Schiavismo e Sacrifici Umani nel Benin

Un titolo più accurato per questo articolo sarebbe stato “Schiavismo e Sacrifici Umani nel Benin: verità, menzogne e mezze verità”, visto che si tratta, in breve, di una riassunto degli scritti di J.D.Graham sull’argomento.

In particolare, ho tradotto e integrato il contenuto di Graham, James D. “The Slave Trade, Depopulation and Human Sacrifice in Benin History: The General Approach.” Cahiers D’Études Africaines, vol. 5, no. 18, 1965, pp. 317–334.

Crocifissioni, sacrifici umani e tutti gli orrori a cui l’occhio poteva abituarsi, in larga misura, ma gli odori cui non poteva abituarsi nessun uomo bianco … Il sangue era ovunque; spalmato sui bronzi, l’avorio e persino i muri.

Questa la descrizione di Benin City fatta da un ufficiale della spedizione punitiva britannica del1897. Questo resoconto, insieme a quello del capitano Alan Boisragon, non lascia dubbi sul fatto che Benin City, ormai, non fosse altro che una “collezione di case di fango semidistrutte, non migliori delle capanne di un normale villaggio nativo.”

Molti storici hanno accettato queste osservazioni di prima mano come prova che il Benin abbia, in effetti, subito una graduale degenerazione morale e culturale dalla fine del XVII secolo. Il primo rapporto esplicito di questo presunto “declino” nell’impero del Benin è quello del mulatto olandese David van Nyendael. Nel 1702 osserva come le case di Benin City “stiano come il grano dei poveri, molto distanti l’una dall’altra” e che la città stessa è desolata e spopolata a causa della guerra civile.

Il rapporto di Nyendael sullo spopolamento, combinato con il precedente resoconto di Olfert Dapper – Description of Africa (1668) – sui sacrifici umani su larga scala, è stato correlato all’espansione del commercio europeo di schiavi con l’Africa occidentale nella maggior parte delle analisi storiche del “declino” del Benin.

La maggior parte degli studiosi del Benin (H.L. Roth, A.C. Burns, C.R. Nivene, ecc.) hanno quindi sempre concordato su una serie di assunti così riassumibili:

L’ascesa del Benin è strettamente legata alla domanda europea di schiavi… I profitti del commercio con gli europei diedero ai governanti e commercianti del Benin un incentivo e i mezzi, sotto forma di armi da fuoco, per estendere il loro dominio… Tuttavia, dalla fine del XVII secolo le continue guerre stavano distruggendo la prosperità e persino la struttura dello stato… Grandi parti della città erano deserte e lasciate cadere in rovina… Il commercio, anche quello degli schiavi, diminuì e, poiché i commercianti europei venivano sempre meno frequentemente in città. Lo scopo delle razzie di schiavi divenne sempre più quello di fornire vittime per sacrifici umani… Alla fine, di tutta la grandezza del Benin, tutto ciò che sopravvisse fu la brama incontrollata e autodistruttiva dei suoi governanti di potere e di bottino umano.

Insomma, le linee fondamentali della storia del Benin sono state queste per lungo tempo. Ma un accurato studio delle fonti e l’eliminazione di alcune considerazioni fin troppo soggettive sembrano resituirci un quadro, almeno parzialmente, diverso.

La storia dell’impero del Benin, tra il 1486 e il 1897, è molto più simile a una serie di oscillazioni tra momenti di grandezza e di crisi che al classico schema di “ascesa” e “decadenza”.

Il Traffico di Schiavi

La prima questione da chiarire è quella dell’effettivo contributo del traffico di schiavi con gli Europei alla grandezza dell’impero del Benin. In particolare, bisogna ridimensionare l’importanza del commercio degli schiavi per l’arrivo delle armi da fuoco negli eserciti degli oba (i re del Benin).

In effetti, il periodo di massimo potere di questi ultimi inizia con Ewuare il Grande (1440-1473) e continua con Ozolua (1481-1504) ed Esigie (1504-1550). Per quanto la tradizione orale di Jacob U. Egharevbain parli di armi da fuoco a partire dal regno di Esigie, tutte le altre prove supportano la teoria di A.F.C. Ryder (vedi bibliografia) che le armi da fuoco non sono state importate dai portoghesi. I primi fucili danesi arrivano molto probabilmente insieme agli olandesi, intorno al 1690. Nessuno dei cronisti del sedicesimo secolo menziona l’esistenza di armi da fuoco, mentre Barbot e Nyendael, nel 1682 e nel 1702, omettono specificamente le armi da fuoco loro liste di armi Bini.

Le prove disponibili, in breve, contraddicono la tesi che le armi da fuoco abbiano avuto un qualche tipo di rilevanza nell’espansione territoriale dell’impero del Benin.

