La Rivolta degli Schiavi Zanj (869-883)

Questo articolo traduce, sintetizza ed integra un eccellente studio sulla Rivolta degli Schiavi Zanj pubblicato in tedesco dal Prof. Theodor Noldeke e tradotto in inglese da John Sutherland Black per il volume Sketches From Eastern History nel 1892.

 UN INVITO ALL’APPROFONDIMENTO
Oltre a narrare le straordinarie (e sconosciute ai più) vicende della ribellione di schiavi neri (“Zanj” sta per “negro” in persiano. “Zanzibar” infatti si traduce come “Terra dei Negri”) più rilevante di sempre, il testo tocca, in via incidentale, degli argomenti che non mancheranno di suscitare la vostra curiosità: le correnti interne all’Islam, la presenza degli “Zutt”, ovvero degli zingari, nell’Iraq meridionale del IX secolo, l’intolleranza del Califfo Mutawakkil nei confronti degli altri culti, l’abbattimento dell’albero sacro degli Zoroastriani e molto altro.

Quando il Califfo Mutawakkil venne assassinato, per ordine di suo figlio, l’11 o il 12 Dicembre 861, la struttura dell’Impero Abbaside iniziò a collassare. Le truppe, sia quelle Turche che le altre, insorsero e deposero i Califfi; i generali, molti dei quali un tempo erano stati schiavi come quelli che ora comandavano, lottavano per un potere che spesso dipendeva dall’umore dell’esercito. Nelle province nacquero nuovi governatori che, nella maggior parte dei casi, pensavano non fosse necessario riconoscere il Califfo come loro signore, anche solo dal punto di vista formale. Nelle grandi città della regione del Tigri ci furono gravi tumulti popolari. La pace e la sicurezza erano garantite solo dove il governatore, in pratica indipendente, esercitava il potere in modo ferreo.

 I DHIMMI SOTTO Al-MUTAWALKKIL

Al-Mutawakkil non ebbe mai grande apprezzamento per le altre fedi presenti nell’Impero. Nell’850 emanò un decreto che costringeva i Dhimmi (in maggioranza Ebrei e Cristiani) a vestire abiti che li distinguessero dai Musulmani. Inoltre i loro luoghi di culto furono distrutti  e furono estromessi dalle cariche pubbliche.

Quelli cui andò peggio furono i Zoroastriani, poiché Mutawakkil ordinò di abbattere il loro albero sacro, il Cipresso di Kashmar, per utilizzarlo nella costruzione del suo nuovo palazzo. Per sua sfortuna, fu assassinato prima dell’arrivo dell’albero.

Questa situazione interna ci aiuta a comprendere come, un avventuriero intelligente e senza scrupoli possa essere stato in grado di creare, non lontano dal cuore dell’Impero, un dominio che per lungo tempo divenne il terrore delle regioni confinanti. Egli riuscì inoltre ad accaparrandosi il supporto delle classi più disprezzate della popolazione. Il suo regno si piegò solo dopo 14 anni di attacchi da parte del Califfato, che nel frattempo era riuscito a recuperare parte della sua antica forza.

Alì inb Muhammad, proveniente da un villaggio non lontano dall’odierna Teheran, si proclamò discendente di Alì ibn Abi Talib e di sua moglie Fatima, la figlia del Profeta. Visto che nel IX secolo i discendenti di Alì (non tutti persone di buona nomea) erano ormai migliaia, la sua affermazione poteva essere vera così come poteva essere una semplice invenzione.

A detta di alcune autorità la sua famiglia proveniva dal Bahrein, una regione dell’Arabia nord-orientale, ed apparteneva ad un ramo della tribù di Abdalkais, che risiedeva lì. Ad ogni modo, egli passò per essere un uomo di sangue Arabo.

Prima di rivelarsi al mondo, si narra che Alì rimase per qualche tempo, assieme ad altri avventurieri , in Bahrein, cercando di farsi un seguito lì. Questa notizia sembra essere confermata dal fatto che diversi dei suoi seguaci più importanti provenivano da quella regione.

