Il Ruolo delle Malattie nella Conquista delle Americhe: un Modello Culturale

La Conquista delle Americhe? Parto mettendo le mani avanti: non vorrei assolutamente che questo nuovo articolo fosse preso come una smentita del precedente “Pizarro e Atahualpa: la fine dell’impero Inca”, nonostante le critiche che sono state mosse al lavoro di J. Diamond, a cui ammetto di essermi fortemente ispirato, se dovessi riscrivere un articolo sullo stesso soggetto, non lo cambierei di una virgola. Il determinismo geografico dimostrato dal biologo statunitense è ormai rigettato dalla maggior parte della comunità scientifica, ma non si può nascondere che abbia ancora un nutrito numero di sostenitori, specialmente tra le fila di coloro che si sono formati con la seconda e la terza generazione delle Annales e, quindi, con gli insegnamenti di Fernand Braudel, come il sottoscritto.

L’articolo citato in precedenza, che invito a recuperare preliminarmente alla lettura di questo, ruotava intorno alla spiegazione del successo europeo in America sulla base di tre fattori, di fatto riconducibili a due macroaree: una superiore tecnologia bellica (armi e acciaio) e un superiore conoscenza, a livello immunitario, di alcune patologie potenzialmente letali. La questione che resta irrisolta però nel lavoro di Diamond è quella di andare a indagare il ruolo delle malattie in maniera approfondita. Cioè, fermo restante che le malattie ricoprirono una parte assolutamente determinante nella conquista europea dell’America, quale ruolo ebbero precisamente?

Diamond nel suo libro elude la domanda, da bravo biologo ci spiega come funzionano i virus, come questi si adattino progressivamente all’organismo ospite e come riducano quindi la loro stessa letalità stando a contatto con l’uomo per diversi secoli, inoltre riporta i dati demografici sugli effetti del vaiolo sui nativi, segnalando quel crollo verticale che, per esempio, porta gli aztechi da 25.200.000 a 1.000.000 circa nel giro di un secolo, tra il 1518 e il 1622 (M. Carmagnani, L’altro Occidente. L’America Latina dall’invasione europea al nuovo millennio, 2003). Ma non risponde alla domanda che per noi ora è fondamentale, quale fu precisamente il ruolo delle malattie? Fu un’arma utilizzata consapevolmente dagli europei contro i nativi? (Come per esempio sembrerebbero testimoniare le ceste di vestiti infetti inviati dagli inglesi alle tribù Delaware durante la guerra franco-indiana). Fu un angelo sterminatore che spianò la strada alle poche centinaia di europei imbarcatisi in quest’impresa? M. Livi Bacci, uno dei massimi demografi italiani dà la sua personale lettura della cosa.

conquista delle americhe

Il ragionamento di Livi Bacci parte da un esempio, che viene prese come modello: quello di Hispaniola.Ripercorriamo brevemente il pezzo di storia che ci interessa: non è facile stimare a quanto ammontasse la popolazione indigena di Hispaniola prima dell’arrivo di Colombo, gli studiosi contemporanei che si sono interessati all’area caraibica negli ultimi cinquant’anni forniscono stime incredibilmente varie, da un minimo di 60.000 persone ad addirittura 8.000.000. Le stime più recenti però, basate su criteri diversificati quali le capacità di popolamento dell’isola, il numero delle comunità e la distribuzione dei villaggi, la produttività della manodopera indigena nelle miniere d’oro e altri, ci suggeriscono una popolazione che, al momento dello sbarco colombino, doveva consistere in circa 200-300.000 persone.

Vent’anni dopo, il repartimiento (ovvero la suddivisione degli indios in qualità di servi tra i conquistadores) conta solamente 26.000 indigeni, tra uomini e donne di tutte le età. Dopo l’epidemia di vaiolo del 1518-19, ne rimangono solo poche migliaia che si estingueranno prima della fine del secolo. Già con questo modello il ragionamento di Diamond sembra scricchiolare un po’: se la prima epidemia di vaiolo nell’isola è avvenuta nel 1518, come mai la popolazione indigena era già crollata dalle ipotetiche 200-300.000 unità a 26.000 nei primi anni dieci del secolo? La risposta che dà il demografo fiorentino è (sorprendentemente) di tipo culturale. Egli sostiene che, sebbene le malattie ebbero una pesante influenza sul declino di tutte le civiltà precolombiane, la parte maggiore la ebbe lo squarcio della rete di relazioni comunitari precedentemente instaurata dagli indigeni nei loro territori.

Furono, prima di tutto il resto, il repartimiento e l’encomienda a provocare il crollo demografico verticale delle popolazioni indigene e non le malattie, come sostenuto da Diamond inizialmente. Le malattie sicuramente furono un fattore determinante, nel senso che, arrivando successivamente in una situazione compromessa, inibirono definitivamente ogni possibilità di ripresa demografica nelle popolazioni soggette ai nuovi dominatori europei, ma null’altro. Il problema principe di questi sistemi semi-schiavistici infatti era la completa dislocazione sociale alla quale i soggetti erano sottoposti: gli indios venivano spostati da un posto all’altro e da un padrone all’altro, i loro tradizionali sistemi di vita – incluse le reti di sostegno comunitarie, claniche e familiari – venivano distrutti mentre buona parte delle donne in età fertile veniva costretta a entrare nel sistema riproduttivo dei conquistatori, disgregando clan, comunità e famiglie e lasciando gli uomini senza partner e senza alcun tipo di sostegno sociale.

