Asburgo e Borbone di Spagna: due modi di regnare. Avrebbe potuto essere anche questo il titolo dell’articolo, poiché fronteggiarono in modo diverso le esigenze di governo dei territori europei e, soprattutto, delle lontanissime colonie americane. In questo articolo, Riccardo Mardegan prova a comparare il modus operandi delle due dinastie e il rapporto delle due dinastie con i possedimenti nel Nuovo Mondo.
Avendo ormai portato a termine il compito per il quale sono partito, ora so che sarebbe gradito a Voi essere informati su tutto ciò che ho scoperto durante il mio viaggio.
Al trentatreesimo giorno dopo essere salpato da Cadice, ho raggiunto l’Oceano Indiano, dove trovai molte grandi isole, popolate da innumerevoli abitanti, che furono occupate senza resistenza nel nome del più illustre Re, con proclamazione pubblica ed esposizione delle nostre bandiere. Alla prima di queste isole diedi il nome del Divino Salvatore, confidando che grazie alla sua protezione io fossi arrivato in questo luogo.
Il suo nome indiano, comunque, è Guana-hanyx.
Questo testo, estrapolato da un breve report inviato ai sovrani di Spagna da Colombo in persona a seguito del suo primo viaggio in America nel 1492 e intitolato Le isole dell’India oltre il Gange, non è solo uno dei più grandi abbagli presi dall’uomo nella sua storia (visto che, di fatto, non erano isole indiane quelle terre, ma un intero nuovo continente) ma segna anche l’inizio di una nuova epoca geografica, culturale e, naturalmente, politica.
La scoperta di così vasti e distanti territori, infatti, mette alla prova (primi tra tutti) i sovrani iberici che, alla stregua dei portoghesi (vedi l’articolo Esplorazioni Portoghesi 1415-1446) , cercavano unicamente una via alternativa per raggiungere i ricchi mercati di spezie orientali.
La questione dell’appropriazione di queste terre, abitate peraltro da regni e imperi plurisecolari, arriva come un fulmine a ciel sereno e spiazza completamente i metodi di gestione del territorio che erano stati in uso in Europa sino ad allora.
La spinta espansionistica degli Inca era partita dalla città-stato di Cuzco nel 1438 sotto Sapa Inca. Al culmine del sua espansione, l’Impero Inca si estendeva dal confine meridionale dell’odierno Cile fino al Perù, all’Ecuador e a parte della Colombia (verso l’interno, arrivava a comprendere la porzione nord-occidentale dell’Argentina e quella occidentale della Bolivia). Francisco Pizarro entrò in territorio inca nel 1526 e lo conquistò in una decina d’anni (prendendo come riferimento il fallito assedio di Cuzco del 1537). Il Vicereame del Perù fu istituito nel 1542, ma ebbe una sua struttura solo nel 1572 sotto il primo vicerè Francisco de Toledo, che nello stesso anno distrusse anche le ultime vestigia del neo-impero inca. (Sull’argomento, vedi anche Pizarro e Atahualpa: la Fine dell’Impero Inca) |
Il modello principale di regolazione tra monarchia ispanica (che non ha assolutamente intenzione di cedere la totale giurisdizione sulle nuove terre ai conquistadores) e avventurieri che salpano per il Nuovo Mondo (che a loro volta cercano il massimo del profitto da tale impresa) diviene ben presto quello delle Capitulaciones, accordo che prevede vari titoli onorifici al conquistador e la decima parte di tutti i profitti ottenuti dalla terra colonizzata.
È importante notare come in questa fase le capitulaciones svolgano un ruolo chiave nei rapporti tra sovrano e piccola nobiltà specialmente dopo il 1492, ovvero quando viene a mancare la valvola di sfogo che aveva caratterizzato da secoli la penisola iberica: la Reconquista.
Se precedentemente i rapporti tra piccola nobiltà guerriera e monarchia spagnola erano stati regolati e continuamente rinegoziati in funzione della lotta agli arabi stanziati a sud della penisola iberica (non a caso infatti le Capitulaciones de Santa Fe, stipulate tra Isabella di Castiglia e Cristoforo Colombo prima della sua partenza,vengono firmate proprio nell’accampamento spagnolo durante l’Assedio di Granada); ora tali tensioni interne provocano da un lato un desiderio di ricomposizione razionale dei sovrani, dall’altro una volontà di ascesa sociale degli hidalgos, i figli cadetti dell’aristocrazia iberica che possono affidarsi unicamente all’uso della spada per accrescere la loro posizione sociale.
Nel complesso dunque cos’è la scoperta dell’America per i delicati equilibri della penisola?