Fra questi c’era lo schiavo liberato nero noto con il nome di Sulaiman, figlio di Jami, uno dei suoi generali più capaci. L’ambizioso Alì, sfruttando una situazione di prevalente anarchia, cercò di assicurarsi una base a Basra. Questa grande città commerciale, dopo Bagdad il luogo più importante delle province centrali, era in grave sofferenza a causa del conflitto tra due fazioni, con ogni probabilità rappresentate dagli abitanti di due differenti quartieri della città. Qui Alì non ebbe grande fortuna; alcuni dei suoi seguaci, e anche i membri della sua famiglia, furono imprigionati, una sorte che evitò fuggendo a Bagdad. Poco dopo però, in seguito a un cambio di governatore, a Basra ci furono nuovi scontri, le prigioni furono aperte, e Alì si recò nuovamente in loco.

african slaves iraq
studio monografico sulla rivolta degli Zanj (per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente)

Egli aveva già esaminato in modo accurato il terreno adatto ai suoi piani.

Conosciamo solo marginalmente il luogo degli accadimenti relativi all’ascesa di Alì. Sappiamo che, in quel tempo, l’Eufrate, si immetteva in una regione di laghi e acquitrini, connessi al mare da canali di marea.

La più importante di queste acque era vicino a Basra, che si trovava più a ovest rispetto alla moderna, e molto più piccola, città con lo stesso nome (Bussorah). Questo luogo e le sue vicinanze erano attraversati da moltissimi canali (si dice più di 120.000). Sempre in quel periodo, il ramo principale del Tigri era quello a sud, ora chiamato Shatt al Hai, su cui sorgeva la città di Wàsit.

C’erano quindi alcune differenze geografiche rispetto a oggi, anche perché allagamenti e argini rotti avevano trasformato molte terre fertili in paludi; mentre, all’opposto, il prosciugamento e la costruzione di argini ne avevano bonificato molte altre.

In linea di massima, quella che era una terra ridente era divenuta selvaggia a causa dell’espansione degli acquitrini e dal riempimento di limo e ostruzione dei canali di drenaggio. Erano cambiati anche i letti dei fiumi. In considerazione di quanto detto, possiamo seguire solo in modo vago i riferimenti topografici molto precisi dettagliati dalle fonti nel descrivere le campagne contro Alì ed i suoi uomini.

A poca distanza a est di Basra c’erano ampi piani, attraversati da fossi, in cui  un gran numero di schiavi neri, la maggior parte provenienti dalla costa orientale africana, la terra degli Zanj, erano impiegati per scavare via la superficie nitrosa del suolo e mettere a nudo il fertile terreno sottostante. Al tempo stesso, questi venivano utilizzati anche per raccogliere il salnitro presente nello strato superiore del terreno.

Il lavoro degli schiavi era massacrante e la supervisione molto stretta. Il sentimento di affetto che, in Oriente, legava lo schiavo alla famiglia in cui viveva ed era cresciuto, era qui del tutto assente.

D’altro canto però, in simili masse di schiavi che lavorano insieme nasce facilmente una comunione di sentimenti, un comune senso di rabbia verso i padroni, e, sotto determinate condizioni favorevoli, la presa di coscienza della propria forza; queste, opportunamente combinate, sono le condizioni di un’insurrezione su larga scala. Avvenne questo durante le guerre combattute contro gli schiavi nell’ultimo secolo della Repubblica Romana, e la stessa cosa accadde qui.

 ISLAM E SCHIAVISMO

[Per approfondire, vedi Islam e Schiavismo: Una Storia Dimenticata]

I procacciatori di schiavi catturavano gli schiavi direttamente (specie le tribù nomadi), o tramite compravendite con i regni locali, come ad esempio quello del Ghana, l’Impero Gao o, in seguito, l’Impero del Mali. In questo caso, tutto quello che i musulmani dovevano fare era recarsi presso i vari mercati regionali (Gao, Aghordat, o altri locali) ed acquistare i prigionieri catturati nelle guerre interne.

