L’Epoca d’Oro della Sicilia Musulmana: Un Mito Ottocentesco

Affrontare l’esame della presunta epoca d’oro della Sicilia musulmana è estremamente complesso. Di solito, in un tripudio di approssimazione storica, viene liquidata come un’epoca di grande avanzamento scientifico, culturale, nonché di concordia e tolleranza fra popoli diversi. In questo modo, da un secolo e mezzo si perpetua il mito di un’epoca mai esistita. C’è stata una dominazione araba della Sicilia ma fu, come la maggior parte delle dominazioni, particolarmente dura per la popolazione autoctona.

A volte basta una sola bugia, un solo falso, a sconvolgere completamente la nostra conoscenza di un determinato periodo storico. Si parla ancora oggi della famosa Donazione di Costantino, mentre solo pochi curiosi ed eruditi sono a conoscenza del Codice diplomatico di Sicilia sotto il governo degli Arabi di Giuseppe Vella.

Si tratta di un volume che riporta tutti i fatti avvenuti nella Sicilia Musulmana fra l’inizio del IX e la seconda metà dell’XI secolo.

Ed è anche uno dei falsi più clamorosi della storiografia moderna.

Il mito della Sicilia Musulmana, isola di concordia e progresso-scientifico culturale, nasce con questo documento, falsificato per intero dal nominato Giuseppe Vella, un gerosolimitano che conosceva il maltese e aveva qualche nozione di arabo. Incredibile a dirsi, fu proprio uno dei suoi maggiori detrattori, lo storico Michele Amari, a perpetuare il mito del periodo d’oro islamico.

L'estratto dell'opera di Vella da cui nasce il mito della sicilia araba.
L’estratto dell’opera di Vella da cui nasce il mito della sicilia araba.

Vella fu sbugiardato da altri storici contemporanei e successivi (come Bartolomeo Lagumina). Il fisico e storico Domenico Scinà gli dedicò anche un libello d’accusa, L’Arabica Impostura, e lo considerò sempre un vero ignorante, uno che «con accento maltese pronunziava un bastardume di linguaggio arabo, anzi una lingua tutta propria di lui». Come ben scrive la cultrice della materia Fara Misuraca (sull’argomento, vedi anche: Giuseppe Giarrizzo, Cultura ed Economia nella Sicilia del Settecento, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 1992):

Dal codice tradotto dal Vella si evinceva che non erano stati i Normanni a fondare la storia moderna della Sicilia ma gli Arabi. Da qui l’uso politico del “codice” che avrebbe potuto sottrarre all’influenza di Napoli i nobili siciliani. Analizzando questo aspetto dell’impostura riesce difficile credere che il Vella abbia architettato tutto da solo.

Questo falso storico si propagò velocemente attraverso gli scritti di altri storici dell’epoca, e l’opera del Vella ebbe anche la dignità di una sontuosa stampa in tedesco. Fuori dai confini italiani (o, meglio, siciliani) le numerose prove della falsificazione operata da Giuseppe Vella arrivarono con minore intensità e, in alcuni casi, non giunsero affatto, portando anche gli storici europei a rivedere la storia delle conquista islamica della Sicilia.

giuseppe vella falso
Frontespizio dell’edizione tedesca del falso di Giuseppe Vella

A differenza di Vella, qualificabile solo come cialtrone, Amari era uno storico che sapeva lavorare sulle fonti. Purtroppo però, nella redazione della sua opera sulla Storia dei Musulmani di Sicilia, fu pervaso da un sentimento di odio politico verso i Borbone e il cattolicesimo.

La sua vicenda ricorda quella di tanti altri storici e pensatori, italiani ed europei, che fabbricarono de facto la cosiddetta Leggenda Nera. Una visione distorta del medioevo europeo che molti storici moderni si sono lasciati alle spalle.

Alla base dell’Epoca d’oro Islamica abbiamo quindi un falso conclamato, quello di Vella, e l’opera di uno storico ben preparato dal punto di vista della ricerca delle fonti e delle competenze linguistiche. Questi però aveva tutta l’intenzione di dimostrare come la linea di governo del Sud, che dai Borbone andava indietro fino ai Normanni, fosse stata meno capace di quella islamica dei secoli IX-XI.

Le scuole del neonato Regno d’Italia, di cui l’Amari fu uno dei fautori, attinsero a piene mani da questo corpus. Una continua circolazione di strane concrezioni storiografiche che è giunta quasi intatta fino a pochi decenni fa.

Al sentimento antiborbonico si unì infatti la repulsione degli statisti laici verso tutto ciò che riguardava la Chiesa. E il modo migliore per colpire la Chiesa era proprio mostrarne l’oscurantismo rispetto all’altra fede diffusa nel Mediterraneo, l’Islam.

Per meglio comprendere le posizioni politiche di Amari, è necessario procedere con un breve excursus. Dopo aver partecipato, appena quattordicenne, ai moti siciliani del 1820-1821, l’Amari fu graziato dai Borbone (a differenza del padre, che fu condannato all’ergastolo).

Attorno al 1840 decise di raggiungere Parigi per sfuggire alla persecuzione dovuta alla pubblicazione della sua opera La Guerra del Vespro. Qui incontrò personaggi come Giovanni Berchet e Atto Vannucci (un altro storico di cui farò menzione), tutti uniti da un forte spirito patriottico che tendeva verso un’Italia unita e laica.

Spinto dall’interesse per le fonti arabe e interessato a dimostrare che, in fondo, il periodo della dominazione araba non potesse essere stato peggiore di quello romano e  bizantino o delle costrizioni imposte dalla Chiesa (Romana e Ortodossa), l’Amari imparò l’arabo grazie all’aiuto di Joseph Toussaint Reinaud.