Per quanto sarebbe preferibile, credo non si possa dare una risposta univoca. Da un lato i sovrani si rendono conto dell’immenso potenziale di queste nuove terre e tentano quindi (con successo) di farle rientrare dentro i possedimenti effettivi della corona, in quel processo conosciuto in tutta Europa di costituzione di Stati moderni che avrebbe portato al superamento del modello feudale; dall’altro però la vastità e la distanza del territorio, uniti alle ristrette finanze disponibili in quel momento, impone prudenza al sovrani Cattolicissimi, i quali sfruttano a questo punto l’irrequietezza sociale degli hidalgos, orfani di una battaglia nella quale combattere per “ir a valer màs”.
Lungi dall’essere burattini nelle mani dei propri sovrani però, anche i futuri conquistadores sono attori attivi del loro tempo e la rivolta dei fondachi che si trova a fronteggiare Cristoforo Colombo durante il suo terzo viaggio ne è la prova lampante.
La rivolta dei fondachi è un episodio chiave che darà inizio a quella colonizzazione per gemmazione (M. Carmagnani, L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, 2003) che caratterizzerà tutto il primo periodo coloniale, quello dominato dalla dinastia Asburgo.
Nel primo accordo con la monarchia spagnola, Colombo aveva infatti ottenuto il completo monopolio di ogni attività commerciale che si sarebbe intrapresa sull’isola.
Al terzo viaggio, complici la distanza con la madrepatria, la scarsa leadership esercitata dal navigatore genovese ma, soprattutto, l’intraprendenza degli uomini al suo seguito, un ammutinamento porta alla sua incarcerazione e all’emendamento di alcune clausole delle Capitulaciones de Santa Fe che sanziona la revoca del monopolio colombino.
A questo punto inizia quella che Carmagnani ha definito, con un’immagine molto evocativa, colonizzazione per gemmazione; d’ora in avanti qualsiasi conquistador avrebbe potuto negoziare personalmente con la monarchia spagnola ottenendo i diritti sopracitati.
Le missioni dunque si moltiplicano e la corona spagnola, al prezzo della cessione della riscossione del tributo ai conquistadores, guadagna moltissimi territori in pochi decenni, come dimostra la fondazione delle principali audiencias spagnole (assimilabili a province) in suolo americano: San Domingo (1511), Messico (1527), Panama (1538), Guatemala (1543), Lima (1543), Santa Fé de Bogotá (1548), Guadalajara (1548), La Plata de los Charcas (1559) e Quito (1563) (vedi N. Watchel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola, 1977)
Ma, ora che abbiamo parlato della situazione globale, torniamo allo specifico: la dinastia regnante spagnola, i Trastamara.
Il matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona, che sarà al contempo l’atto di unificazione delle corone di Castiglia e Aragona, non dà un erede maschio, pertanto attraverso la figlia Giovanna (detta “la Pazza”) che sposerà Filippo il bello, figlio dell’imperatore asburgico Massimiliano I, il potere arriverà al figlio di questi ultimi: Carlo V.
Incoronato Rey de las Españas y de Indias nel 1516, è lui a dover gestire la questione coloniale mentre muove i suoi primi passi e va sicuramente menzionato anche all’interno della diatriba in merito alla natura degli indigeni scaturita proprio durante il suo regno (Gli Indios: Uomini o Animali?).
Carlo V (e tutti gli Asburgo dopo di lui) sceglie una politica di potere decentrato e divide i possedimenti americani in due grandi vicereami: quello di Nueva España, che sorge sul territorio del vecchio impero azteco e quello del Perù, comprendente i territori dell’impero incaico.
L’Impero azteco cadde nelle mani degli spagnoli qualche anno prima di quello incaico. L’espansionismo degli aztechi era esploso nel XV secolo e li aveva portati ad occupare buona parte dell’America Centrale, ma nel 1519 era apparso nel loro territorio uno straniero coperto d’acciaio, Hernàn Cortès, con circa 500 uomini e 13 cavalli al seguito. Nel 1521, non c’era più nessun Impero Azteco. |
Il potere da parte dei conquistadores è mantenuto attraverso un fragile equilibro tra nuovo sistema di potere europeo, incarnato dai cabildos, città fondate da coloni spagnoli e dotate di alcune autonomie, e l’antica tradizione azteca/maya e inca, basata su una gerarchia piramidale formata da capi etnici genericamente chiamati cacicchi che costituiscono l’elemento di raccordo tra l’enorme popolazione indigena e i nuovi governanti spagnoli.