Il regime imposto dai conquistatori, che divideva gli indigeni per sesso, che impediva i matrimoni e la procreazione temendo l’istituzione familiare come potenziale avversario al sistema del repartimiento, i massacranti turni di lavoro e il totale disorientamento di un popolo che era contraddistinto (forse ancor più degli europei) da rigidissime consuetudini che regolassero il comportamento sociale e la sfera sessuale, furono gli elementi che portarono all’estinzione di buona parte della popolazione autoctona in un tempo record di circa un secolo e mezzo.

E’ naturale che in un contesto così fortemente compromesso, un ulteriore elemento allogeno come le cicliche epidemie di vaiolo non fecero che completare l’opera, imponendo agli europei l’adozione di misure protettive nei confronti della manodopera (come nel caso dell’istituzione di leggi per salvaguardare gli indigeni a seguito anche della battaglia condotta da Las Casas, vedi “Gli indios, uomini o animali?”) o l’importazione di manodopera dai territori africani andando a costituire il famigerato “commercio triangolare” (vedi “I neri e la schiavitù nelle colonie spagnole”).


L’impatto europeo dunque, andò ben oltre la trasmissione di nuove e mortali patologie, se infatti si è visto che le popolazioni europee, colpita da una mezza dozzina di ondate di peste che, per inciso, risultò essere ben più letale delle epidemie di vaiolo in suolo americano, resistettero al loro urto perdendo forse più di un terzo dei loro effettivi, dimostrando però, nei decenni successivi, grandi capacità di ripresa. Nelle società indigene invece, il combinarsi delle nuove malattie con la destrutturazione in atto dei legami sociali decretò la fine definitiva anche dei grandi imperi precolombiani come quello azteco o inca.

Come ulteriore argomento alla sua tesi, Livi Bacci porta l’esempio della regione del Paraguay, nel bacino dei fiumi Paraná e Uruguay, dove i Guaraní raccolti in circa 30 missioni gesuitiche e quindi protetti dalle razzie dei paulisti brasiliani provenienti dal Nord, conobbero nel XVII sec. e nella prima parte del XVIII una forte espansione demografica. Non che fossero immuni dall’epidemie a cui erano soggetti gli altri indios nel resto del continente, infatti mediamente se ne presentava una ogni 15 anni, ma la popolazione, all’interno dei propri nuclei culturali e sociali, si potrebbe dire, all’interno del proprio universo mentale, riusciva a reagire alla crisi e, non appena questa fosse passata, riprendeva a crescere. Non è infatti un caso che le regioni dove (anche attualmente) resistono in percentuale maggiore i ceppi etnici e culturali precolombiani siano quelle dove le strutture sociali erano più forti (i grandi imperi mexica e inca) o quelle che per più tempo hanno sfuggito il contatto e quindi lo sfruttamento da parte degli europei (come per esempio il Centroamerica che, anche ora, ha una buona percentuale di abitanti di cultura maya).

Concludendo, si può forse affermare che sia ora di mandare in pensione Armi, acciaio e malattie di Diamond? Per quanto odiosa, la risposta è forse. Non ho mai nascosto le mie simpatie per l’opera di questo non-storico che, con il suo determinismo geografico ed ecologico si avvicina molto a quella corrente braudeliana a cui accennavo all’inizio; tuttavia non si può rimanere attaccati a paradigmi interpretativi del passato soltanto per un malriposto senso di affetto nei confronti delle letture del proprio passato.

Laicamente credo sia il caso di dire che, benché la questione e il rapporto conquista-malattie sia un nodo fondamentale di tutta la storia europea moderna, tale questione sia stata soltanto inizialmente scalfita dall’opera di Diamond (al quale va dunque questo merito) e approfondita in maniera decisamente più interessante da quella di Livi Bacci. Ma la questione è tuttora apertissima, e chi si interessa alla storia dell’America Latina anche da non addetto ai lavori lo sa bene; poiché  abbiamo una lettura epidemiologica, ne abbiamo una culturale, ma un processo così ampio nel tempo e nello spazio sfugge continuamente alla riduzione a un nucleo ben definito e definibile di cause. Mancano molti tasselli, ad esempio il ruolo della Chiesa e del gesuitismo; che ruolo ebbero nella crescita o nel calo demografico? I nuovi precetti (anche sessuali) del cattolicesimo, ostacolarono una potenziale ripresa demografica indigena? E che ruolo ebbero i meticci, I figli dei conquistatori e di donne indigene sottratte dalle loro comunità di origine e pertanto socialmente estranei sia agli europei che ai clan indios che, come detto in precedenza, in quanto a regole di comportamento di certo non erano meno rigide dei cattolicissimi spagnoli? E in ultima analisi come relazioniamo questo unicum presente nella storia umana con tutte le altre ondate epidemiche che si sono abbattute, in più riprese, nel resto del mondo?