Le prime righe dell'opera di Michele Amari mettono subito in chiaro la sua intenzione di corroborare i contenuti del falso di Vella.
Le prime righe dell’opera di Michele Amari mettono subito in chiaro la sua intenzione di corroborare i contenuti del falso di Vella.

Le sue conoscenze e una continua ricerca delle fonti lo portarono alla redazione della già citata Storia dei Musulmani in Sicilia. Ovviamente non sono il primo che si propone di (quantomeno) mitigare gli aspetti sensazionalistici della Sicilia musulmana. Già Isidoro Carini, gesuita e paleografo siciliano di incredibile competenza (a 32 anni era professore di paleografia all’Università di Palermo) nonché “primo custode” della Biblioteca Vaticana dal 1890, si era espresso in questo senso. Carini scambiò anche diverse epistole con l’Amari, e fra i due c’era grande rispetto e ammirazione. Tuttavia, il primo pensava che quest’ultimo avesse inserito troppe convinzioni personali all’interno dell’opera.

isidoro carini
Alcune informazioni su Carini (e sul suo lavoro relativo all’opera dell’Amari) tratte da un numero de La Civiltà Cattolica del 1874

Oltre a Carini, fino ad oggi sono stati moltissimi gli storici che hanno meglio delineato il carattere spesso distruttivo della conquista islamica della Sicilia. In un articolo abbastanza recente, lo storico e saggista Paquale Hamel cita le La Sicilia Musulmana (di Alessandro Vanoli) e L’isola di Allah (di Salvatore Tramontana) fra i testi consigliati a chi voglia avvicinarsi all’argomento senza incorrere nei pregiudizi anticlericali.

L’intenzione polemica di Amari emerge sin dal primo capitolo, dove etichetta negativamente i secoli di dominazione romana della Sicilia e parla di “rinascita” quando si appresta a trattare il periodo arabo. Arriva addirittura a paragonare quest’ultimo a quello della dominazione greca.

Michele Amari giudica, a torto, la dominazione araba come un periodo di luce e tolleranza dopo la disgregazione socio economica dovuta a romani e bizantini
Michele Amari giudica, a torto, la dominazione araba come un periodo di luce e tolleranza dopo la disgregazione socio economica dovuta a romani e bizantini

Prima di affrontare le intrinseche falsità contenute nel paragrafo di cui sopra, è necessario completare il discorso sulle fonti, in particolare sull’opera di Michele Amari.

A sostegno delle sue tesi venne infatti l’amico Atto Vannucci, i cui scritti ebbero anche una certa influenza sui libri di testo delle prime scuole dell’Italia unita, che nel 1856 pubblicò il volume di una cinquantina di pagine intitolato Dei recenti studj sulla antica civilta arabica e della Storia dei musulmani in Sicilia di Michele Amari.

A una lettura superficiale, il documento sembrerebbe una monotona lode all’opera dell’Amari, ma Vannucci in realtà si lascia sfuggire un paragrafo in cui definisce con chiarezza la situazione della popolazione non musulmana di Sicilia durante il dominio arabo.

Un eloquente estratto dal libro di Atto Vannucci
Un eloquente estratto dal libro di Atto Vannucci

Basterebbe quel “non ebbero libertà” a identificare perfettamente la condizione di completa sottomissione dei dhimmi siciliani, ma Vannucci elenca in maniera abbastanza esaustiva anche gli insopportabili limiti imposti loro dagli arabi.

Quando poi elogia Maometto al di sopra di Gregorio Magno, che, pur non abolendo l’istituto della schiavitù, ebbe:

un interesse costante a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori della terra, vittime di angherie e di sopraffazioni di ogni sorta.

Roberta Rizzo in Papa Gregorio Magno e la nobiltà in Sicilia (2008)

comprendiamo appieno come l’astio verso la Chiesa e lo status quo istituzionale fossero il vero motore di queste opere storiografiche ottocentesche sulla Sicilia musulmana.

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Sappiamo dunque che una certa storiografia ha parzialmente modificato la realtà storica della Sicilia musulmana, mostrandone solo i buoni traffici commerciali o i testi poetici prodotti. Queste tesi sono divenute verbo divino fra la seconda metà del XIX secolo (Amari fu ministro dell’istruzione nel governo Farini) e la prima del XX secolo.

Ad oggi, si tende a dare pochissimo spazio alla condizione del dhimmi siciliano o al fatto che l’intera popolazione siciliana si adoperò per la cacciata degli arabi e ne spazzò via quasi ogni traccia (cosa che, di solito, non avviene quando un popolo è felice e soddisfatto della propria condizione).

Non è mia intenzione sovvertire per intero centocinquanta anni di tradizione, ma penso sia importante far comprendere quale fosse davvero la condizione dei siciliani cristiani.

Come tutte le altre popolazioni non-musulmane conquistate dagli arabi, questi assunsero la condizione di dhimmi.

Tutti i beni amministrati dai funzionari bizantini o siciliani passarono in mano musulmana assieme a buona parte di quelli ecclesiastici. Coloni e schiavi che lavoravano le terre rimasero al loro posto, ma sotto nuovi padroni.

Amari ci tiene a precisare quasi subito che i dhimmi godevano di un diritto di proprietà pieno e indiscriminato, alla pari dei musulmani, ma nelle note accenna al fatto che altri studiosi sono più orientati a pensare che in diversi casi ai dhimmi non rimanesse che l’usufrutto.

amari diritto dhimmi

Ai dhimmi rimaneva anche la possibilità di effettuare lasciti testamentari e concludere contratti con altri dhimmi o musulmani, ma dovevano sottostare ad alcune limitazioni. Amari parla, in questo caso, di “condizioni ragionevolmente chiamate essenziali“. I dhimmi non potevano parlare con irriverenza del Corano, del Profeta o dell’Islam in generale, non dovevano disturbare donne musulmane, i soldati, né fare proseliti. Erano inoltre sottoposti a “tre maniere d’aggravi: di finanza (1), di polizia civile (2) e di polizia ecclesiastica (3).”