Tale sistema è quello più congeniale sia per i conquistadores, che hanno in questo modo ampio spazio di manovra e il monopolio degli incarichi amministrativi e giudiziari locali, sia per gli indigeni, visto che resta quasi intatta l’intera struttura gerarchica che aveva guidato i rispettivi popoli da secoli, sia per il sovrano che, lungi da ogni idea di assolutismo, ha la necessità di appoggiarsi a dei “privati” per portare avanti l’impresa americana.
Ma le caratteristiche stesse di Carlo V sembrano riassumere le modalità da lui utilizzate per gestire il potere regio: cresciuto nelle Fiandre egli è, dopo il 1530, contemporaneamente Re di Spagna, Re di Sicilia, Re di Sardegna (come Carlo I), Imperatore del Sacro Romano Impero (come Carlo V), Re di Napoli (come Carlo IV) e Duca di Borgogna (come Carlo II).
Egli quindi, molto più che essere il re di una nazione è il re di varie nazioni alle quali riconosce differenze, storie e metodi di gestione dell’autorità differenti.
In un impero così marcatamente multiculturale, pensare di regnare attraverso leggi generali e un forte impianto centralista è semplicemente impossibile.
Il potere di Carlo sui suoi sudditi, come sarà per suo figlio Filippo II e per tutti i successivi sovrani asburgici, è fondato su un patto di mutuo appoggio: il sovrano, riconoscendo alle elitès locali un ruolo fondamentale nella gestione di così vasti e diversi territori, garantisce il completo adempimento dei suoi doveri di regnante cristiano, ottenedendo in cambio la collaborazione e la fedeltà da parte dei notabili.
Incoronato a deo per populum, il sovrano asburgico esercita la sua attività legislativa e fiscale negoziandola continuamente con le elitès locali che, essendo partecipi delle decisione regie, saranno inclini a rispettarle ma, soprattutto, a farle rispettare.
In un mondo sprovvisto di efficaci mezzi di trasporto e comunicazione, il patto tra sovrano e notabili locali è l’unica strada percorribile per garantire l’autorità del re.
Se possiamo dire che questo sistema resta in piedi per tutti i successivi sovrani asburgici (con un innegabile successo pratico, vista la quasi totale assenza di rivolte coloniali fino a quella di Tupac Amaru II che, per l’appunto, avviene in pieno periodo borbonico), non si può non notare una marcata inversione di tendenza con l’avvento della nuova dinastia sul trono spagnolo nel 1713.
Dopo la dipartita dell’ultimo sovrano asburgico Carlo II (morto nel 1700) e la guerra di successione che sconvolgerà l’Europa dal 1700 al 1713-14, si instaura in Spagna la dinastia dei Borbone che porta in dote al paese un’idea e un’ esperienza del potere totalmente agli antipodi da quanto era stato attuato in passato.
Il punto focale in questo periodo (perché anche la narrazione storica ha bisogno di alcuni capisaldi) sono le leggi emanate da Carlo III a partire dagli anni ’70 del XVIII sec.
Tra le principali:
- Riforme contro i privilegi della Chiesa (tra le quali l’espulsione della Compagnia di Gesù da ogni parte dell’impero.
- Riforma dell’esercito, che d’ora in avanti sarà composto attraverso coscrizione obbligatoria e non più da manipoli di professionisti armati dall’alta aristocrazia.
- Riforme contro i privilegi politici dell’aristocrazia, attraverso la creazione delle secreterias che vanno a scalzare i vecchi consigli nobiliari.
- Creazione di intendentes, una sorta di prefetti imperiali stipendiati dal sovrano con funzione di controllo nelle aree periferiche dell’impero (specialmente in area americana).
- Riforme economiche di stampo fisiocratico e liberista.
Le riforme, prese nella loro totalità, rientrano chiaramente nella cornice assolutistica che i Borbone di Francia avevano iniziato a curare sin da Luigi XIV, tutt’ora celebre per la frase “L’état, c’est moi”, lo Stato, sono io.
Le riforme borboniche sono dunque volte a rendere la Spagna un paese moderno (bisogna ricordare che nell’Europa del XVIII sec. la modernità coincideva con l’assolutismo), burocraticamente solido e unificato sotto un’unica legge generale, quella del sovrano che siede sul trono di Madrid.
