arriva al ginocchio”.
E poi, di nuovo, con tono ancora più allegro “ecco che m’arriva all’inguine” e “ora sono immerso fino alla bocca, presto, tiratemi fuori e portatemi dei vestiti, perché ormai la febbre è passata e non ho più alcuna malattia!” Ed effettivamente, la febbre era passata, al punto che il paziente si alzò dal letto, si vestì e andò via.
Allo stesso modo, alcuni si fissavano sull’idea della Peste e, come sostenuto da Paracelso, chi si ossessiona con il pensiero della Peste, rischia di provocarsela.
Un giorno arrivò al Lazzaretto dell’isola un giovane romano di circa trent’anni, alto e sano, cui chiesi per quale motivo fosse venuto qui. Mi rispose che era venuto per servire nel Lazzaretto. Lo portai nell’Ospedale, dove subito inorridì per il lezzo e la vista dei malati. Mi chiese dove si trovava, e io gli risposi che si trattava del Lazzaretto degli appestati: tutti i malati che vedeva erano stati colpiti dalla peste. Il giovane gridò che ormai era morto, ma gli dissi che servire delle persone così sofferenti era ben visto da Dio e dal Papa, e che entrambi lo avrebbero ricompensato.
Il giovane si accomiatò, ma durante la notte iniziò a salirgli una forte febbre. Lo visitai la mattina dopo, notando che aveva una macchia nera sul ginocchio destro. A nulla valsero le mie rassicurazioni, perché il giovane morì solo due ore dopo.
Un caso ancora più incredibile fu quello relativo a Bernardino Vasconio. Questi venne preposto come Medico a capo del Lazzaretto dell’Ospedale Frati Benfratelli per quindici giorni. Non appena arrivato, le sue prime parole furono “Che Dio m’aiuti!” e si convinse che non sarebbe tornato vivo a casa sua. Amici e colleghi provavano a rincuorarlo e tranquillizzarlo, ma per tutti i (pochi) giorni che rimase qui, non sorrise mai, limitandosi a sospirare tutto il tempo “che farò?”. Il Vasconio girava tutto il tempo con una grossa spugna imbevuta d’aceto (e di altre sostanze) sul naso; non la toglieva mai, tanto che aveva la bocca e il naso escoriati.
Prima di entrare nell’Ospedale, prendeva un numero enorme di alessifarmaci (antidoti), fra cui il giacinto e l’alchermes (liquore considerato un elisir di lunga vita). Questo liquidi caldi, aggiunti al suo grande calore corporeo naturale (“essendo lui di complessione caldissima che ben scopriasi dalla pustole, che nella faccia portava”), lo rendevano però più facilmente soggetto alla Peste. Mentre visitava poi, di faceva precedere da una grande padella piena di profumi. L’odore era talmente forte che, quando mi trovai lì vicino, sentii il bisogno di uscire all’aria aperta per il mal di testa e di stomaco che mi avevano provocato.
La padella piena di profumi aveva la stessa funzione di uno strumento molto più famoso, la maschera “con becco” portata dai medici durante le epidemie seicentesche. Nel becco erano contenuti profumi ed essenze che lo rendevano una sorta di antesignano protoscentifico delle maschere antigas. L’iconografia e, al giorno d’oggi, libri e film, hanno contribuito alla mitizzazione di queste e di altre figure, come i monatti, che operavano nello stesso contesto. |
Andò avanti così per qualche giorno, ma anche quando discorrevamo, si finiva sempre a parlare dei suoi timori fra grandi sospiri.
Una sera, uscendo dall’Ospedale, venne direttamente ai miei alloggi dicendomi “Balestra, mi sento un poco di gravezza di testa”. Lo rassicurai e lui tornò a casa. La stessa notte fu colto dalla febbre e due giorni dopo morì. Il suo cadavere aveva il colore del piombo.
Il terzo caso fu quello di una donna, Daria, moglie di un sarto, che viveva a Piazza di Spagna. La conoscevo perché mi era capitato, pochi giorni prima del mio ingresso nell’Ospedale, di effettuare una visita medica presso la sua abitazione. La vidi una sera, su uno dei carretti che portavano i nuovi ammalati all’Ospedale, e lei, riconoscendomi, mi fece chiamare. Era molto preoccupata perché aveva un bubbone ed era al quinto mese di gravidanza. Sentendole il polso, capii che aveva la febbre. Dopo averle trovato un letto, mi raccomandai con chi doveva curarla e tornai ai miei alloggi, che erano dentro all’Ospedale. In quel momento, avevo 300 appestati nei reparti e 100 in convalescenza.
