Le Ferite procurate dalle Armi da Fuoco (FAF) hanno rappresentato (e rappresentano) una delle sfide più importanti per il chirurgo tardo-medievale, rinascimentale e dell’era moderna
Pur avendo una buona preparazione esperienziale, i chirurghi medievali non avevano superato il livello raggiunto da quelli romani e, con le dovute differenze geografiche e temporali, si erano attestati generalmente sotto quella soglia.
Quando si trovarono a fare i conti con le FAF, i chirurghi al seguito delle armate furono costretti a elaborare nuovi metodi di estrazione dei corpi estranei e di cura delle ferite, che erano del tutto diverse da quelle dei secoli precedenti. Prima dell’avvento delle armi da fuoco infatti, a parte le difficoltà dovute ad amputazioni (vedi anche Amputazioni e Protesi dall’Antichità all’Evo Moderno) fratture scomposte, gli interventi più delicati riguardavano l’estrazione di frecce e dardi dotati di barbigli.
Come da tradizione, ho cercato di riportare in italiano moderno un volumetto del 1800, intitolato Saggio su le ferite prodotte dalle armi da fuoco nuovamente compilato, ed accresciuto di note interessanti a vantaggio de’ tempi presenti. Nel caso risultasse particolarmente interessante per i frequentatori del sito, potrei anche pensare di dedicargli una serie e “tradurre”, con le opportune integrazioni e modifiche, le 93 pagine che lo compongono.
La cosa più interessante, ai fini storiografici, di questa introduzione, è la disamina dell’autore sulle opere ad argomento FAF pubblicate dal XV a tutto il XVIII secolo. Questa ci permette di comprendere la lenta evoluzione, fra terribili (e dolorosissimi) errori e piccoli passi avanti, di una scienza nuova e fondamentale per salvare più vite possibile sul campo di battaglia.
L’arte della guerra presso gli antichi era senza dubbio più fatale che rispetto al giorno d’oggi, ferri acuti e taglienti erano le loro armi ordinarie. Le frecce e i dardi restavano comunemente all’interno della parte colpita. Questo dava luogo a gravi conseguenze, poiché era difficile estrarli a causa degli uncini di cui erano fornite, che avevano però acuito il genio degli antichi chirurghi.
La storia dei primi secoli dell’arte medica ci offre testimonianze di queste frecce, dardi , e degli innumerevoli elaborati per procedere alle estrazioni.
La scoperta delle polvere da sparo e delle armi da fuoco, nel quattordicesimo secolo, fece sparire dalle battaglie i dardi e le lance, e noi intanto avemmo un nuovo genere di ferite da studiare, e nuovi strumenti da costruire per estrarre le palle di piombo dalle ferite.
I primi Maestri avanzarono a passi incerti in questa ricerca. Le enormi problematiche che accompagnavano queste ferite fecero immaginare che le palle di cannone, i frammenti delle bombe, delle granate, e le palle di altre armi fossero avvelenate sia per loro stessa natura che a causa della polvere la quale imprimeva loro il moto (polvere da sparo ovviamente).
Fin dall’inizio fu considerato il peggiore dei mali la presenza di una palla in una parte ferita o l’impossibilità di trovarla, e infatti subito ferri d’ogni specie furono portati al fondo delle piaghe, per ivi cercare i corpi estranei che il più delle volte non vi si trovavano. Si confondevano quindi i problemi cagionati da queste rischiose operazioni con quelli che provenivano dalla lesione originale delle parti e dalla presenza delle palle. E l’ errore si perpetuò. Anzi, ebbe ancora maggiore credito a causa del cattivo metodo delle dilatazioni, discostando cioè le pareti delle piaghe, e non dividendo, o tagliando le parti troppo tese, o disposte a divenirle.
L’idea di un veleno particolare a queste piaghe tenne lungo tempo nascosta a chirurghi la vera causa degli insuccessi che accompagnavano la loro pratica. Convinti che il veleno fosse la causa immediata del problema, la loro preoccupazione principale fu quella di asportare tutto ciò che potesse averlo portato nelle piaghe. Immaginarono numerosissimi strumenti a pinzetta o uncino immaginarono una folla di strumenti a pinzette, o ad uncini , abbastanza lunghi e sottili da scavare un canale profondo e stretto, come lo deve essere una ferita da arma da fuoco.
In seguito, i chirurghi credettero di poter eliminare le tracce di veleno, e calmare la sensibilità delle parti attraverso la cauterizzazione.
Giovanni da Vigo, primo chirurgo di Papa Giulio II, che scrisse la Practica in arte chirurgica copiosa (1514) relativamente poco dopo la scoperta della polvere per l’archibugio, raccomandava questo metodo perché, a suo dire, non ne conosceva uno migliore. De Vigo utilizzava il cauterio su tutte le parti della ferita oppure vi versava dell’olio di sambuco bollente. Successivamente, per ammorbidire le escare [croste] le riempiva di burro fuso per mezzo di una siringa. Sosteneva anche che, per estrarre i corpi estranei con maggiore facilità, fosse buona pratica allargare la ferita con un rasoio.