Il piano, di per sé encomiabile, intopperà non poche volte: i creoli di Spagna, che fino ad ora avevano goduto di ampia autonomia e avevano goduto della connivenza del sovrano nella gestione del potere, si vedono improvvisamente estromessi e sono sul piede di guerra (non a caso l’indipendenza arriverà qualche decennio dopo); lo scoppio della rivoluzione nella vicina Francia nel 1789 e le successive imprese napoleoniche, che interesseranno direttamente la penisola iberica nel 1807-1808, non fanno che aggravare il precario assetto assolutista, mentre l’abdicazione di Bayona e la scomposizione del potere nelle giunte dà definitivamente il colpo di grazia all’esperimento spagnolo e, più in generale, all’intero impero coloniale.
Si può dunque dire che l’intera operazione promossa in prima battuta da Carlo III fallì per motivi unicamente estrinseci?
Credo di no, e anzi ritengo che il piano di riforme naufragò soprattutto per motivi intrinseci: semplicemente la Spagna era in una fase troppo arretrata della sua storia per potere compiere un passo così gravido di conseguenze senza strappi dolorosi. E quando dico che “la Spagna” non era pronta, mi riferisco ad ogni aspetto del paese: uomini politici, economia e, non ultima, mentalità.
L’idea economica fisiocratica, che andava di moda presso i circoli economici spagnoli dell’ultimo quarto del XVIII sec., si fondava sulla forte convinzione che il settore da incentivare e potenziare fosse fondamentalmente quello agricolo; tale teoria, che alle porte della rivoluzione industriale era ormai stata abbandonata dalle principali potenze europee creò una paradossale situazione secondo cui non vi era uno spazio metropolitano con un’incipiente industrializzazione che sfruttasse le colonie per le materie prima ma “a colonial economy dependent upon an underdeveloped metropolis.” (J. Lynch, The Cambridge History of Latin America Vol. 3, 2008)
Ma se la teoria economica adottata era, ormai possiamo dirlo, totalmente errata per il periodo storico, anche gli uomini politici non erano di meno.
Citiamo l’esperimento di Cadice.
Dopo le abdicazioni di Bayona (1808), gli spagnoli che resistono all’occupazione napoleonica e al nuovo sovrano Giuseppe Bonaparte, si organizzano in un “Junta general extraordinaria” che avrebbe dovuto mantenere intatto il potere fino al ritorno di Ferdinando VII (che sarà soprannominato in questo periodo “el deseado“, il desiderato).
Di fatto però, la litigiosità interna alla Junta e le tensioni proveninti dagli altalenanti scontri con le forze di occupazione napoleoniche portano a una scomposizione estrema del potere con un proliferare di Juntas regionali in Spagna, America e Filippine.
Inutile dire che il potere non verrà mai più ricompattato nella sua interezza visto che al ritorno de “el deseado” nel 1814, le Juntas di Rio de la Plata (Argentina) e di Caracas avevano già intrapreso la strada insurrezionalista per l’indipendenza.
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Chissà se Colombo non avesse scoperto l’America proprio al termine della reconquista cosa sarebbe successo: gli spagnoli avrebbero continuato ad espandersi nel nordafrica?
Perché no, l’ipotesi è plausibile, visto soprattutto il precedente della conquista e colonizzazione delle isole Canarie. Ma ahimè la distoria è un esercizio troppo sregolato per poter dare risposte soddisfacenti.
Molto interessante, mi ricordo una frase celebre della colonizzazione “conquistar es poblar” e di come la Spagna avesse anche problemi di tipo demografico, le altre nazioni erano piene di gente la Spagna no.
Mi chiedo come mai i circoli di potere spagnoli sbagliarono così tanto nelle scelte economiche rispetto a quelli europei, di norma le elite si allineavano abbastanza sulle idee economiche, in linea di massima.
Intanto grazie Nicholas, la domanda è molto interessante e, a dire il vero, richiederebbe non un articolo ma diversi libri per essere avvicinata seriamente.
Posso però provare a suggerire alcuni spunti: il primo che mi viene in mente, quello di memoria weberiana è che tra i fattori culturali che abbiano sfavorito un’innovazione nella teoria economica vi sia il cattolicesimo. E’ forse solamente un caso che le nazioni internazionalmente rilevanti durante l’età del protocapitalismo (XVI-XVII sec.), e mi riferisco a Inghilterra e Olanda nello specifico, fossero protestanti?
Il secondo, che lega i fattori culturali a cause economiche (quindi è diametralmente opposta alla prima) tende a sottolineare come la presenza di ampi giacimenti di materiali preziosi nelle Americhe (almeno all’inizio) abbia portato a considerare questi nuovi possedimenti come una fonte inesauribile di risorse convertibili al fine di intraprendere una politica di potenza. Stiamo parlando anche in questo caso, di fatto, di una spiegazione culturale: l’eccessivo self confidence, unito alla totale assenza di teoria economica (l’inflazione fu “riscoperta” solo allora dopo essersi verificata l’ultima volta durante il tardo impero romano) portò a un non impiego delle suddette risorse di tipo “imprenditoriale”, cosa che invece fecero inglesi e olandesi.