(1) Finanza

Parliamo di due tasse, quella sulla persona, la Jizya, e quella sui beni immobili, la Kharaj. La prima è la più conosciuta; si tratta infatti della tassa con cui al dhimmi veniva garantita la “protezione” dai nemici esterni e il godimento delle proprie cose. Era, in sostanza, la somma che dovevano pagare i sottomessi e ammontava a 48 dirham l’anno per i più abbienti, 24 per il ceto medio e 12 per i nullatenenti.

La Kharaj invece era un’imposta sulla rendita presunta del fondo o della proprietà immobiliare posseduta dal dhimmi. Con le dovute variazioni regionali, la Kharaj ammontava al 20% circa della rendita presunta.

Alcune fonti arabe narrano che la tassazione dei due imperi abbattuti dagli Arabi, quello Romano Orientale e quello Sassanide, era talmente alta da far propendere gli abitanti per i nuovi conquistatori. In realtà la situazione fu differente da luogo a luogo. In The History of Iran from Ancient Times to the End of Eighteenth Century (1967), l’orientalista russo Yakubovski scrive:

Una comparazione fra i documenti pre-Islamici e quelli del periodo islamico rivela che gli Arabi conquistatori aumentarono senza eccezione la tassazione sulle proprietà terriere. In questo modo, alzarono le tasse per i campi di grano a 4 dirhams l’acro e quelle per i campi d’orzo a 2 dirhams l’acro, mentre durante il regno di Cosroe era di 1 dirham per ogni acro, a prescindere dal tipo di coltivazione. Durante l’ultima parte del Califfato Umayyade, i Persiani sottomessi pagavano agli Arabi una kharaj (la tassa sulla terra di cui abbiamo detto) pari a 1/4-1/3 di quanto avevano prodotto.

(2) Proibizioni civili

Le proibizioni imposte ai dhimmi erano piuttosto pesanti, ma anche in questo caso Amari sembra giudicarle di poco conto, e si limita a elencarle meccanicamente. Era loro vietato:

  • portare armi;
  • andare a cavallo;
  • utilizzare selle per montare asini o muli;
  • costruire case che pareggiassero o superassero in altezza quelle dei Musulmani;
  • bere vino in pubblico;
  • piangere i morti durante le processione che portava al cimitero;
  • (per le donne) entrare nei bagni pubblici quando ci fossero donne musulmane o rimanervi all’ingresso di queste ultime.

Avevano inoltre l’obbligo di:

  • portare un segno distintivo sulla porta di casa, sui vestiti (compresa una cintura di cuoio o lana) e utilizzare copricapo di diversa foggia e colore;
  • cedere il passo ai Musulmani incontrati sulla medesima strada;
  • quando ci si trova in gruppo, alzarsi all’entrata o uscita di un Musulmano .

Si tratta di umiliazioni piuttosto stringenti, volte a stabilire una rigida separazione fra conquistatori e sottomessi. Amari ne ammette la gravosità, ma nel paragrafo successivo sostiene che, di fronte queste limitazioni “civili”, i divieti di tipo religioso erano piuttosto lievi.

3) Proibizioni Religiose

  • costruire nuove chiese o monasteri (sulla restaurazione di quelle più antiche, solitamente vietata, sembra che i siciliani avessero un’esenzione);
  • suonare le campane;
  • leggere il vangelo a voce alta (non potevano esserci canti o processioni);
  • portare croci in pubblico;
  • parlare di Gesù Cristo con i Musulmani;
  • fare proseliti.

Per un laico come me o per Amari potrebbero sembrare restrizioni di poco conto, ma in realtà considerarle in questo modo vuol dire non riuscire a immedesimarsi nella dimensione collettiva della spiritualità altomedievale. Certo, le chiese rimasero aperte e si poteva pregare in modo sommesso anche in casa, ma doveva essere ben chiaro chi fosse il padrone (musulmano) e chi il sottomesso (cristiano).

Come al solito, le esigenze di stringatezza del web mi costringono a un lavoro di sintesi disumano, in cui si rischia di perdere la c.d. bigger picture, per cui sono costretto a cambiare (parzialmente) argomento e dedicarmi al secondo punto più battuto da una certa storiografia, quello della presunta “rivoluzione scientifica” (agricoltura, astronomia, medicina, arte, ecc.) portata dagli Arabi.

Si tratta del mito che più di ogni altro ha influenzato la storiografia e, più in generale, qualsiasi lavoro dedicato alla Sicilia Musulmana. Mi riferisco, ovviamente, al presunto fiorire di scienza, poesia e arti per tutto il periodo della dominazione araba della Sicilia.

Amari si occupa di questi argomenti nel capitolo XIII del II volume. Già dopo poche righe, il suo risentimento verso il cristianesimo esce fuori in tutta la sua forza, quando parla dei musulmani dopo la conquista normanna.

amari volume giogo cristiano

Il paragrafo dedicato all’agricoltura, il meno letto e più citato della sua opera, si apre allo stesso modo. Amari si rifiuta di ritenere che gli Arabi, per lui agricoltori migliori di Romani e Bizantini, avessero potuto iniziare a disboscare la Sicilia. La sua è una semplice supposizione, giustificata così:

amari volume bosco

Secondo Amari gli sciocchi sono, senza paura di smentita, i Romani.

A ogni modo, la coltivazione degli ulivi, già diminuita durante il periodo romano, cessò quasi del tutto sotto gli Arabi; i vigneti si ridussero in maniera significativa. Entrambi i fatti sono confermati dall’importazione, nella Sicilia araba, di olive dall’Africa e di vino dal regno di Napoli.