Oltre a questo, i regni vassalli venivano spesso costretti a pagare un tributo in schiavi. Il primo fu istituito nel 652 a carico del regno di Nubia, e prevedeva l’invio di 360 schiavi l’anno (un numero che probabilmente fu aumentato nel tempo), oltre a elefanti e altri animali selvatici. Il regno di Nubia continuò a pagare ininterrottamente per circa cinquecento anni.

Musa bin Nusair, uno dei più grandi generali arabi di tutti i tempi, ridusse in schiavitù 300.000 Berberi infedeli, di cui 30.000 divennero schiavi-soldato. Successivamente, durante la campagna che lo portò a disintegrare il regno Visigoto (711–15), Musa riuscì a riportare in nord-Africa 30.000 vergini gote.

Alì comprese la forza latente di quegli schiavi neri. Il fatto che egli fu in grado di mettere in moto questa forza, e di svilupparla in una potenza che richiese molto tempo ed enormi sforzi per essere stroncata, dimostra che egli fu un uomo di grande acume. Il “capo degli Zenj”, “Alid” o il “falso Alid” gioca un ruolo molto importante negli annali dei suoi tempi, tanto che è facile comprendere perché la nostra fonte principale, Tabarì, preferisse chiamarlo “l’abominevole”, “il malvagio” o “il traditore”.

A Babilonia già una volta un Arabo di talento e senza scrupoli aveva sfruttato un periodo di confusione istituzionale per far nascere un regno basato su pretesti religiosi con l’aiuto delle classi più disagiate. Lo scaltro Mokhtàr aveva fatto appello alla popolazione Persiana e ai mezzo-sangue Persiani delle grandi città, in particolare Cufa, cui i dominatori Arabi, in quei primi anni dell’Islam, guardavano con grande disprezzo (685-687). Ma Alì andò molto più a fondo, e rimase al potere molto di più di Mokhtàr.

Prima di rivelarsi apertamente, Alì aveva cercato fra gli strati più derelitti della popolazione (in particolare fra gli schiavi liberati) gli strumenti adeguati all’esecuzione dei suoi piani.

All’inizio del settembre 869 si recò presso il distretto del salnitro sotto le mentite spoglie dell’uomo d’affari di una ricca famiglia, e iniziò a provocare gli schiavi. Secondo le fonti, egli si rivelò definitivamente il 10 settembre 869.

Aizzò gli schiavi neri sottolineando quanto fossero infime le loro condizioni d vita e promise loro che, se lo avessero seguito, avrebbero ottenuto libertà, benessere e… schiavi. Avete capito bene, Alì non aveva alcun interesse a predicare la necessità l’uguaglianza universale o un generale benessere, ma cercava di convincere gli schiavi neri che dovevano essere loro a primeggiare.

mercato degli schiavi arabo
mercato degli schiavi arabo

Ovviamente, Alì non si fece problemi a mascherare il suo piano da questione religiosa. Davanti ai suoi seguaci, egli proclamava la restaurazione della vera giustizia e che nessuno, a parte loro, erano veri credenti o destinati a rivendicare i diritti terreni e divine del vero Musulmano.

In un tempo di superstizioni e feroce utilizzo delle posizioni religiose, Alì riuscì a fare presa sia sui sentimenti più nobili che su più bassi delle masse disagiate. Il suo fu un successo completo.

In pratica si fece passare per un messaggero divino, e ai neri sembrò effettivamente esserlo, ma che ne fosse davvero convinto è difficile a credersi. Da quello che sappiamo di lui, sembra che Alì fosse un freddo calcolatore, anche se in realtà conosciamo meglio le sue gesta militari che non la sua vera personalità.

Alì affermò dunque di essere un discendente di Alì, il genero di Maometto, e quindi ci si poteva aspettare che, come avevano fatto altri, iniziasse a sbandierare la natura divina della sua famiglia e fondasse una setta Sciita.  Al contrario, egli si dichiarò a favore della dottrina dei nemici più decisi della legittimità di quella Sciita. Questi erano i Khargiti, i quali sostenevano che solo i primi due Califfi erano stati legittimi, mentre ripudiavano Othmàn e Alī ibn Abī Ṭālib, perché avevano fatto proprie idee secolari. Sostenevano anche che avrebbe dovuto regnare solo “l’uomo migliore”, anche se fosse stato uno “Schiavo Abissino”. Visto che si consideravano gli unici veri musulmani, non si facevano problemi a uccidere e schiavizzare i loro nemici musulmani e le loro famiglie.