Il risultato? Un’età dove i grandi imperi ispanici sembravano prossimi alla dominazione globale, succeduta però da un rapido declino dei suddetti che (proprio in virtù dei successi ottenuti nei secoli precedenti) non avevano modificato né modernizzato le proprie strutture istituzionali, economiche e sociali.
Grazie per la spiegazione.
Avevo letto anche io qualcosa su come la religione avesse in qualche modo bloccato lo sviluppo capitalistico (tesi che si ritrova anche per quanto riguarda i paesi musulmani dove l’islam è fortemente anticapitalistico) ma mi erano sembrate motivazioni un po’ deboli (però parlo da economista e non da storico)
Mentre riguardo ai giacimenti aurei mi trovo molto d’accordo, ci fu anche una bolla di inflazione con l’arrivo in madrepatria e in Europa di un sacco di oro.
Quindi la colpa degli spagnoli è non essere riusciti a capitalizzare il loro successo.
Bhe sono in buona compagnia (tipo gli olandesi) 🙂
Esattamente, anche se credo sia difficile parlare di “colpa”. Dobbiamo sempre contestualizzare le decisioni prese dagli uomini del passato: mettiti tu nei panni del re del più grande impero mai visto nella storia moderna, con un costante (e forse inesauribile) flusso di oro proveniente da occidente, sprovvisto di qualsiasi nozione di teoria economica, come comunque tutti gli altri sovrani del periodo; difficile resistere alla tentazione di procedere vero l’egemonia europea manu militari.
Il fattore religioso è un fattore che abbiamo recepito acriticamente dalla storiografia anglosassone. La storiografia marxista, dominante nel dopoguerra in Italia lo ha assimilato da quella anglosassone per ovvi motivi.
Bisogna ricordare che il protocapitalismo è nato in Italia nel tardo medioevo e nel rinascimento, nel cuore stesso del cattolicesimo e non in Inghilterra o in Olanda. Io tenderei a riconsiderare almeno in parte il fattore religioso in cui viene coinvolta negativamente anche la Spagna attraverso la costruzione della “lejenda negra”.
Invece bisognerebbe approfondire gli stretti legami tra la finanza e le conoscenze tecniche degli italiani e l’enorme spinta espansionista delle monarchie iberiche, che in brevissimo tempo permisero la scoperta di immensi territori e crearono immense fortune. Nella penisola iberica vi erano grandi colonie di banchieri e commercianti italiani che finanziarono le spedizioni in Asia come nelle Americhe. L’Italia ha giocato un ruolo importantissimo nella creazione dell’impero spagnolo.
Argomento molto interessante, mi permetto di evidenziare alcuni punti:
1.
E’ vero ma non dimentichiamo che l’amministrazione imperiale asburgica cominciò a sfilacciarsi già all’epoca di Filippo IV, vale a dire almeno mezzo secolo prima l’ascesa dei Borboni. La vendita di cariche pubbliche (per accaparrare più denaro e oliare così la macchina militare) che iniziò in quel periodo, di fatto permise sia il dilagare della corruzione che la formazione di oligarchie creole alquanto tenaci (per usare un eufemismo).
2.
Ora, senza nulla togliere alla volontà assolutistica dei Borboni e in particolare di Carlo III, sarebbe opportuno specificare che quel programma di riforme non sarebbe MAI esistito senza il disastro del 1762 nella Guerra dei Sette anni.
L’ occupazione dei due principali centri strategici dell’impero coloniale spagnolo, quali erano l’Avana e Manila, da parte degli inglesi fu uno shock gigantesco per la corte di Madrid. Per la prima volta dal 1492 fu drammaticamente chiaro a tutti come le fossero colonie vulnerabili e le strutture imperiali inadeguate per i tempi correnti.
3.
Torniamo alle riforme.
Una trattazione efficace delle riforme di Carlo III richiederebbe non meno di qualche centinaio di pagine, per cui non mi meraviglio che l’autore si sia limitato a citarle. Ma c’ è un punto che non mi torna:
Riforme fisiocratiche? Carlo III? Non mi risulta affatto quindi le sarei grato di chiarire meglio il punto. 🙂
Da quanto ho letto (testi di John H. Elliott, James Mahoney, Timothy R. Walton), Carlo III viene ricordato per aver creato un strano ibrido tra il tipico mercantilismo iberico (fatto di monopoli e iper-regolamentato) e politiche liberiste.