Di sicuro, gli arabi iniziarono la coltivazione degli agrumi, della canna da zucchero e introdussero il baco da seta. Questi aiutarono il commercio isolano, ma è importante sottolineare come la Sicilia fosse già ricca di risorse e di porti commerciali. Crocevia e snodo fondamentale del commercio marittimo, la Sicilia aveva mantenuto l’eredità greco-romana in tutta la sua forza originaria, anche perché non fu mai occupata dalle popolazioni c.d. barbare.

Amari cita anche Ibn al-Awwam, agronomo andaluso del XII secolo, e il suo enorme compendio sull’agricoltura, come esempio del grande contributo data a quest’ultima dagli Arabi, senza menzionare che egli non fece altro che mettere insieme diverse citazioni dai Geoponica di Cassianus Bassus e di fonti arabe che riportavano materiale più antico.

La questione relativa all’agricoltura araba in Sicilia è solo un piccolo tassello della “Rivoluzione Agricola Araba”. Facciamo un passo indietro, anzi, in avanti. Nel 1974 viene pubblicato un articolo di  Andrew Watson in cui quest’ultimo conia il termine “Arab Agricultural Revolution“. Le sue conclusioni sono del tutto strampalate, ma sono gli anni’70, la Guerra dello Yom Kippur è appena passata: elaborare una superiorità storica dell’Islam sui capitalisti occidentali (USA e Israele) sembra una buona idea. Professori delle scuole superiori e universitari di tutta Europa lo incensano, in un grottesco sfoggio di parzialità intellettuale, scordandosi all’istante delle capacità agricole greco-romane.

A nulla, ripeto: a nulla, valgono le pubblicazioni accademiche successive. Per evitare ragionamenti astratti, prendiamo ad esempio la questione dei sistemi d’irrigazione. Con l’avvento della storiografia anticlericale ottocentesca, la creazione del sistema di irrigazione agricola della Spagna orientale viene spostata in avanti di qualche secolo, dal periodo romano a quello arabo. Ancora oggi, sette o otto accademici su dieci metterebbero la mano sul fuoco su questa conclusione. E perderebbero la mano.

Eppure, oltre a decine di altri testi più risalenti, basterebbe consultare Irrigation Agrosystems in Eastern Spain: Roman or Islamic Origins? di W. Butzer e altri; Annals of the Association of American Geographers, Vol. 75, No. 4 (Dec., 1985), pp. 479-509. Questo testo mostra in modo inequivocabile l’origine romana dei tanto osannati sistemi d’irrigazione arabi. Molti di voi non lo leggeranno, quindi eccovi qui sotto l’abstract:

Irrigation Agrosystems in

Per approfondire la questione della c.d. Rivoluzione Agricola Araba, leggi QUESTO ARTICOLO.

Per quanto riguarda l’allevamento, alcuni propagatori del mito della Sicilia Musulmana hanno interpretato le parole di Amari in modo del tutto errato. Cavalli, muli, bovini, ovini erano già ampiamente diffusi, e gli apicoltori continuarono a lavorare senza soluzione di continuità per tutto il periodo bizantino.

Sul commercio, l’Amari fa un’affermazione interessante:
amari volume2 commercio

In pratica, egli premette che per il commercio ci sono pochi documenti e di questo incolpa scrittori e problemi di archiviazione (mentre quando parla di documenti romano-bizantini, non fa lo stesso ragionamento). Il commercio con le coste nordafricane rimase stabile e consistente per tutta l’epoca romana e bizantina (forse ci fu un abbassamento fisiologico durante il dominio vandalo).

La cesura avvenne solo quando la costa nordafricana cadde in mano islamica e vi fu ripresa solo quando gli arabi si stabilirono anche in Sicilia. Dare il merito delle capacità commerciali siciliane a chi le aveva, inizialmente, compresse, è una forzatura storica che fa il paio con quella della salvaguardia della cultura greca (che gli arabi assimilarono parzialmente dopo aver distrutto la parte orientale dell’Impero Romano).

L’amore smodato di Amari per lo splendore della Sicilia Musulmana emerge a chiare lettere anche in un passo successivo:

amari sicilia araba

Arti, lusso, cultura, genio… La creazione di questa dicotomia fra Mondo Romano-Germanico Decadente e Mondo Arabo Islamico Ricco e Acculturato, di cui ci siamo trascinati le false vestigia fino ad oggi, è completata in questo passo. L’Amari, come molti altri storici passati e presenti, ha una concezione distorta del passaggio dal Mondo Romano a quello Arabo, dall’Evo Antico al Medioevo.

Sembra quasi che, deposto Romolo Augustolo, decine di milioni di cittadini romani abbiano calato il mantello a ruota sulle spalle, si siano chiusi in un castello e abbiano iniziato a bruciare le streghe. E che a rompere questo buio senza speranza, scacciato solo dopo un migliaio di anni con il Rinascimento, ci siano state solo la scienza e la cultura araba. Questa è, come spero di aver dimostrato negli ultimi articoli, una falsità.

E tuttavia, l’Amari continua. E ci spiega come la prosa e, soprattutto, la poesia araba vincano a mani basse (“senza contrasto”) nel confronto con quelle partorite dalla cultura greco-romana.

poesia araba

Per quanto riguarda le scienze antiche, ossia quelle che gli arabi preservarono parzialmente dopo aver annientato l’Impero Romano d’Oriente e quello Sasanide, sappiamo che un manipoli d’intellettuali le coltivò nei territori islamici, ma per quanto riguarda la Sicilia Musulmana non ci sono molte testimonianze. Su questo argomento, Amari è più onesto e sottolinea come a mantenersi costanti fu lo studio delle “scienze coraniche“, rinvigorite dalla metafisica e dalla dialettica occidentale, mentre le scienze antiche ebbero un brevissimo periodo di splendore, durato circa centocinquant’anni, fra IX e X secolo.

 amari scienze anticheChe alcuni matematici, medici  e astronomi operarono in Sicilia è fuori di dubbio, ma una certa storiografia continua a far apparire gli arabi di Sicilia come una schiatta di scienziati impegnati tutto il giorno a redigere mappe, fare esperimenti e costruire meraviglie architettoniche. E, lo ripeto, si tratta di una falsità.