Ovviamente, l’uso di oli bollenti e cauteri sulle ferite, a volte anche su quelle non particolarmente gravi, comportava enormi problemi. Necrosi di tessuti sani e infezioni, per non parlare delle immani (e inutili) sofferenze inflitte al paziente, ne rappresentavano solo una parte. Ancora peggiore era, se possibile, il minuzioso lavoro di incisione e allargamento della ferita, in modo da avere lo spazio necessario per estrarre anche i più infinitesimali corpuscoli lasciati dalla palla. Specie in alcuni casi, come quello di residui vicini all’arteria brachiale o femorale, c’era il serio rischio di provocare un’emorragia o incidere porzioni troppo ampie di tessuto muscolare. |
Tutti gli Scrittori che seguirono gli insegnamenti di Da Vigo mantennero le sue stesse prescrizioni, ma consigliavano di impiegare l’incisione solo di rado, in particolar modo solo quando non si era potuto allargare abbastanza la ferita con il dilatatore. In quel periodo si andava avanti per tentativi, e solo dopo la guarigione del paziente si riusciva a capire se un metodo funzionasse o meno. Tutti i procedimenti, i quali non avevano per base una solida teoria, potevano essere più pericolosi dei mali stessi per i quali venivano impiegati.
Fu verso la metà del sedicesimo secolo che arrivarono i primi veri progressi nella chirurgia delle FAF. Ambroise Parè, padre della legatura dei vasi moderna, fu il primo ad abbandonare la cauterizzazione, anche se mantenne l’uso degli strumenti dilatatori. Parè fu anche il primo a pubblicare, in Francia, un volume dedicato proprio a questo argomento, l’undicesimo di “La maniere de traicter les playes faictes tant par hacquebutes, que par flèches, & les accidentz d’icelles, come fractures & caries des os, gangrene & mortification, avec les pourtraictz des instrumentz nécessaires pour leur curation” (1552). Quest’opera fu elaborata grazie alle osservazioni e agli appunti presi quando era al seguito dell’esercito francese (a partire dal 1527) e fu per lungo tempo l’unica guida a disposizione dei chirurghi che avevano a che fare con questo tipo di ferite.
Bartolomeo Maggi e Alfonso Ferri fecero per l’Italia quello che Parè aveva fatto per Francia. Il Maggi fu chirurgo dell’esercito pontificio e, assieme al collega Francesco Rota, curò i feriti durante l’Assedio della Mirandola. Il Ferri invece servì ben tre papi (Paolo III, Paolo IV e Giulio III) e insegnò sia a Roma che a Napoli. Entrambi pubblicarono, quasi nello stesso tempo, dei trattati sulle ferite da arma da fuoco, che diedero loro ottima reputazione e li fecero considerare grandi chirurghi nel resto d’Europa.
Il Ferri fu anche il creatore di uno strumento chirurgico che poi prese il suo nome, l’alphonsinium , utilizzato per estrarre corpi estranei dalle ferite.
In seguito arrivarono le opere del già citato Francesco Rota e di Leonardo Botallo, che a volte confutarono gli scritti di Ferri e Maggi, pur essendo d’accordo con loro nella maggior parte dei casi. Di particolare interesse è l’opera del Botallo, De curandis vulneribus sclopettorum (1560). Laureato a Pavia e allievo anche del Falloppio a Padova, divenne uno dei migliori chirurghi militari al seguito delle truppe francesi e poi medico di importanti nobili e governanti europei, da Caterina de’Medici a Elisabetta d’Austria.
Poco dopo Lorenzo Joubert, celebre cancelliere dell’Università di Montpellier, pubblicò un importante trattato sulle FAF (da archibugio) in cui unì le conoscenze acquistate da suoi predecessori alle sue proprie osservazioni (Traitté des Arcbusades, 1574). Egli riporta una casistica completa; non nasconde di aver tratto parecchio materiale dall’opera di Parè, ma non si limita a seguirla alla cieca. Questo trattato ebbe in seguito altre due edizioni e rimane una delle opere più complete sulle ferite causate da armi da fuoco.
Fra l’altro, è di poco antecedente a un’altra opera, molto più famosa, del Joubert, Erreurs Populaires (1578), relativa ai più comuni errori commessi dai giovani medici. Quest’ultima fu tradotta in italiano nel 1592 con un titolo leggermente differente, ossia: “La prima parte de gli errori popolari dell’eccellentiss. sign. Lorenzo Gioberti filosofo, et medico, lettore nello studio di Mompellieri. Nella quale si contiene l’eccellenza della medicina, e de’ medici, della concettione, e generatione; della grauidezza, del parto, e delle donne di parto; e del latte, e del nutrire i bambini.” (!!!)
