Artiglieria Medievale: Bocche da Fuoco nel XV Secolo (I)

L’artiglieria medievale, specie di quella del XIV e XV secolo, è un argomento estremamente interessante e sul quale, spesso, si fa molta confusione a livello divulgativo.

Abbiamo trattato di recente dell’Artiglieria Medievale del XIV secolo. Il testo fondamentale per la stesura di quell’articolo è stato un eccellente libello di Luigi Cibrario avente ad oggetto la storia delle bocche da fuoco dal 1300 al 1700 (pubblicato nel 1854). Per l’evoluzione delle artiglierie nel XV secolo ho continuato il lavoro di “traduzione” all’italiano moderno di quest’opera. Nel XV secolo la varietà e i nomi delle artiglierie si moltiplicarono a dismisura, seguendo i capricci dei principi e le abilità dei bombardieri.

Ci furono bombarde grosse, bombarde a camera, bombardelle, bombardelle da tirare con un cavallo, colubrine, colubrine a mano, cannoni, cortaldi (o cortali o cortane), passavolanti, sagri, falconi, falconetti, aspidi, serpentine, vuglerii o terrabus, spingarde, mortai, granate e molti altri, la cui nomenclatura si può vedere nella memoria citata del signor Promis.

Le bombarde crebbero di misura. Divenute gigantesche (quella di Re Alfonso prese il nome di generala), erano in grado si spaventare con il fragore e sparavano immani palle di pietra a duemila passi di distanza. Mole e peso ne rendevano lento e difficile il trasporto. Era infatti necessario utilizzare una macchina (ne il Conto delle Artiglierie di Pier Masoeri, 1426-27, questa macchina viene chiamata falcone, utilizzata “pro onerando et exonerando bombardas et canones”).

Alcune città non avevano addirittura vie abbastanza larghe da permettere il transito di una grossa bombarda, come ad esempio la Signora Amedea, adoperata nelle guerre del Vercellese dal Duca di Savoia nel 1426.

Dal nome di questo pezzo d’artiglieria medievale, il più grande in uso all’epoca, presero il nome i maestri che erano in grado di utilizzarlo. I bombardieri però non erano solo abili a manovrare le bombarde e tutte le altre bocche da fuoco, ma anche a forgiarle (gittarle). In quel periodo non c’era una netta distinzione fra le due arti e i bombardieri ricevevano anche uno stipendio piuttosto rilevante per quel periodo, parti a venti fiorini al mese.

Fra i maestri bombardieri al servizio del Duca di Savoia nella guerra del Vercellese, godeva di grande reputazione il maestro Freilino di Chieri, che fabbricava artiglierie di grande qualità. In quella guerra, il Duca portò quattro bombardelle e un lungo cannone di bronzo di Freilino. Le bombardelle di Freilino non erano legate al ceppo con circoli di ferro come le altre (que ceptae fuerunt et non ferrate), ma utilizzavano un metodo differente.

Nel 1427 Filippo Maria Visconti sposa Maria di Savoia e, de facto, regala Vercelli ad Amedeo VIII si Savoia. La maggior parte dei vercellesi ne viene a conoscenza solo l’8 dicembre 1427, quando le truppe sabaude fanno il loro ingresso in città!

Nel 1443  Freilino era ancora al servizio dei Savoia. Dieci anni dopo però lo troviamo alle dipendenze di Francesco Sforza duca di Milano. Lo storico Giovanni Simonetta (autore de Rerum gestarum Francisci Sfortiae libri XXXI, morto nel 1491) che lo chiama Ferlino piemontese, lo considera un fabbricatore di bombarde di grande bravura e chiara fama.

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Acquisizioni dei Savoia nel XV secolo (R.Ordano, Sommario della storia di Vercelli, Vercelli 1955). http://www.roberto-crosio.net/1_3A/vercelli_savoia.htm.

Nel XV secolo si fabbricavano ancora bombarde di mezzana e di piccola dimensione. Queste ultime si chiamarono bombardelle.