D’altronde è lo stesso Amari a lasciarsi sfuggire che filosofi e scienziati (spesso persiani o di origine ebraico/cristiana) venivano osteggiati anche nel c.d. Periodo d’Oro. D’altronde, lasciando per un attimo la Sicilia, sappiamo che Muhammad ibn Zakariyā Rāzī (865 – 925 AD), scienziato persiano, si esprimeva in questo modo sull’islam:

Se ai musulmani viene chiesto di provare la validità della loro religione, loro si accendono, perdono il senno e versano il sangue di chiunque provi a confrontarsi con loro sulla questione. I Musulmani proibiscono la speculazione razionale e cercano di ammazzare i loro avversari. E’ per questo motivo che la verità è stata completamente messa a tacere e nascosta.

Razi fu un fisico e chimico eccezionale, definito da George Sarton come “il più grande fisico islamico e medievale”. Guardacaso, fu aspramente criticato dai suoi colleghi, soprattutto per la sua posizione sull’Islam e su Maometto. Secondo molti era vicino al Manicheismo e alla cultura greco-romana, persiana e indiana.

In molti citano Muhammad al-Idrisi come esempio delle avanzate capacità topografiche e geografiche degli arabi siciliani, ma spesso omettono un particolare: al-Idrisi non era originario della Sicilia, fu Ruggero II a invitarlo a corte per ottenere i suoi servigi. Viaggiatore espertissimo e ottimo cartografo, al-Idrisi redasse, nel 1154 (a 54 anni circa) la famosa Tabula Rogeriana.

Quanto alla medicina arabo-Siciliana, Amari ammette che non ci sono arrivate notizie di molti medici di fama, e, quasi dispiaciuto, inverte l’onere della prova sostenendo che, anche se non abbiamo testimonianze di medici siciliani, ciò non vuol dire che non ci siano stati.

Tornando alla Sicilia, è necessario sottolineare ancora un aspetto già menzionato: quando parliamo di scienze islamiche, in massima parte parliamo di lavori relativi alla lettura, esegesi, narrazione e storia del Corano o delle tradizioni sulla vita del Profeta. E qui Amari, involontariamente, lo dimostra in modo chiaro quando dedica sette pagine (pgg. 464-471 del II volume di Storia dei Musulmani di Sicilia) a matematica, astronomia e medicina araba e più di settanta a scienze coraniche, grammatica, giurisprudenza (islamica) e poesia (pgg. 472-545 dello stesso volume).

Il lavoro sull’opera di Amari e sulla Sicilia Islamica continuerà con l’aggiunta di un’ultimo paragrafo a questo articolo, in cui mostrerò come i siciliani non accettarono mai la dominazione araba.

Sarà anche l’occasione per comprendere cosa spinse i primi a cancellare l’islam e ogni sua manifestazione dall’isola nel giro di pochi decenni.

51 pensieri riguardo “L’Epoca d’Oro della Sicilia Musulmana: Un Mito Ottocentesco

    1. Vorrei provare a essere equo, quindi non farò cherry picking. Gli arabi importarono alcune colture e determinate “innovazioni”, ma la stratificazione della menzogna storica ci ha portato a immaginare una Sicilia araba dove si passava il tempo a osservare le stelle, cantare poemi e studiare medicina, il tutto nella più completa concordia fra fedi e razze.

      1. Secondo me si dovrebbe pure approfondire il periodo di ripopolamento della Sicilia con i cristiani arrivati dall’Italia continentale da nord e da sud, perché noto che qualche siciliano rivendica presunte origini saracene (il quale impatto genetico è quasi inesistente, lo si può vedere in qualunque studio genetico) in contrapposizione all’italianità chiara ed evidente dell’isola che forse qualcuno coi paraocchi non vede.

        1. Hai ragione. Penso che, ad oggi, i discendenti degli arabi siciliano siano pressoché inesistenti. Questo dovrebbe far comprendere quale fosse la stima del popolo siciliano nei confronti dei loro conquistatori, visto che questi ultimi furono spazzati via dalla terra e dalla memoria non per volontà univoca della Chiesa (come vorrebbero farci credere).

        2. Si e tra l’altro niente mi toglie l’idea dalla mente che gran parte dei musulmani di Sicilia fossero semplicemente gente locale convertita a forza e sotto ricatto senza chissà quale travaso di popolazione dall’Arabia. Lo sosteneva anche Francesco Gabrieli, ma lo stesso fanno pure Jean Marie Martin e Jacques Le Goff.