Due esempi.
-L’abbattimento del monopolio di Cadice e l’ordinanza del Comercio libre del 1778 triplicò il commercio coloniale nei 10 anni successivi,
-I pesanti investimenti che Madrid fece nel settore minerario della Nuova Spagna provocarono nientemeno che il 2° boom dell’argento (con un incremento di produzione stimato dal 10 al 30%), con grande gioia delle finanze reali.
4.
Sì.
Le considerazioni da fare sono di due ordini:
-Da un lato non bisogna sottovalutare il peso che ha avuto lo stato di guerra costante per tutti il periodo tra il 1789-1812. 25 anni di conflitti quasi incessanti e i 6 drammatici anni di anarchia, vissuti tra il 1808 e il 1814, sono stati decisivi per far naufragare le riforme e l’impero.
Il drenaggio di risorse che l’apparato militare spagnolo risucchiava non era un peso irrilevante per le colonie. Tutt’altro. E basta osservare proprio la famosa rivolta di Tupac Amaru. Non si scatenò forse in reazione all’ennesimo aumento dei tributi e in particolare per l’odioso reparto.? E perché mai la Spagna esigeva più denaro? Non era forse coinvolta proprio in quegli anni nell’ennesimo scontro con la Gran Bretagna? Figuriamoci quindi il malcontento scatenatosi nel periodo napoleonico!
-La seconda considerazione che scagiona il programma riformatore di Carlo III sta nella nascita degli USA. Paradossalmente nelle Americhe, subito dopo la Guerra dei 7 anni, entrambi gli imperi (spagnolo e inglese) attuarono delle riforme volte all’interventismo statale. Solo che in un caso, la potenza coloniale viene sconfitta e cacciata dal continente nel giro di neanche 20 anni, nell’altro invece bisognerà aspettare un altro mezzo secolo.
Il fatto che e rivolte di Tupac Amaru e dei creoli furono sedate senza neanche troppi problemi è la testimonianza che l’impero spagnolo era sì in affanno ma comunque più saldo e unito di quanto non fosse la controparte inglese.
Ergo. Senza fattori esterni a perturbare il clima tra colonie e madrapatria, l’impero sarebbe durato molto di più e chissà…ma con i se e con i ma, la storia non si fa.
5.
Quello che dici è giustissimo a proposito di Cadice ma parziale, perché la Junta -con tutti i limiti da te descritti- ottenne comunque un risultato straordinario: la convocazione delle Cortes e la stesura della Costituzione del 1812.
Quella Costituzione era epocale per due ragioni:
1. Perché venne realizzata pacificamente tra le parti dell’impero.
2. Perché grazie ad essa la Spagna e i suoi possedimenti si trasformavano di fatto in uno stato-nazione davvero moderno basato su un suffragio molto più ampio del mondo anglo-americano dell’epoca (considerando che non richiedeva né requisiti di proprietà né di alfabetizzazione): nelle elezioni del 1813, (tenute in tutto il continente americano tra mille difficoltà) il 93% della popolazione adulta maschile di Città del Messico era iscritta nelle liste elettorali.
Giusto per chiarire, per avere un risultato simile dovremo aspettare l’avvento del XX° secolo….
Ovviamente non è tutto oro quel che luccica. C’era una VALANGA di problemi da risolvere e i creoli non erano granché soddisfatti dei risultati di Cadice ma certamente era un inizio e un esperimento coraggioso.
Un saluto.
Ciao, prima di tutto ti ringrazio per il tempo impiegato a scrivere una così dettagliata e approfondita antitesi al mio articolo, il fatto che il mio articoli susciti un così vivace dibattito mi rende contento visto che, siamo tutti d’accordo, il confronto è l’anima di ogni disciplina che aspiri ad essere scientifica.
Premesso ciò provo a rispondere alle obiezioni punto punto:
1.
Se ho capito bene tu consideri la venalità delle cariche (che giustamente hai fatto rientrare come tendenza di età asburgica) come un fattore di disgregazione dell’apparato burocratico e amministrativo. Tutto al contrario, secondo me erano un importante fattore di stabilità, in quanto permettevano la formazione di quelle oligarchie creole che garantivano il patto tra colonie e sovrano.
La cessazione della venalità delle cariche, giustissima per noi contemporanei, attuata dai Borbone sarà anche un atto di forte ostilità nei confronti delle elites creole (o avvertito come tale) e pertanto porterà a un indebolimento dell’autorità regia.