Le bombardelle non erano altro che cannoncini di bronzo o di ferro, con canna di due o di tre pezzi. Ne facevano anche di un solo pezzo, sia di bronzo che di ferro, e anche di dimensioni diverse. Alcune erano calibrate per tirare palle di nove libbre, altre da sei, da cinque, quattro, tre e due libbre e mezza. Nel castello di Nizza, nell’anno 1441, erano censite tutti i tipi appena nominati.

Una bombardella di bronzo che pesava 6 rubbi, 10 libbre, necessitava di una palla da 6 libbre; Un bombardella del peso di 3 rubbi invece, tirava palle da 3 libbre; una bombardella di bronzo a due cannoni, del peso di 6 rubbi, tirava palle da 2 libbre.

Rubbio è il nome di diverse unità di misura utilizzate nei vari stati preunitari. Nello Stato Pontificio un rubbio equivaleva a circa 185 acri, ma a Roma si chiamava allo stesso modo anche una misura di capacità per i cereali, pari a circa 290 litri. Nel caso dei cannoni menzionati dal Cibrario, penso si tratti dell’unità di peso utilizzata nel parmense ed equivalente a 25 libbre.

La bombardella era artiglieria a canna corta. I cannoni di cui si componeva non superavano il palmo di lunghezza, quindi anche aggregandone due o tre la lunghezza complessiva rimaneva bassa.

Proprio perché a canna corta era utilizzata ai fianchi, specie sulle galee, come accadeva prima con la spingarda e poi con l’aspide; da quest’ultimo, la bombardella non differiva che per il nome, e forse per la forma conica dell’anima.

Anche i ribaudechini (o ribadocchini) venivano equipaggiati con bombardelle e cannoni. Si trattava di carri ferrati triangolari, armati di spuntoni e protetti da un parapetto di legno mobile chiamato mantello, utilizzati in guerra. In uno scritto conservato presso la Biblioteca reale di Parigi, riportato da Ildefonse Favé in Historie tactique des trois armes à feu (1845), un coevo descrive cosi i ribaudechini:

Erano su ruote con un uomo dentro come in un castelletto, che tutto era di ferro e tirava con cannone o balestra, e aveva su ciascun lato un arciere e ferri acuti come lance sul davanti. A forza d’uomini o di cavalli se ne spingevano molti in avanti per urtare l’ordine di battaglia del nemico.

Un grosso ribadocchino, portato dai Savoia nel castello d’Ivrea, aveva quattro cannoni e due bombardelle; di solito però non avevano più di due bocche da fuoco.

Erano una variante dei ribadocchini quei carri a tre solai, ciascuno dotato di un piccolo pezzo d’artiglieria, usati dagli Scaligeri contro il signore di Carrara nel 1387.

Venivano utilizzate anche bombardelle per tirare da cavallo (bombardelles à trayre à cheval), che dovevano essere pistole. Sono menzionate in un documento torinese del 1431, ed appartenevano ad Amedeo principe di Piemonte, morto in giovane età mentre cominciava a rendere famosi i colori che aveva adottato, il rosso e il bianco, e la divisa delle rose e delle viole.

Relativamente al primitivo uso di armi da fuoco da parte della cavalleria, vi consiglio di consultare il saggio di Marco Merlo in Teoria e Pratica Militare nel XV Secolo: L’Eques Scoppiectarius nei manoscritti di Mariano Taccola e i Primi Archibugeri a Cavallo (2013). Oltre ad essere un testo di straordinaria accuratezza, basato su una minuziosa ricerca delle fonti, è reperibile gratuitamente QUI. Un ringraziamento va anche alla SISM (Società Italiana Storia Militare) per averlo pubblicato online.

Che le bombardelle trovate fra gli arnesi di guerra del principe di Piemonte fossero vere pistole è evidente anche dal modo in cui vengono designate. Non si dice infatti “quattro bombardelle“, ma “due paia di bombardelle” (deux payres de bombardelles à trayre à cheval).