Alì portava la scritta “Alì, figlio di Maometto” sul suo stendardo, ma gli schiavi non lo avrebbero seguito basandosi solo sulla sua presunta discendenza. Il passo decisivo fu proprio far credere loro di essere gli unici veri Musulmani e legittimi massacratori o padroni di tutti gli altri.

Nello scegliere la dottrina adatta ad infiammare gli animi degli Zanj, Alì, quasi sicuramente, tenne anche in considerazione la scarsa popolarità della dottrina sciita a Basra. E questa sua scelta ebbe una ripercussione rilevante, visto che probabilmente spiega il motivo per cui Qarmat, fondatore dei Carmati (setta ismaelita, a sua volte corrente sciita), non abbia mai voluto supportarlo.

Tornando ad Alì, bisogna notare che la conformazione territoriale (cui abbiamo accennato) favoriva il buon esito di una rivolta. Una quarantina di anni prima, nelle paludi fra Wàsit e Basra, si erano stabiliti degli Zingari (in arabo “Zutt”) le cui file si erano ingrossate grazie all’arrivo di emarginati e ribelli. Nonostante il Califfato fosse allora in pieno vigore, era stato difficile farli capitolare, quindi gli schiavi neri, più forti fisicamente (nell’articolo originale si legge “più coraggiosi”) e più numerosi, avevano buone possibilità di avere successo.

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I luoghi della ribellione [immagine presa dalla pagina inglese di wikipedia]

Dell’inizio della rivolta degli Zanj abbiamo diverse testimonianze dirette. Un gruppo di schiavi dopo l’altro iniziò a seguire il nuovo messia, e il numero dei ribelli arrivò prima a cinquanta, poi a cinquecento e così via. La loro furia si abbatté sui loro guardiani, perlopiù essi stessi schiavi o schiavi liberati, ma Alì , dopo averli fatti pestare, scelse di risparmiare le loro vite.

I proprietari degli schiavi supplicarono Alì di riconsegnarglieli e gli offrirono cinque pezzi d’oro per ciascuno schiavo oltre all’amnistia per le sue azioni. Egli rifiutò sempre queste offerte e giurò ai suoi seguaci (infastiditi da questo tipo di negoziazioni) che non li avrebbe mai traditi.

L’etnia di africani più rappresentativa fra gli schiavi era quella degli Zanj, che in pratica non parlavano neanche arabo, tanto che Alì fu costretto ad usare un interprete per comunicare con loro. I Nubiani invece, e gli altri africani del nord, già parlavano arabo. Agli operai delle cave di salnitro si unirono anche schiavi fuggiti da città e villaggi e uomini bianchi, mentre invece ci fu poca adesione da parte del proletariato urbano. Di sicuro un buon incremento del potere dei rivoltosi fu dovuto all’ammutinamento di soldati neri del Califfato, specie dopo che le truppe di quest’ultimo venivano sconfitte da Alì. Ad esempio, proprio all’inizio della rivolta un contingente dell’esercito fu sconfitto dagli schiavi (quasi disarmati), e più di trecento soldati neri si unirono a loro.

Purtroppo non disponiamo di informazioni dettagliate sull’organizzazione interna dello stato di Alì, ma la storia delle sue battaglie e della sua resistenza al Califfato ci è nota.

Gli uomini di Alì avevano un ottima guida, conoscevano bene un territorio ostico, fatto di acquitrini e canali, e mostravano grande coraggio in battaglia. Nelle prime settimane, gli Zanj vinsero parecchi scontri, anche perché le truppe imperiali avevano comandanti mediocri che sottovalutarono la forza degli schiavi.  Alì, avvalendosi anche di ottimi esploratori, utilizzò quasi sempre tattiche di guerriglia. In particolare, i suoi uomini utilizzavano la copertura di canali e canneti per piombare sulle retroguardie degli eserciti imperiali. In questo genere di scenario, non era raro che molti degli sconfitti morissero annegati negli acquitrini.