Fra la fine del XVI e il XVIII secolo la qualità opere relative all’argomento subì una battuta d’arresto (forse anche per la buona qualità di quelle già presenti), ma nel 1741 arrivò il Traité ou réflexions tirées de la pratique sur les playes d’armes à feu, di Henri François Le Dran. Non che in questo lungo intervallo di tempo non si fosse prodotta alcuna opera, al contrario, andarono in stampa quelle di Francesco Plazzoni (De vulneribus sclopetorum tractatus : in quo eorum natura, et perfecta curatio, chirurgica methodo explicantur, & symptomata, quae haec vulnera comitantur, accurate corriguntur, 1622), di David de Planis Campy (Traicte’ des playes faites par les mousquetades : ensemble la vraye methode de les guerir : auec la refutation des erreurs, 1623) e di molti altri.
Questi scrittori però non fecero che ripetere quello che era stato detto prima di loro , e alcuni di essi aggiunsero degli errori a quelli degli autori da cui traevano le informazioni.
Dopo il Signor Le Dran, famoso soprattuto per i suoi studi pioneristici sul cancro, sono andati in stampa diversi trattati particolari, che contenevano tutti delle buone osservazioni.
Anche molte dissertazioni accademiche meritano d’essere annoverate nell’ordine delle opere preziose su questa materia. Quella di Pierr Martin de La Martiniere (1634-1690), inserita nel quarto volume delle memorie dell’Accademia Reale di Chirurgia, è senza dubbio la più importante. Questa memoria è un riassunto di tutte le dissertazioni relative alle FAF, arricchita di osservazioni e riflessioni dell’autore, frutto di una lunga esperienza come chirurgo militare.
Pierr Martin de La Martiniere |
La storia di La Martiniere meriterebbe una trattazione a parte. Orfano, a dieci anni si ritrovò sui campi della Guerra dei Trent’anni come aiuto chirurgo, assoldato da Enrico di Lorena-Harcourt, amico del suo defunto padre. È difficile immaginare un bambino alle prese con amputazioni e salassi, eppure non era strano avere assistenti (anche fra i combattenti) di giovanissima età. Non particolarmente fortunato, La Martiniere fu cattura dai pirati barbareschi a dodici anni e fu liberato solo a sedici da una spedizione dei Cavalieri di Malta; sullla sua cattività scrisse anche un saggio, pubblicato nel 1674. A trent’anni (e venti di pratica medica sulle spalle) divenne medico della Corte Reale francese. Qualche anno dopo, nel 1670, si imbarcò a Copenaghen su un veliero mercantile (sempre come medico) incaricato di stabilire rapporti commerciali con Islanda, Groenlandia e Russia del Nord. Fu quindi un medico, avventuriero e scrittore davvero eccezionale. |
Il testo dell’introduzione al Saggio su le ferite prodotte dalle armi da fuoco nuovamente compilato, ed accresciuto di note interessanti a vantaggio de’ tempi presenti, che è stato molto utile per redigere una bibliografia di base sulle FAF nel periodo 1500-1800, si conclude con un auspicio dell’autore:
Grazie a queste opere, alla lunga pratica chirurgica sui cadaveri, e alle mie osservazioni personali, ho redatto questo saggio sulla estrazione dei corpi estranei dalle piaghe. Posso dire che il mio fine sarebbe raggiunto, se questa trattazione portasse dei bravi pratici a dedicarsi a quell’importante ramo della chirurgia che è la chirurgia militare.
Come avrete compreso, l’argomento è ricco di spunti e di fatti da approfondire. Questo articolo, a prescindere dal fatto che si trasformi in una serie, getta le basi per una corretta comprensione dei volumi e dei saggi dedicati all’argomento FAF nel periodo “pioneristico” della chirurgia di guerra.
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Complimenti per gli articoli sempre molto approfonditi. Volevo chiedere come mai si preferisse il cauterio alla legatura dei vasi, che è un metodo molto più efficace per arrestare le emorragie. Grazie e ancora complimenti.
Ciao Edoardo,
la tecnica di legatura dei vasi, pur conosciuta già in epoca romana, si perse parzialmente nel corso dei secoli. Il cauterio non era più efficace, ma era più semplice da utilizzare. Anche su questo però ci sarebbe molto da dire, visto che con il cauterio bastano pochi millimetri o una pressione più forte del necessario per causare danni enormi anche in tessuti sani.
Un saluto e grazie di essere passato.
Mi ha fatto male già solo vedere gli strumenti…
Il primo che sento lamentarsi della medicina moderna lo meno malissimo.
Una cosa mi chiedevo: quanto si propagavano in fretta le idee nel 1600? Libelli come quelli che hai indicato avevano una larga diffusione o rimanevano abbastanza confinati?
Grazie per l’articolo Zwei.
Avevano discreta diffusione tra chi faceva studi medici, ma al di fuori degli ambienti specialistici non avevano grandissima penetrazione.
come sempre un articolo molto interessante,trovo che sarebbe favoloso se continuassi a trattare questo argomento
credo ci sia un piccolo errore poche righe sopra il link a giovanni da vigo
Immaginarono numerosissimi strumenti a pinzetta o uncino immaginarono una folla di strumenti a pinzette, o ad uncini