Nel codice del Santini (che scriveva intorno al 1400) si trova l’immagine, riprodotta dal Venturi, di uno schioppettiere a cavallo (eques sclopetarius), con una forcina legata alla corazza da un anello. Lo schioppettiere regge un’asta corta, il cui calcio appoggia sul petto, e la cui estremità di infila nel mascolo di una bombardella lunga come una mano.

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“Eques Schioppectarius” da un manoscritto quattrocentesco di Mariano Taccola.

Ecco quindi la fase embrionale della pistola, che in francese antico fu chiamata pètrinal, quasi poitrinal, perché si appoggiava proprio sul petto. Il passaggio dall’usarla in questa forma a infustarla fu breve. Gli artiglieri trovavano infatti nelle antiche baliste delle casse che potevano essere adattate in modo piuttosto semplice alle armi da fuoco. Bombardelle ridotte alle dimensioni di una pistola o di uno schioppo furono le bombarde manuali di rame, che tiravano palle di piombo, usate nell’Assedio di Bonifacio in Corsica nel 1420.

Nel XV secolo il termine “cannoni” si trova con grande frequenza, essendo il nome generico dato a molte bocche da fuoco differenti. Anche i veri cannoni ebbero però calibri diversi, in grado di sparare palle da meno di 12 libbre fino a 120 libbre.

All’inizio del secolo Berna, come le altre città svizzere, ancora richiedeva grosse bocche da fuoco, principalmente a Norimberga, mentre pochi anni dopo preferiva fabbricare pezzi piccoli e riforniva cannoni e bombardieri al duca di Savoia.

Sia nelle guerre del Vercellese che in imprese successive si trova spesso menzionato Hans de Tallia, bombardiere di Berna. I cannoni di Berna però erano molti e di piccolo calibro, e si caricavano a palla di piombo. Questo ci fa immaginare che il vocabolo “cannone” sia da interpretarsi nel senso generale di “tubo” (baculus nei documenti francesi) e che quindi si trattasse di un qualche tipo di archibugio. A supporto di questa tesi si aggiunge anche il fatto che il rebaudechino sopra descritto ne portava ben quattro oltre a due bombardelle.

Inoltre, fra le artiglierie del castello d’Ivrea nel 1426 troviamo cinque cannoni portati da Berna e da Brozzo, definiti ad manus, e da utilizzarsi con pallottole di piombo e non di ferro o pietra. Si potrebbe anche interpretare quell’ ad manus con “con le maniglie”, ma tutte le considerazioni già fatte ci fanno propendere per la prima interpretazione. Di conseguenza, forse è proprio questa memoria ad essere la più antica esistente in materia di armi da fuoco manesche, da unirsi a quella, citata in precedenza, delle bombardelles à tryre à cheval.

Nel linguaggio dell’epoca fra l’altro, quando si voleva distinguere un’artiglieria con le maniglie di usava il termine “cannones manucati“.

La locuzione ad manus (as meins in francese) serviva invece a distinguere le a artiglierie manesche da quelle infustate, su cavalletto o da muro.

Sempre in quel periodo, quando troviamo menzionati i “cannoni” senza altro appellativo, dobbiamo pensare si trattasse di piccole bocche da fuoco. Nel resoconto della spedizione nel Vercellese si ricorda infatti un gran cannone di bronzo (magnus canonus bronzi), poi quattro grossi cannoni o bombardelle (quatuor canones gorssi sive bombardelle). Di conseguenza, le bombardelle di un solo pezzo erano quasi identiche ai cannoni.

Si ricordano anche i 25 cannoni portati da Berna, e il cannone lungo di Freilino. Questi sono piccoli cannoni, utilizzati con palle di piombo.

Le grandi artiglierie, rimpicciolendosi fino a raggiungere le dimensioni adatte al braccio umano, diedero origine alle armi manesche, usate sia in battaglia che durante le battute di caccia.

Il pezzo più grande, la bombarda, ridimensionata a bombardella, diede di certo origine alla pistola. Le bombardelle infatti erano costituite da più cannoni. Ciascuno aveva lunghezza di un palmo, e poté quindi nascere l’idea di affustare solo uno dei cannoni (quello di minore qualità)

Dal cannone diminuito abbiamo visto essersi formato l’archibugio ossia schioppetto, che all’inizio dovevano essere la stessa cosa, poiché schioppetto e archibugio erano sinonimi.