  1. Ci sono molti spunti interessanti. Il disarmante paragone di Sicilia araba come metodo di sviluppo e di civiltà alla Sicilia greca è veramente incredibile, soltanto uno con dei pregiudizi e con una forte ideologizzazione come appunto Michele Amari poteva uscirsene con una comparazione del genere. Tra l’altro anche il pregiudizio della Sicilia romana come sottosviluppata (ma allo stesso all’unanimità l’Impero Romano viene visto con un periodo di formazione e sviluppo di una cultura avanzatissima, quindi per quale motivo la Sicilia doveva fare eccezione?) e ancor peggio sulla Sicilia del periodo ostrogoto e soprattutto bizantino che viene tacciato come essere un’epoca di barbarie e di declino ma nella realtà la storia dice altro: la Sicilia bizantina diede quattro Papi a Roma (che in quel periodo significato prestigio e sinonimo di potenza) ma soprattutto Siracusa fu capitale imperiale! Allo stesso tempo si parla di epoca di progresso e apertura mentale durante il periodo musulmano ma le cronache dicono altro! Le cronache raccontano di un’aggressione brutale, di interi villaggi saccheggiati e rasi al suolo, di numerosi civili uccisi, di cristiani (cioè gran parte della popolazione siciliana anche durante il periodo islamico, ci tengo a precisarlo) sottomessi ad una élite di stranieri come hai citato tu stesso e molto altro, perché gli islamici si scannavano anche fra di loro tanto è vero che la Sicilia fu divisa in tante Taifa come accadde in Spagna e Portogallo tra l’altro. E’ ora che si faccia un revisionismo storico vero e serio.

  2. Ci sono state due espulsioni di massa di saraceni dopo la riconquista cristiana (sono un laico e non ne faccio un motivo di religione ci tengo a precisarlo): la prima subito dopo la conquista stessa, una gran parte di essi decise di abbandonare la Sicilia spontaneamente perché agli stessi islamici non sarebbe consentito di vivere sotto un governo di un’altra religione e la seconda con l’espulsione forzata in epoca Federiciana che li deportò tra Lucera e altri centri fuori dall’isola. Nel mezzo di queste due epoche vi sono stati tantissimi conflitti etnici sul quale i libri di testo tacciono volontariamente. Sin dalla conquista normanno/cristiana (l’esercito puramente normanno era di circa 1500 uomini ma a loro si aggiunsero numerosissimi arruolati siciliani e altri cavalieri dai territori meridionali e settentrionali d’Italia) ovviamente la guerra non fu una scazzottata da bar ma soprattutto le sommosse e i pogrom scoppiati tra il 1150 circa e il 1190 opera soprattutto degli immigrati del nord Italia che decimarono la popolazione islamica e ne occuparono le terre. Bonello e Sclavo sono solo i due casi più famosi ma se leggi le cronache di Jubayr e Salernitano vedi com’era realmente la situazione. Addirittura le poche famiglie sopravvissute musulmane di Trapani implorarono Jubayr di portarli con loro ad Al-Andalus.

  3. Sarebbe molto interessante riprendere anche la critica al volumetto di Paolo Barnard su Israele, in quanto ci sono molti altri punti che meritano una replica.

        1. ma valeva anche per i convertiti? Nel senso, a danno dei convertiti

          Come tutte le leggi esisteva un certo grado di flessibilità. A titolo di esempio, in Egitto nel 724, l’improvvisa conversione massiva di oltre 24.000 contadini, che cercavano di sfuggire alle tassazione estorsiva degli arabi, costrinse il governatore locale ad imporre la jizra anche sui neoconvertiti con il preciso scopo di dissuaderli ad abbracciare l’islam e farli tornare nel corretta colonna della bilancia fiscale.
          Pecunia non olet.

          La cosa triste è che queste norme vergognose vengono pure etichettate sotto la parola “tolleranza”. Se al posto della parola “dhimmi” o “infedele” ci fosse stata la parola “nero” come verrebbero chiamate? Leggi razziali? Apartheid?

        2. quella su cavalli e selle e quella sull’altezza delle case

          @Daniele: si tratta di prescrizioni che uniscono buon senso militare e (come hai correttamente individuato) anche un fattore di oppressione psicologica.

          In soldoni: in un’epoca in cui la cavalleria (per mussulmani e cristiani) era la regina dei campi di battaglia, attuare delle restrizioni sulle cavalcature e sul tipo di sella da indossare era un’efficace mossa di “polizia preventiva”, che metteva in grave svantaggio la popolazione soggetta (non so quanti fra voi abbiano mai provato a cavalcare “a pelo” [*] ma riuscire a farlo, e farlo con una qualche efficacia di tipo militare è un’abilità che a quanto ne so era appannaggio più o meno esclusivo dei popoli della steppa).

          Medesimo discorso, stavolta dal punto di vista più prettamente logistico, per quanto riguarda l’altezza delle case. Una casa “a livello” (o più alta) di un’altra rappresenta una posizione vantaggiosa (per armi a gittata, come posizione di controllo). Se, a contrario, è invece più bassa, non solo non vi sono questi vantaggi, ma è anzi più agevolmente controllabile da abitazioni (e quindi posizioni di tiro) più elevate.

          Spero di essere stato abbastanza esaustivo.

          L’Anacroma

          [*] si, ok, fate pure le simpatiche battutine, bravi. Risate registrate.

        1. Se vuoi tirare da una posizione elevata, la casa non deve essere necessariamente la tua: puoi infilarti in quella, più alta, di un altro e passa la paura. E magari incastri pure il tuo ospite. La sorveglianza, magari, potrebbe avere più senso, ma solo se circondi la casa alta di case basse – e non so se i dominatori volessero mescolarsi ai dominati in questo modo, sarà un mio pregiudizio, ma immagino piu probabile una formazione di quartieri alti (in tutti i sensi) composti da dominatori e quartieri bassi con i dominati – di solito ci si appaia con chi ci somiglia di più, per non parlare del fatto che, immagino, i quartieri dei dominatori saranno stati ben più “fighetti” e serviti meglio, rispetto a quelli dei dominati.
          Quella dei cavalli mi sembra più una questione del tipo “il cavallo è figo, non puoi usarlo. Ringrazia che ti lascio gli asini” e anche se non ho mai cavalcato, lo immagino bene, che sia scomodo senza sella – per questo mi sembra più una scorrettezza che altro, la sella puoi usarla anche su un asino o mulo. Avendo già vietato le armi (cosa che ha un suo senso, per questioni di ordine pubblico) rendi anche impossibile la caccia – a meno che la gente di allora non si specializzasse nella cattura delle lepri a mani nude, che potrebbe essere dura 😛
          La maggior parte delle norme riportate continua a sembrarmi una serie di norme draconiane col fine di “gne gne gne” più che con un’utilità reale, al di fuori di quella legata all’uccidere spirito e orgoglio di un popolo.