Benché come ogni storico detesti anche io i “what if” in generale, perché però non ci chiediamo cosa sarebbe successo se anche l’Europa prima di subire le tremende ondate di peste del 1348 fosse stata sconfitta e costretta a un regime schiavistico?

9 pensieri riguardo “Il Ruolo delle Malattie nella Conquista delle Americhe: un Modello Culturale

  1. ottimo articolo!
    sembra anche spiegare perchè si disse che “gli indios, al contrario dei negri, si lasciavano morire”.
    se le convinzioni sono disgregate, muoiono anche le persone…

    1. Grazie Maurizio! In realtà è proprio come dici tu anche per gli schiavi di origine africana, al nord, dove i legami familiari non venivano recisi violentemente, la demografia seguiva i modelli di una popolazione “libera”, al sud invece i dati forniti da Livi Bacci ci mostrano una popolazione totalmente prona di fronte al suo tragico destino:

      “Un rapporto stock e flusso cumulato, se inferiore a 1, è il segnale inequivocabile della incapacità a riprodursi della popolazione considerata. La popolazione nera esistente nel 1800 (5,6 milioni) nell’intera America è rapportato alla tratta cumulata del periodo 1500-1800 (7,0 milioni): il valore del rapporto (0,8) indica l’incapacità della popolazione africana di sostenersi nel nuovo continente. Nelle isole dei Caraibi, lo stock del 1800 (1,7 milioni) era meno della metà del flusso cumulato di schiavi (3,9 milioni; rapporto 0,43).” Livi Bacci Massimo, Storia minima della popolazione del mondo, pp. 79-80.

      1. … mmm … cioè, nel nordamerica la popolazione di schiavi ha cominciato non aver bisogno di un continuo influsso dall’Africa solo dopo l’ottocento? e questo da cosa derivava? da un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita o dalla diffusione del concetto di schiavo come investimento a lungo termine?
        oddio, lo so che è una domanda balorda…

        1. I dati che ti ho dato prima sono una media di tutto il continente, per quanto riguarda gli Stati uniti il saldo era già positivo ben prima:

          Schiavi tradotti in America (1500-1800)(1) e popolazione nera americana (1800)(2) (cifre in migliaia)

          Stati Uniti: 348 (1) / 1.002 (2)

          Con un rapporto quindi (2)/(1) di 2.88 di gran lunga superiore all’1 necessario affinché si mantenesse una situazione invariata per quanto riguarda il numero di componenti della popolazione.

  2. Buongiorno, per quanto possibile cerco di integrare l’articolo per quanto di mia conoscenza.
    Ho letto anche io il trattato di Livi Bacci e mi sembrava assolutamente esauriente, poi ho scoperto che invece è stato fortemente criticato ed accusato di indagare solo su un’epidemia ovvero quella di vaiolo e su quella costruire tutta la tesi.
    In realtà le epidemie furono numerose, la prima addirittura sull’isola di Santo Domingo (Hispaniola) nel 1493, probabilmente una peste suina, che fece strage di abitanti (fortemente criticato il professore per non averla citata quando è fondamentale per capire il crollo della popolazione prima dell’arrivo del vaiolo). Un’altra epidemia distruttiva fu quella di morbillo anch’essa fortemente sottovalutata dal professore ma furono comunque numerose su popolazioni già fortemente debilitate, esaustivo è il trattato ” Encyclopedia of Pestilence, Pandemics, and Plagues: A–M” uno scritto di epidemiologia che ben fa capire l’impatto del morbillo nelle Americhe.
    Per approfondire può leggere il libro “1493” di Charles Mann che le consiglio caldamente anche perchè ha una bibliografia sterminata ed anche i libri del prof. Noble David Cook il suo “Born to Die: Disease and New World Conquest 1492-1650” è la migliore sintesi dell’impatto delle malattie sulla conquista delle Americhe.
    Ricordo che l’argomento non è materia solo da storici o demografi ma anche da epidemiologi i quali fanno spesso il confronto tra lo shock epidemiologico avuto dalle Americhe (ma non solo anche da alcune isole oceaniche) e l’impatto della peste nell’Europa del 1300, come giustamente fanno notare cosa sarebbe successo se dopo tale epidemia ne fossero arrivate altre? Non dimentichiamoci che anche il rapido espansionismo ottomano in Europa fu dovuto proprio al disastro causato dalla pestilenza quindi il paragone con le Americhe è più che calzante.
    In sintesi, per quanto ho potuto capire, l’epidemiologia conferma Diamond e sconfessa Livi Bacci.

  3. Mi sentivo un po’ solo nel pensarla così, per cui fa piacere leggere un articolo di questo tipo! Nella mia tesi magistrale ho toccato anche questo argomento (la tesi trattava la caduta del regno mexica e puntava a dimostrare che le cause di ordine culturale prevalevano su quelle presentate da Diamond; il che non vuol dire che non abbiano avuto anch’esse un loro peso).

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