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Bombardella manesca recentemente venduta dalla casa d’aste trentina Von Morenberg (immagine presa dal loro sito ufficiale).

Dal rimpicciolimento della colubrina è nata un’arma molto comune. Che il cannone “diminuito” abbia generato l’archibugio, possiamo riscontrarlo anche nell’inventario del Castello di Nizza del 1521. Varietà del cannone di calibro e lunghezza inferiori erano le mezzane (o moiane), i fagri, i falconi, i vuglerii (o terabus), i cortaldi, i falconetti, le serpentine, gli smerigli, ecc. Gli aspidi erano i più corti di tutti, ad eccezione dei vuglerii. In base a quanto scritto nell’inventario di cui sopra, il falcone tirava, di solito palle da sei libbre, mentre il falconetto la metà.

Mentre il vocabolo “cannone” era già utilizzato da tempo, “colubrina” possiamo ritrovarlo a partire dal primo ventennio del XV secolo. Era una specie di cannone più lungo dell’ordinario, e quindi dal tiro maggiore, la cui radice evidente è in coluber, forse perché i primi a fondere le colubrine ornavano il pezzo con una testa di serpente.

Sempre nel castello di Nizza, nel 1441, erano presenti colubrine del peso di 102 rubbi ciascuna. Alcune avevano la stessa portata dei più grossi cannoni e, essendo più lunghe, necessitavano di una maggiore quantità di metallo.

Mancano i dati del secolo XV, ma nel XVI, a Venezia:

  • un cannone da 100 rubbi era lungo 12 piedi e aveva una culatta da 1 piede e 8 once;
  • una colubrina da 100 rubbi era lunga 12 piedi e 1/2 e aveva una culatta da 1 piede e 7 1/2 once.

Una colubrina rinforzata di calibro dalle 25 libbre in giù si chiamava Passavolante. Ve ne furono però di ogni grandezza, specie nell’artiglieria francese. Anche i Pisani utilizzarono i Passavolanti, e li utilizzarono nel 1496 durante l’assedio di Ripafratta.

Anche le colubrine ordinarie assumevano le dimensioni più disparate, ed erano frequenti le mezzane o le piccole. Le grandi tiravano palle di ferro, le altre pallottole di piombo di peso compreso fra 4 once e 3/4 d’oncia.

Le colubrine di quest’ultima portata erano di certo armi manesche: nel 1431 fra gli oggetti posseduti dal Principe di Piemonte nel castello di Torino: “xxxix colourines de loton à mange de bois et ung panier plein de plombèes pour le dites colourines.”

Si trattava dunque di piccole carabine da guerra e da caccia. Nel 1440 si rifornirono i castelli di Ciamberì e Monmegliano di tre dozzine di colubrine e di 300 piccole palle di piombo (plombèes) per le medesime. Armi da fuoco comprate a dozzine, e pagate al massimo 18 grossi l’una, non potevano che essere armi manesche.

Un anno dopo nel castello di Nizza si trovavano trenta piccole colubrine, delle quali sei pesavano 12 libbre (fatte di solo metallo) e ventiquattro solo 6 libbre. Le prime, affustate, avevano quindi lo stesso peso di un odierno fucile piemontese (Cibrario scrive a metà del XIX secolo), ossia 12 1/2 libbre, le seconde erano invece molto più leggere. Nel conto, bisogna anche tenere in considerazione che la libbra di Nizza è pari a 311 gr circa, mentre quella di Torino è vicina ai 369 gr.

Nel 1461 Luigi di Savoia, che aveva acquistato il regno di Cipro grazie al matrimonio con Carlotta Lusignano, fu aggredito da Giacomo, fratello di Carlotta, che voleva riprendersi il regno con l’aiuto dei Mamelucchi d’Egitto.