La mattina seguente trovai la donna molto spaventata e in lacrime, convinta che non avrebbe passato la notte. Le dissi onestamente che le sue condizioni non erano molto gravi, ma lei continuò a dire “questa notte morirò”.
Il giorno dopo trovai il suo letto rivoltato. Quattro donne che si trovavano nella sua stessa camera mi dissero che aveva abortito nella notte ed era poi morta.
Il Delirio
Trasferirono al Lazzaretto un uomo di Trastevere. Quando lo visitai, vidi che aveva due bubboni su entrambi i lati dell’inguine e un carbone in mezzo al petto. Visto che chiedeva a gran voce di vedere subito un confessore, lo accontentai dopo averlo fatto sistemare in un letto. Provai a curare i bubboni e il carbone e lo lasciai mangiare, cosa che fece più con rabbia che con appetito. Poi si addormentò per ben trenta ore. Ogni tanto gli inservienti provavano a scuoterlo, ma egli apriva gli occhi e poi li richiudeva.
Si risvegliò, era in completo delirio, tanto che fui costretto a farlo legare affinché non facesse del male a sé o agli altri pazienti. Il giorno successivo, il suo delirio passò da una fase furiosa a una più quieta, ma volgare e blasfema – che offendeva l’orecchie di chiunque ivi passava – , e successivamente a un delirio di risate. Alla fine morì così, ridendo.
Vomito e Diarrea
Altri due giovani, arrivati al Lazzaretto in tempi diversi, mostrarono segni di delirio. Entrambi avevano una parotide dietro l’orecchio destro e il loro delirio era così furioso da costringere gli inservienti a legarli ai letti. Si scuotevano però così forte da rompere i nodi, e quindi feci raddoppiare le corde che li tenevano fermi. Ciononostante, uno riuscì a romperle ancora. Corse lungo tutto il corridoio, verso la finestra, inseguito dal personale dell’Ospedale. Riuscirono a bloccarlo in terra anche se lui continuava a sferrare pugni e calci. Poco dopo che lo ebbero messo nel letto, spirò.
Un altro giovane dai modi garbati fu portato al Lazzaretto a causa della febbre di due parotidi (che però sparirono velocemente). Il suo delirio iniziò il quarto giorno, sotto forma di discorsi formulati in latino maccheronico. Questa prima fase durò tutta la giornata. La seconda, scandita da continue risate, iniziò e finì il giorno successivo. Il sesto e il settimo giorno, il paziente prese a cantare ininterrottamente, fino a quando non trapassò.
Visto che mi mancava un giovane che mi portasse la cassetta degli unguenti mentre effettuavo le visite, chiese di avere al mio servizio un giovane di 22 anni, di buona costituzione, che già prestava servizio nell’Ospedale. Il giovane era felice di essere al mio servizio, perché ai miei aiutanti venivano garantite razioni molto abbondanti. Il giovane quindi lavorava duro, ma beveva e mangiava senza discrezione. Una sera, alle 22, lo andai a chiamare perché mi accompagnasse alle visite, ma lo trovai disteso attonito sul materasso.
Mi accostai al letto, e lui mi scansò mezzo delirante. A quel punto, gli presi il polso e capii che aveva la febbre molto alta, più di quella ordinaria che si porta dietro la peste. Lo feci portare nell’Ospedale, dove mi disse che si sentiva lo stomaco distrutto. La mattina dopo gli trovai un grosso tumore sotto l’ascella destra, che provai a medicare. Quella sera però, il giovane sembrava essersi parzialmente rimesso. Dopo poche ore, la mattina seguente, mi disse di allontanarmi da lui, perché sentiva di dover vomitare:
Comincia un vomito con tanta vehemenza, che buttava a cannoni; prima buttò più di due fogliette di bile vitellina, poi altrettanto di bile porracea, l’ultime tre inarcate di vomito fu bile atra [scura, dal latino “atra bilis”], finito il vomito finì la vita.