2.
Niente da eccepire su questo punto, forse sarei un po’ più morbido e non metterei il MAI in caps, visto che riforme simili sono state intraprese in Portogallo dal marchese di Pombal, senza che il paese fosse “sconvolto” nella guerra dei Sette anni come invece ne fu la Spagna.
3.
Sempre nel poco spazio concesso agli articoli sul web cerco di rispondere alle tue osservazioni, invero correttisime, in merito alla politica economica borbonica.
La teoria economica spagnola dell’epoca è davvero molto complessa e anomala e quasi mi sento di sposare questa definizione di “ibrido tra politica mercantilistica e liberismo”.
Io ho adottato invece “riforme economiche di stampo fisiocratico e liberista” rifacendomi principalmente al lavoro di M. Rodríguez, El experimento de Cadiz en Centroamérica, 1808-1826, 1984, nel quale, citando il famoso elogio dell’avvocato Gaspar Melchor de Jovellanos verso Carlo III ne elenca le riforme, mettendo in primo piano quelle agricole, cito dal testo:
“Puesto que España y sus colonias eran productoras de materias primas, los planificadores de los Borbones fijaron su atención en la agricultura. Jovellanos había mencionado por primera vez las reformas agrícolas en su elogio del rey. Esto no era una coincidencia; creía firmamente que éstas debían tener prioridad en la economía española, convicción que compartía con la mayoría de los miembros de la Sociedad Económica de Madrid. […] Y sin embargo, se lamentaba Jovellanos, los Estados modernos parecen haber perdido de vista la importancia de la agricultura. Desarrolando políticas de engradecimiento nacional, han favorecido las “artes mercantiles” (comercio, industria, navegación) a expensas de la agricultura.”
TRAD. “Posto che la Spagna e le sue colonie erano produttrici di materie prime, i pianificatori dei Borbone fissarono la propria attenzione sull’agricoltura. Jovellanos scelse di citare per prime le riforme agrarie nel suo elogio al re. Questo fatto non era una coincidenza, egli credeva fermamente che esse dovessero avere la priorità nell’economia spagnola, convinzione condivisa dalla maggior parte dei membri della Società Economica di Madrid. […] E tuttavia, si lamentava Jovellanos, gli Stati moderni sembrano aver perso di vista l’importanza dell’agricoltura. Sviluppando politiche di potenza nazionale, hanno favorito le “arti mercantili” (commercio, industria e navigazione) a spese dell’agricoltura.”
Credo di aver giustificato abbastanza perché mi sono permesso di utilizzare il termine fisiocratico anche solo con questo breve estratto; ad ogni modo non è della sostanza che stiamo dibattendo ma della nomenclatura, visto che le osservazioni da te fatte sono assolutamente corrette.
4.
L’occupazione militare fu una causa principale, è vero, ma anche il Portogallo la subì eppure non perse l’impero. La scelta di Bayonna (che è la più intrinseca a cui possa pensare) invece influenzò davvero pesantemente il corso degli eventi. L’aumento della tassazione, come sostieni anche tu, non credo possa essere annoverata come causa diretta del naufragio delle riforme, o meglio, in parte vi contribuì, ma tenderei piuttosto a far vedere come la limitata estensione delle rivolte antifiscali sia invece una prova della ancora solida fedeltà alla corona (quest argomentazione, che ho fatto mia, fu un’argomentazione forte dei centroamericani all’assemblea di Cadice). In effetti non so nemmeno io decidermi se siano stati più preponderanti le cause esterne o interne, ma al fine della narrazione storiografica non è nemmeno così importante.
5.
Tutto quello detto su Cadice, compresi i suoi limiti è infatti davvero straordinario. Ma la citazione di questo evento nel mio articolo è dovuta unicamente all’aspetto disgregatore che essa ebbe nell’impero spagnolo. Senza nulla togliere all’evento epocale che rappresentò la stesura della Costituzione del 1812, ci sentiamo di dire che non ebbe effetti concretamente disgregatori per l’impero spagnolo? Io credo di no, e per questo l’ho inserita en passant come ulteriore ostacolo al processo di centralizzazione.
Eccomi qui, scusa per il ritardo.
1.
Questa è una prospettiva molto interessante.
Quindi nell’America ispanica possiamo dire che lo Stato misto assunse una forma del tutto particolare: non era fondato sulla relazione tra Re e corpi rappresentativi (Cortes, Diete, Camera dei Comuni etc) ma sulla relazione tra Re e funzionari pubblici creoli. Ovvero non una rappresentanza di tipo camerale ma una di tipo burocratico-amministrativa, il cui fondamento era la venalità delle cariche.