Per aiutare il figlio, Ludovico di Savoia acquistò a Nizza, per 2700 fiorini, la nave S. Antonio di Padova, cui cambiò il nome in S.Maurizio. Dopo averla rifornita di armi e armati, la spedì a Cipro. Dalla rassegna, sappiamo che furono imbarcati vari balestrieri armati di colubrina. Pier Torniani aveva, ad esempio, celata, brigantina, colubrina, spada e lancia. Il nobile Giovanni di Lucinge, Giovanni Lucernan, Giovanni Cochet, Giovanni Mathei, Andrea de Liege, Cristoforo Cais e una decina d’altri erano armati allo stesso modo “cum bergantina, celada, colobrina et ense“.

Altri portavano, invece della colubrina, la balestra; ennesima prova che i colubrinieri stavano sostituendo i balestrieri. È assolutamente certo che queste piccole colubrine altro non fossero che carabine, cosa ancor più evidente (come provato dall’Omodei e dal Maffè) se consideriamo che, nel giro di dieci anni, troviamo non solo centinaia, ma migliaia di colubrine e colubrinieri (coleuvrinier) negli eserciti inglesi, turchi, svizzeri, e francesi.

Sostengo che queste colubrine (benché questa nomenclatura sia stata spesso confusa con schippi e archibugi) fossero una specie di carabine perché penso che da couleuvrine e colouvrinier siano derivati carabina e carabini. E poi carabinieri, anziché dall’arabo karab, che vuol dire “arma da fuoco”.

Di colubrine manesche, che già chiamavano schioppetti, erano armate le guardie che accompagnarono, nel 1432, l’Imperatore Sigismondo. Il fatto viene riportato da un autore coevo e riferito dal Promis, che aggiunge la descrizione fatta da Pietro Cirneo di queste armi da fuoco (nel 1420):

[…] bombarde manesche, fuse di rame; perforate a guisa di canna, dette schioppetto. Chi le porta, cacciando per forza di fuoco palla di piombo trapassa un uomo armato.

Bartolomeo Facio le chiama invece colubrine:

V’è ancora un’altra specie di cannone che volgarmente chiamano colubrina, perché piccolo e lungo, di gran lunga più pericoloso del precedente (la bombarda), perché la sua saetta esce invisibile ad occhio umano, e prima uccide, che si veda ferire. Alla sua canna ve ne hanno altre somigliantissime di minore dimensione. Si adatta questa canna a un fusto lungo tre piedi , e se valgono i soldati nelle battaglia come d’una balestra a mano. Niuna qualità d’armature può resistere, imperocchè passa un cavaliere armato, ancorchè di pesante armatura. Detestabile strumento per certo. I suoi proiettili sono di piombo, e della grossezza d’una nocciuola. V’hanno eziando di tali istromenti che d’un gitto spingono cinque e più palle.

Pio II descrive allo stesso modo lo strumento che chiama scoppietto (sclopetum), che dice erroneamente d’invenzione recente e tedesca, che dice fare uso di una palla di piombo grande come una nocciola.

Le piccole colubrine si chiamavano, alla fine del XV secolo, con il vocabolo generico “archibugi”, e più comunemente scoppi, o schioppi, o schioppetti, quelli che si utilizzavano senza senza il supporto di una forcella o di un cavalletto.

Generalmente le usavano solo i fanti. Il primo a istituire una compagnia regolare di scoppiettieri a cavallo in Italia fu Camillo Vitelli, figlio di Nicolò signore di Tiferno, ossia Città di Castello, noto nella storia militare italiana del XV secolo al pari del padre e dei fratelli.  Ma la lunghezza e il peso di questi scoppietti, che non dovevano somigliare alle colubrine nel castello di Nizza nel 1441, li rendeva difficili da maneggiare. Questa milizia cadde quindi in disuso, finché non venne ripresa in Spagna e Germania alla metà del secolo successivo; questa volta però i cavalieri vennero muniti di canne più corte e meno pesanti, chiamate, a secondo della lunghezza, della forma, del calibro o della cassa, archibugi e carabine.

continua…

8 pensieri riguardo “Artiglieria Medievale: Bocche da Fuoco nel XV Secolo (I)

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