Inoltre, i guerrieri Bini hanno sempre avuto molto successo in battaglia, a prescindere dai moschetti. Duarte Pacheco Pereira, che scrive il suo Esmeraldo De Situ Orbis nel 1505-1508, ci dà un dettagli importante sul Benin dell’inizio del XVI secolo:

“è solitamente in guerra con i suoi vicini e prende molti prigionieri, che compriamo a dodici o quindici braccialetti d’ottone ciascuno”.

È importante notare, tuttavia, come queste guerre siano combattute dai grandi guerrieri oba, Ozolua e Esigie. Il loro obiettivo è completare il lavoro iniziato da Ewuare prima dell’arrivo dei portoghesi, ossia estendere il territorio dell’impero per ottenere tributi dai popoli di lingua Edo che risiedono nei territori adiacenti al Benin. Che i portoghesi comincino a offrire braccialetti per i prigionieri del Benin non prova che i Bini abbiano iniziato a combattere con i vicini per questo motivo. Tutto il contrario a dire il vero.

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La città di Benin nel 1668

Giovanni Basttista Ramusio (verso il 1540) sostiene che i Bini si convincono di fare ai loro nemici “il miglior servizio del mondo mondo mandandoli ad essere venduti in altre terre dove c’è abbondanza di provviste“, ma riconosce che il Benin, con il resto dell’Africa occidentale,gode di una vita vigorosa e separata, e non dipende affatto dal mercato transatlantico“.

Non ci sono, infatti, prove che dimostrino che il commercio di schiavi nel Benin sia mai stato eccezionamente esteso. Joao de Barros riferisce che “un gran numero” di schiavi viene ottenuto a Gwato (il porto più vicino alla capitale, all’epoca famoso per il clima insalubre) per essere smerciato a Mina (fondato dai portoghesi a fine XV secolo, è uno dei centri del commercio di schiavi), ma sappiamo che la merce d’esportazione più importante per il Benin, almeno fino al 1506, è il pepe.

Anche l’avorio ha la sua rilevanza, così come l’oro, il cui commercio raggiunge l’apice all’inizio del Cinquecento e continua fino all’abbandono di Gwato da parte dei portoghesi, probabilmente intorno al 1530. Questo porta anche alla fine del commercio di schiavi tra Gwato e Mina.

Il vice-ammiraglio inglese Thomas Wyndham, nel 1553, e James Welsh, nel 1588, comprano pepe e denti di elefante a Gwato, ma riportarono la morte di molti uomini a causa del pessimo clima. Artus, c. 1600, osserva che a Gwato non c’è commercio di schiavi maschi, fatto confermato da Dapper, Barbot e Nyendael. Sembra quindi che il commercio di schiavi a Gwato, il porto del Benin, sia stato attivo solo per circa trent’anni dopo l’apertura della fabbrica portoghese, nel 1486.

Durante l’ultima parte del XVI secolo, dopo la partenza dei fattori portoghesi, il commercio a Gwato diventa intermittente, ma le principali voci di esportazione rimangono sempre pepe e avorio.

Anche le cronache del XVII secolo parlano di commercio di pelli di leopardo, avorio, pepe e schiave, ma non di schiavi maschi, di cui non c’è traccia, in tutto, dal 1553 al 1702. In breve, tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVIII, il Benin ha commerciato in schiavi, quasi esclusivamente di sesso femminile, ma in quantità tali da non poterle mettere in relazione con la sua crescita economica.

Inoltre, il porto di Gwato, alla foce del fiume Formosa, non è mai stato particolarmente apprezzato dagli Europei. Oltre al clima ostile, lo contraddistinguono il fondale basso e la presenza di rocce a pelo d’acqua. In effetti, sia i portoghesi che gli olandesi preferiscono i vicini approdi sul fiume Forcado.

Questi hanno anche il vantaggio di essere abitati dal popolo Itsekiri, che è il solo della zona a essere completamente indipendente dall’oba del Benin, tanto da non pagargli nemmeno un tributo ed essere considerato da quest’ultimo come un alleato. Si tratta di un’altra prova che, quasi subito, il modesto commercio di schiavi della zona si svolge esclusivamente con la comunità Itsekiri (Regno di Warri). Questa ha una posizione geografica più favorevole e una maggiore ricettività agli insegnamenti dei missionari portoghesi.

Un’ulteriore confusione sulla portata del commercio di schiavi del Benin deriva dai rapporti degli stessi schiavisti che spesso definiscono “Benin” l’intera area costiera tra “Guinea” e “Angola” fino a tutto il XVII secolo. Questa imprecisione aumenta necessariamente il numero di schiavi che si diceva fossero stati acquistati in “Benin”, sebbene anche questo numero esagerato fosse comunque “moderato” riapetto ad altre zone dell’Africa occidentale.