      1. Online si trova anche questo pdf “Simone Collavini – Conquista, colonizzazione e latinizzazione della Sicilia” tratto dal libro “Storia dell’Europa e del Mediterraneo” a cui hanno collaborato tra gli altri eminenti intellettuali come appunto il docente Simone Collavini.

  4. Tralasciando le tasse, che sono un classico, alcune delle restrizioni (capisco quella delle armi) sono al livello del bullismo: quella su cavalli e selle e quella sull’altezza delle case sono intrise di vanagloria. In generale, molte mi hanno ricordato qualcosa: ia “logica” del libro verde! Sembrano una versione light dei precetti dell’ayatollah…
    Quello di alzarsi ogni volta che entra o esce un musulmano (ma valeva anche per i convertiti? Nel senso, a danno dei convertiti) è una rottura già solo da immaginare, ma il peggiore, forse, è il divieto di piangere i propri morti.
    I non musulmani potevano almeno indossare calzature normali, o dovevano essere fatte di rovi e ortiche?
    Bella la trovata dei segni distintivi sui vestiti: lo stigma fa sempre tanto fine e non ingrassa!

    1. Ti posso aiutare consigliandoti tre testi da leggere, fatti molto bene da storici eminenti.

      1) Francesco Renda – Federico II e la Sicilia (capitoli 7 e 8)

      2) Carlo Ruta – Il crepuscolo della Sicilia islamica (questo è un saggio che narra perfettamente ciò che ti ho riassunto sopra)

      3) Vari storici – Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo (capitolo 3 di Vera Von Falkenhausen, tratta molto bene la ripopolazione peninsulare della Sicilia)

  5. Tra l’altro sempre a Michele Amari si deve una grande incongruenza storica. Lui (e molti altri) definiva i normanni come tolleranti contro gli islamici, però pensateci bene: i normanni pochi anni dopo parteciperanno alla crociata del vicino oriente facendo un massacro di sudditi musulmani. Com’è possibile che avessero due tipi di comportamenti opposti allora?

      1. Ottimo, tra l’altro anche il falso mito della tolleranza normanna è da rivedere. I pogrom anti musulmani furono una realtà ben frequente.

        1. Ci fu una certa differenza fra i diversi sovrani, ma di certo fra arabi e cristiani siciliani non ci furono mai questi vasti rapporti amicali.

  6. Si e tra l’altro il fatto che Ruggero II fosse stato costretto a chiamare un dotto islamico di Al Andalus quale appunto Idrisi, mi propone due ipotesi: 1) o che effettivamente l’islam in Sicilia non fu un movimento intellettuale in grande scala come si suol dire, 2) o che l’espatrio (forzato e volontario) di gran parte della popolazione musulmana di Sicilia verso i territori islamici di Spagna e Nord Africa aveva ridotto sensibilmente la disponibilità di persone del calibro di Idrisi. Io, essendo un po pignolo, propendo per entrambe le soluzioni.

  7. Immensa stima. Finalmente un punto di vista diverso, originale, argomentato e non ideologico, che va contro la dittatura del pensiero unico.

  8. Mi permetto di segnalare lo studio: Breve storia degli arabi in Sicilia di Ferdinando Maurizio che mette un pò di ordine nella storiografia siciliana.