Dico bene?
2.
Eh eh eh diciamo allora che dotò la Spagna della necessaria volontà politica.
Amo citare questo passaggio da America Hispanica (pag 324):
“I ministri stanno lavorando fino all’abbruttimento. Stanno facendo in una settimana più di quanto in precedenza abbiano fatto in 6 mesi”
Che rende perfettamente idea del clima di emergenza che si viveva a Madrid! 😀
3.
Non potevo chiedere di meglio. Ero solo curioso di sapere da dove fosse uscito fuori quel termine. Ti ringrazio per la citazione
4.
Per quanto riguarda il Portogallo ci sono due differenze sostanziali:
a.Manca lo stato di guerra quasi costante a cui invece fu sottoposta la Spagna nel medesimo periodo
b.Manca l’acefalia che caratterizzò la Spagna durante l’occupazione napoleonica. Il “trasferimento” (per non dire fuga) di Giovanni VI e della sua corte a Rio de Janeiro ebbe paradossalmente un effetto rivitalizzante per le colonie.
Sono d’accordo con te.
La vacatio regis e la vacatio legis che seguirono all’abdicazione dei Borboni (che evento per l’Europa delle monarchie!) furono devastanti per la società spagnola ma non sarei così sicuro a definirlo come fattore intrinseco. Siamo proprio sicuri che se dall’equazione togliessimo le ingerenze di Napoleone di Giuseppe, il risultato sarebbe stato lo stesso? Io non credo. L’interferenza esterna fu decisiva per arrivare a quella situazione.
Probabilmente la verità è nel mezzo, come sempre.
5.
Il problema della Costituzione del 1812 è legato al ritorno di Ferdinando VII sul trono.
I creoli speravano che il ritorno del Re fosse il preludio per accogliere le loro richieste. E invece Ferdinando non solo respinge di nuovo tutte le istanze autonomiste ma addirittura cancella con un colpo di spugna tutto il lavoro compiuto a Cadice.
Per i creoli fu davvero l’ultima goccia: non solo venivano di nuovo ignorati ma perfino quell’accordo al ribasso che era stata la Costituzione del 1812 veniva stralciata. Le sollevazioni furono inevitabili e Ferdinando VI, a questo punto, compie il suo ultimo mortale errore: anziché negoziare o provare a ricomporre la frattura, nel 1815, spedisce un corpo di spedizione per schiacciare i rivoltosi.
Il fantasma di Giorgio III è ancora lì a ridere.
In sostanza vedo il ritorno di Ferdinando VI, con le speranze tradite e la cancellazione della costituzione del 1812, come il detonatore per le guerre d’indipendenza. L’atto finale di un luuuungo percorso storico.
1.
Assolutamente si, c’è da ricordare che, nonostante retoricamente le colonie siano sempre state definite come “regni della corona” essi, a differenza di quelli iberici non ebbero mai cortes né consigli ma furono gestiti direttamente attraverso le audiencias.
Insomma “no taxation without representation” non fu una peculiarità britannica.
Inoltre la cosa che assicurava la fedeltà di terre distantissime dalla madrepatria era proprio la garanzia da parte della corona alle elites locali (tramite la venalità delle cariche) di un’influenza e un potere di tutto rispetto sulle loro terre.
4.
E’ proprio qui il punto: due paesi con due storie così simili (l’occupazione napoleonica) prendono due strade così diverse: la corte portoghese fugge potenziando le proprie colonie, quella spagnola abdica decapitando con un atto l’intero sistema di potere imperiale.
5.
Sono d’accordissimo, ma la questione resta: così come è stata attuata, la svolta di Cadice fu una svolta centrifuga e disgregatrice (al di là delle migliori intenzioni dei suoi protagonisti).
La teoria fisiocratica non era così antiquata nel 700. Dipendeva molto dal contesto e dal modo in cui veniva applicata. Per esempio presso Maria Teresa d’Austria (quest’anno è il 300esimo anniversario della sua nascita) questa teoria portò a fare investimenti in politiche sociali, come la lotta alle malattie con la costruzione di fognature e presidi ospedalieri, l’inizio di una scolarizzazione elementare e tanto altro,tra cui la ri-fondazione di Trieste, che venne praticamente disegnata da zero in modo moderno e razionale.Tutto questo fu possibile grazie al fatto che la fisiocrazia era intesa in modo più ampio rispetto al solo primato dell’agricoltura, cioè era l’uomo, in quanto vero produttore di ricchezza, a dover essere sostenuto nei suoi bisogni primari.