Il commercio di schiavi di sesso maschile riprende, sempre in modo moderato, dopo il 1726.

Singoli mercanti offrono armi da fuoco o pesce affumicato in cambio di un carico umano. Alcune comunità solo nominalmente dipendenti dagli oba vendono schiavi, ma, come testimonia Olaudah Equiano (un Ibo fatto schiavo in quel periodo):

“Solo prigionieri di guerra, o quelli tra noi che erano stati condannati per rapimento, o adulterio, o qualche altro crimine, che consideravamo atroce”

Ad ogni modo, anche i vascelli che battono spesso quei lidi continuano ad avere maggiori guadagni da altri tipi di traffici. Il capitano francese Jean-François Landolphe, che commercia a Gwato e Arebo tra 1769-1792, realizza i suoi maggiori profitti nel commercio dell’avorio, sebbene guadagni bene dal commercio di schiavi. Tra l’altro, quello di Landolphe è l’unico resoconto disponibile che registra un effettivo imbarco di schiavi, femmine e maschi.

Il capitano John Adams, nel suo viaggio tra il 1786-1800, è l’ultimo cronista a testimoniare l’esistenza del commercio di schiavi nel Benin propriamente detto.

Una visione d’insieme del periodo, tra il 1486-1897, porta alla conclusione che la tratta degli schiavi da vendere agli non è di grande importanza per il Benin propriamente detto. I rapporti ottocenteschi di Owen e Burton menzionano l’esistenza di un commercio di schiavi su larga scala, a Gwato, in tempi precedenti; ma nessuno dei due ne è testimone durante le loro visite nel Benin vero e proprio. Il capitano Landolphe è l’unico cronista a registrare l’effettivo imbarco di schiavi a Gwato.

L’Impero del Benin e la posizione della capitale, di Gwato, Warri e dei fiumi Formosa e Forcados

Ci sono quindi stati alcuni periodi, durante i quattro secoli di contatto europeo, in cui il traffico di schiavi è stato lievemente più intenso. Tuttavia, considerando l’intero periodo, sembra che le esportazioni più stabili del Benin sia stato l’avorio, integrato prima dal pepe, poi dall’olio di palma.

Sacrifici Umani

Ci sono pochi dubbi che i sacrifici umani siano parte integrante della religione di stato del Benin fin dai primi tempi. Barros, per esempio, osserva che “il re del Beny era molto sotto l’influenza delle sue idolatrie” e Pereira dice che la vita del Benin “è piena di abusi di stregoneria e idolatria, che per brevità ometto”. Leone Africano, all’inizio del XVI secolo, registra come i Bini:

“vivano nell’idolatria e siano una nazione rozza e brutale, nonostante il loro principe sia servito con tanta riverenza, che alla sua morte i suoi favoriti principali considerano il più grande punto d’onore essere sepolti con lui”.

Ramusio, verso il 1540, dice che “tutti sono ansiosi di avere l’onore” di essere sepolti con l’oba, poiché questa è un’antica usanza nel Benin. Tuttavia, un’analisi delle effettive testimonianze sui sacrifici umani ci porta a ridimensionare parzialmente anche questo fenomeno. Anche nei resoconti più brutali sembrano essere praticati in maggior parte nel corso dei funerali di personaggi importanti.

Ajayi Kolawole Ajisafe scrive:

è considerato necessario e degno di onore uccidere alcuni uomini (schiavi e condannati) per il funerale di un uomo importante.

Smith, Landolphe e Adams sembrano comunque concordare, in generale, che “i sacrifici umani non sono così frequenti qui come in alcune parti dell’Africa“. Il barone de Beauvais, che accompagna Landolphe nel 1786, fornisce il primo resoconto da testimone oculare di sacrifici umani nel Benin propriamente detto, nella sua descrizione della morte di quindici uomini durante una cerimonia religiosa.

James Fawckner è testimone del più “scioccante e rivoltante spettacolo” nel Benin in un’ordalia, dove a un uomo viene bruciato il pollice:

Per un inglese questo è uno spettacolo scioccante e rivoltantea cui assistere. L’ho osservato con sentimenti di orrore e disgusto. Gli indigeni mi hanno assicurato che non era molto doloroso, e la ferita è presto guarita. Ripongono grande fiducia in quest’ultima prova, e spesso fanno camminare il ladro per la città con l’ustione ancora non guarita.

In linea di massima, però, il momento in cui si verifica il maggior numero di sacrifici è il 1780, per l’insediamento al potere di oba Akengbuda. Le fonti concordano che per il periodo precedente e quello successivo il numero di sacrifici umani è inferiore a quello di altri regni africani.

Di conseguenza, è difficile seguire la teoria che vuole il Benin in ginocchio – subito dopo l’apogeo – per l’enorme quantità di sacrifici umani e di schiavi venduti agli Europei.