  9. Carissimo, non posso che ringraziarti. Tra il 2004 e il 2006 mi sono molto appassionato alla Sicilia Araba, proprio per ricercarne quello “splendore” che avevo visto in Andalusia. Non puoi capire la mia delusione quando capii che quello splendore non c’era mai stato! (poi, col tempo, capii che viene esagerato anche quello dell’Andalusia).
    A Fara Misuraca, persona che stimo e che apprezzo ma che sull’argomento fa parte della schiatta degli incensatori, scrissi nel lontano 2006 questa mail rimasta senza risposta:
    “Ultimamente mi sono appassionato all’enigma della Sicilia araba. Perché enigma? Semplice, per la completa mancanza di documenti diretti e monumenti dell’epoca (se si escludono i bagni di Cefalà Diana). Ultimamente ho tentato di raccogliere e di leggere le poche testimonianze giunte fino a noi e di trarre qualche conclusione. Riporto le mie. Sin dalle scuole medie ci viene insegnato che è esistita una Sicilia araba dall’827 al 1060 (più di due secoli quindi) e che doveva essere splendida quanto la meravigliosa Al-Andalus. Il problema che mi pongo è questa: ma è stata davvero così splendida? L’unica descrizione dettagliata è, purtroppo, quella di Ibn Hawqal e risale all’anno 973: se escludiamo il discorso (un po’ generico in verità) delle moschee non se ne ricava una gran impressione. La sensazione è che Palermo viva un periodo di evidente decadenza, soprattutto economica e che i discorsi dello splendore riguardino un’epoca ormai passata e non testimoniata direttamente da Hawqal. Cominciamo con il ricordare che, se la Sicilia viene invasa nell’827, la sua pacificazione completa risale però all’anno 948. La dinastia Kalbita entra in crisi già nel 998, per cui la Sicilia può conoscere uno sviluppo pacifico per soli 50 anni. Hawqal arriva nel mezzo di questo percorso (973): è difficile pensare che la Sicilia potesse stare meglio prima. Stupisce soprattutto la contastatazione che la Sicilia non è autonoma economicamente e che dipendeva molto dalle importazioni. Le produzioni pregiate sono poi pochissime. Dove sta, quindi, il grande progresso portato dalle colture e dalle tecniche arabe? Infatti prima dell’arrivo degli arabi la sicilia producevano molto grano, un pò di vino e di olio ed era conusciuta per il suo legno. Gli arabi la lasciano desertificata. Molto probabilmente hanno troppo instistito sulle colture della loro terra (agrumi in particolare) e si sono resi colpevoli di un disboscamento selvaggio. L’introduzione delle nuove coltivazioni avviene, quindi, a caro prezzo, quello di un grosso dissesto ambientale. Un altro elemento che porta a dubitare dello “splendore” della Sicilia araba è la presenza nella Palermo normanna di palazzi come la Zisa e la Cuba. Questi palazzi vennero fatti costruire dai principi normanni per usi civili e sono entrambi veri monumenti di arte araba. Resistono fino ai nostri giorni. Non sono vittime cioè della furia bigotta degli angioini che invece avrebbero, secondo le ipotesi più accreditate, distrutto tutti gli edifici islamici. Ma la Palermo araba, secondo gli storici, doveva essere ricca di splendidi edifici. Ma allora, per quale motivo i re normanni fanno costruire degli splendidi edifici in pura arte araba e non usano quelli già esistenti? Perchè gli angioini distrussero gli edifici civili arabi e lasciarono intatti la Zisa e la Cuba, anch’essi in fin dei conti edifici arabi (anche se costruiti in epoca normanna)? La sensazione è che non ci fu il tempo di sviluppare una vera civiltà araba in Sicilia e che il risultato fu anzi (parole di Hawqal) piuttosto rozzo. Inoltre in Sicilia arrivarono i berberi dell’Africa settentrionale più che i veri arabi. Il titolo di emirato fu conquistato più per la posizione strategica che non per i risultati raggiunti. Mi viene inoltre spontaneo pensare che fu sotto i normanni che la comunità araba diede il meglio di sè, contribuendo (secondo me in misura preponderante) ad una civiltà di cui ancora oggi apprezziamo i grandi risultati.” Perdona tutti gli errori e le imprecisioni di un dilettante allo sbaraglio (a cominciare dai bagni di Cefalà Diana) e grazie per il tuo studio che mi permetterà, d’ora in poi, di difendere le mie ragioni con dati oggettivi.
    Ti segnalo una: Michele Amari fa a pezzi Ibn Hawqal, l’unico in grado di darci degli elementi concreti sulla Palermo araba e sono elementi pessimi. Michele Amari dice che era malevolo e in mala fede, senza spiegarci perché.

      1. “Il lavoro sull’opera di Amari e sulla Sicilia Islamica continuerà con l’aggiunta di un’ultimo paragrafo a questo articolo, in cui mostrerò come i siciliani non accettarono mai la dominazione araba.

        Sarà anche l’occasione per comprendere cosa spinse i primi a cancellare l’islam e ogni sua manifestazione dall’isola nel giro di pochi decenni.”
        Questo lavoro lo hai pubblicato? (lo so, il tempo, il tempo…)

  10. Per capire com’era la Sicilia sotto gli arabi è sufficiente informarsi sotto quale dinastia sono partite le spedizioni militari: gli aghlabidi, un’accozzaglia di barbari capaci solo a fare atti di pirateria e sottomettere le popolazioni berbere; non furono in grado di costruire un’entità statale stabile in Africa, figuratevi se potevano farlo in Sicilia. Sparirono dalla scena sotto la veloce avanzata dei ben più potenti ed energici fatimidi.

  11. Sto rileggiando “L’Italia dei comuni” di indro Montanelli: libro dalla spessore scientifico prossimo allo zero ma anche un racconto leggero e divertente mentre si viaggia in metropolitana verso il lavoro.
    In ogni libro di storia, anche il minimo, si trovano degli spunti. Premettiamo che Palermo fu conquistata dai saraceni nell’831.
    Parlando dello scisma d’oriente, a pag. 70, Montanelli riporta la protesta di Papa Nicola I alla minaccia dell’imperatore bizantino di muovere le truppe contro Roma. Facendo riferimento all’evidente rotta, su tutti i fronti, dei bizantini contro gli arabi, Nicola scrive: “Noi non abbiamo invaso Creta, Noi non abbiamo spopolato la Sicilia, Noi non abbiamo bruciato le chiese fin nella periferia di Costantinopoli…”.
    Come dire: invece di combattere gli arabi, autori di questi scempi, combattete “Noi” (plurale maiestatis), cristiani come voi.
    Siamo nell’anno 867, Palermo è già musulmana e l’invasione è già in stato avanzato: l’accenno allo spopolamento della Sicilia in atto della Sicilia è davvero interessante. Non si lamenta di chiese bruciate, di torture o di tutto l’armamentario che potrebbe (dico, potrebbe) far parte della propaganda. No, Nicola I si lamenta dello spopolamento: fuga in massa di popolazione da tanto splendore?

  12. Articolo molto interessante, al riguardo mi sono posto alcune domande:
    gli Arabi che invasero la Sicilia erano monoteisti o politeisti?
    Erano tutti Arabi o molti di loro appartenevano all’antica civiltà Berbera presente in Sicilia secoli prima dell’occupazione Islamica?
    L’architettura Berbera e la fede professata dai Berberi coincidono con la cultura, gli usi e i costumi dei popoli cosiddetti Islamici?

    Fonte del periodo Islamico o cosiddetto Arabo.
    Una nuova fonte per la geografia e la storia della Sicilia nell’XI secolo : il Kitāb Ġarā’ib al-funūn wa-mulaḥ al-‘uyūn
    https://www.persee.fr/doc/mefr_1123-9883_2004_num_116_1_8863

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