Il secondo caso di vomito riguarda un Fiammingo bottonaro. Pur essendo sano, era un grande bevitore; lo capii dai segni sulla faccia: era tutto postulato e rosso come un gammaro cotto (gambero cotto). Servì nell’infermeria del pianterreno per circa un mese. Un giorno però, a causa di un incidente, lo misero su un letto e, spogliandolo, gli trovarono due grossi bubboni ai lati dell’inguine. Per quattro giorni rimase con i bubboni e la febbre, poi arrivò un vomito fortissimo. Finito il vomito, fu colpito da un grande freddo, che terminò due ore dopo, assieme alla sua vita.
Quanto agli episodi di diarrea, che già Galeno aveva giudicato particolarmente perniciosa in caso di peste, ricordo il caso di due trasteverini giunti al Lazzaretto alle 22. Entrambi avevano circa 40 anni e presentavano due bubboni all’inguine e febbre alta. Dopo aver riposato e mangiato bene per due giorni, la notte del terzo ebbero scariche di diarrea che andarono avanti fino al mattino, costringendoli a fare su e giù dal letto alla “seggetta”. Per limitare gli effetti negativi di queste evacuazioni sovrabbondanti, ai due furono dati brodi e uova fresche. Arrivata al mattina, la diarrea era cessata. Per sette giorni non evacuarono più, e il loro stato fisico migliorava anche perché i bubboni sembravano sul punto di suppurare. All’improvviso però, tornò a entrambi la diarrea. Entrambi morirono evacuando a un giorno di distanza l’uno dall’altro.
La più famosa immagine di un “dottore della peste” è strettamente connessa all’epidemia del 1656. Non sappiamo quale fosse l’effettiva diffusione di queste maschere a becco d’uccello, ma l’incisione del Doktor Schnabel von Rom (il Dottor Pico di Roma), realizzata da Paul Fürst nel 1656, ha certamente contribuito alla sua diffusione nell’immaginario collettivo. Come potete vedere qui sotto, l’incisione contiene anche un poema satirico in ottosillabo scritto in latino e tedesco.
Questi brevi estratti scalfiscono solo la superficie di un mondo, quello della medicina dei secoli XV-XVII, che vide la nascita di grandi pratici e di bravi scienziati. Visto che abbiamo già trattato la Peste di Giustiniano e, con questo articolo, quella del 1656-1657, ho intenzione di indugiare ancora sull’argomento anche nei prossimi mesi.
Bibliografia: |
- G.PANELLI, Memorie degli uomini illustri, e chiari in medicina del Piceno, o sia della Marca d’Ancona (1758);
- G.BALESTRA, Gli Accidenti più gravi del mal Contagioso osservati nel Lazzaretto all’Isola (1757);
- S. DE RENZI, Napoli nell’anno 1656, ovvero documenti della pestilenza che desolò Napoli nel 1656 (1867)
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Bell’articolo come al solito ma ho una curiosità.So che non sei un medico ma come mai la stessa ondata di peste provoca sintomi così diversi tra loro?
Il batterio Yersinia Pestis causa tre forme principali di peste – bubbonica, polmonare e setticemica – ognuna delle quali porta sintomi differenti. A questo vanno aggiunte le varianti individuali del sistema immunitario, che portano a reazioni differenti.
Grazie mille
Molto interessante la descrizione dei vari sintomi neurologici.
il Balestra poteva anche narrare situazioni di guarigione avvenuta,almeno per alimentare la sua fama di bravo dottore.
In fondo un bravo dottore di pazienti morti porta anche un po’ sfiga . 🙂
Gli stralci del Balestra sono meravigliosi.
Grazie per questo articolo e tutti gli altri, sempre interessantissimi.
Grazie a te, felicissimo di sapere che, oltre a me, vi siano altre persone che conoscono Balestra!
Molto interesante mi tornerà molto utile per lo studio che sto facendo su questo argomento, usciranno altri articoli sulla peste del 1656 a Roma? Comunque non è stato specificato che le morti di sola peste a Roma furono 9500, il 7,6% della popolazione, per sottolineare maggiormente i successi della politica di contenimento applicata da Alessandro VII e il Gastaldi, soprattutto se mettiamo questi dati a confronto con l altre città colpite dove appunto si arriva anche al 60% di decessi.