Il chirurgo di bordo Moffat, nel 1838, mette nero su bianco qualche altro dettaglio sui sacrifici umani del Benin parlando dell’Arho Ogiuwu, un vero e proprio “Golgota” dove i teschi umani sono ammassati e sbiancati al sole. Moffat rimane disgustato dalla vista degli avvoltoi che si nutrono delle carcasse dei decapitati, e è nauseato dal fetore “insopportabile”. Anche Burton, nel 1862, prova un profondo disgusto osservando l’Arko Ogiuwu e le strade della città, in cui “teschi verdi e ammuffiti [erano] distesi come ciottoli“.

A parte alcuni testimoni diretti dei sacrifici come Louis Jacolliot, che nel 1879 assiste a sacrificio di due ragazze in una cerimonia religiosa, la maggior parte delle fonti sembra convinta che i cadaveri del Arho Ogiuwu siano quelli delle persone sacrificate. Al contrario, lo stesso Jacalliot riferisce che le carcasse dell’Arho Ogiuwu sono quelle di criminali e prigionieri, che in questro modo si sono riconciliati con la loro morte. A portare fuori strada gli Europei sono quindi le diverse consuetudini di sepoltura dei giustiziati operata dai Bini. Questi ultimi trovano normale lasciare che sia la natura a fare il suo corso sui corpi in decomposizione.

Ed è proprio questa l’interpretazione etnografica proposta da P. Amaury Talbot per spiegare le esagerazioni sul numero dei sacrifici umani in Benin, cui va però aggiunta una postilla importante: alla fine dell’Ottocento c’è effetivamente stato un aumento dei sacrifici umani. Il motivo? La convinzione di sacerdoti e oba che questi avrebbero contribuito a impedire agli inglesi di… costringerli a cessare immediatamente i sacrifici umani. In praticano si inizia a sacrificare a tutto spiano per chiedere agli Dei di poter continuare a fare sacrifici durante i funerali dei governanti del Benin.

Ad ogni modo, la preoccupazione del Benin per l’atteggiamento degli inglesi è fondata, visto che questi ultimi tentano di controllarne in modo sempre più stretto il traffico di avorio e degli altri beni. Nel 1896, una delegazione inglese vuole raggiungere l’oba Ovoranmwen per convincerlo a eliminare i dazi imposti al commercio inglese, ma viene attaccata da un gruppo di guerrieri e massacrata. La strage è dovuta al fatto che l’oba non controlla perfettamente tutto il suo territorio e, per questo, ha chiesto alla delegazione di aspettare qualche giorno prima di entrare nel terrirorio del Benin. Una richiesta lasciata cadere nel vuoto dagli ufficiali inglesi.

Membri della spedizione punitiva inglese del 1897 con gli oggetti sottratti presso il palazzo reale dell’oba.

La spedizione punitiva inglese, che di fatto chiude 700 anni di storia dell’Impero del Benin, non si fa aspettare. Nel 1897, un distaccamento inglese di 1.200 soldati, guidato dall’Ammiraglio Sir Harry Rawson, riesce a prendere la capitale in soli 5 giorni e in 17 totali gli uomini sono già imbarcati e pronti a tornare in patria.

L’operazione viene ricordata ancora oggi come esempio di perfezione organizzativa ed esecutiva. Bisogna però sottolineare come gli inglesi si siano lasciati andare a un saccheggio brutale di avorio e opere d’arte.

Insomma, una manciata di giorni per cancellare settecento anni.

Bibliografia:

  • Ryder, A. F. C.  Benin and the Europeans, 1485-1897. Longmans Harlow, 1969
  • Ryder, A. F. C. “AN EARLY PORTUGUESE TRADING VOYAGE TO THE FORCADOS RIVER.” Journal of the Historical Society of Nigeria, vol. 1, no. 4, Historical Society of Nigeria, 1959, pp. 294–321, .
  • Eisenhofer, Stefan. “Was the Report of James Welsh (1588) the First Account of Afro-Portuguese Ivory Carving in Benin City?” History in Africa, vol. 21, Cambridge University Press, 1994, pp. 409–12, https://doi.org/10.2307/3171898.
  • Blake, John W, Europeans in West Africa. 1450-1560. London, 1942
  • Bobragon, Captain Alan, The Bettin Massacre. London, 1897
  • Fawkner, Captain James, Travels on the Coast of Benin, London, 1837
  • Read. Charles H. and Dalton, Ormande M.. Antiquities from the City of Benin. London, 1899.
  • Royh. Henry L. , Great Benin: Its Customs, Arts. and Horrors. Halifax.
  • Rumann W. B.. “Funeral Ceremonies for the late Ex-Oba” of Journal of the African Society, Vol. 14. No. 53, 1914

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