Questi primi scontri permisero agli Zanj di ottenere le armi e le armature necessarie a proseguire lo scontro. I prigionieri venivano uccisi senza troppe remore (come abbiamo detto, la dottrina Khargita li considerava miscredenti), mentre donne e bambini venivano fatti schiavi.

Dopo aver sconfitto un’armata proveniente da Basra, Alì marciò sulla città, convinto che alcune fazioni della città (quelle con cui aveva intrattenuto dei rapporti in passato) lo avrebbero appoggiato, ma i suoi calcoli si rivelarono errati. Gli abitanti di Basra affrontarono il suo esercito di Zanj il 23 ottobre 869 e lo sconfissero. Alì combatté con coraggio e riuscì a salvarsi. A quel punto, gli abitanti di Basra passarono all’attacco, ma Alì aveva già riorganizzato i contingenti superstiti ed era pronto a un’imboscata.

Il giorno successivo, l’esercito vittorioso organizzò dei vascelli, ma questi vennero assaliti dai Kanj e molti si rovesciarono. Gli schiavi combattevano con furia, e anche le loro donne partecipavano lanciando sassi dagli argini. Anche il contingente di Basra che avanzava via terra fu distrutto. Morirono molti membri delle famiglie più importanti, compresi i discendenti di Solimano, fratello dei primi due Califfi Abbasidi.

 IL CALIFFATO ABBASIDE
Sebbene ci sia la diffusa tendenza, nella divulgazione occidentale, a considerare il mondo islamico come un blocco monolitico, bisogna sottolineare come, in realtà, le divisioni istituzionali (cui si sovrapponevano quelle religiose o viceversa) fossero piuttosto marcate. La dinastia abbaside regnò, dal punto di vista formale, dal 750 al 1258, ma raggiunse il suo apice molto presto, con il Califfo Hārūn al-Rashīd e il figlio al-Ma’mun, morto nell’833. Gli omayyadi (la dinastia precedente) regnavano però in modo indipendente su Al-Andalus già dal 756, gli idrisidi facevano lo stesso in Marocco e parte dell’Algeria dal 788, gli aghlabidi in Tunisia e Tripolitania dall’800 (furono loro a prendere la Sicilia, ma furono presto soppiantati dai fatimidi, che presero anche i domini egiziani dei tulunidi). Ovviamente questi dati grattano solo la superficie di un mondo ancora più complesso che spero di trattare in un apposito articolo.

Per fa capire come sarebbero andate le cose da quel momento in avanti, Alì spedì a Basra un vascello pieno di teste degli abitanti uccisi.

Alì però non si sentiva ancora pronto a governare una grande città, e preferì stabilirsi in una parte all’asciutto del territorio che aveva conquistato. Probabilmente il campo base degli Zanj era costituito da capanne fatte con legno di palma o mattoni di fango. Piano piano si aggiunsero altri edifici, come la prigione e le moschee, fino a quando il campo base divenne una vera e propria città, al-Mukhtara (“la Città Eletta”). La città sorgeva a sud di Basra, sulla riva occidentale del Tigri, ed era attraversata da diversi canali.

Mokhtàra viveva grazie a quello che si riusciva a raccogliere nei dintorni e alle provviste comprate da commercianti e Beduini.

L’Impero non rimase con le mani in mano, ed incaricò il generale Turco Jolàn di eliminare gli Zanj. Le sue truppe però erano costituite in massima parte da cavalieri, la scelta peggiore per il combattimento negli acquitrini. Jolàn passò quasi sei mesi accampato vicino agli Zanj, e alla fine si ritirò in seguito a un attacco notturno di questi ultimi, che in precedenza avevano respinto un altro attacco dei cittadini di Basra.

La forza degli schiavi continuò a crescere, tanto che riuscirono ad aggredire con successo una flotta di ventiquattro navi diretta a Basra, da cui trassero un enorme bottino (comprensivo di donne e bambini).

Il 19 Giugno 870, gli Zanj attaccarono Obolla, situata dove oggi sorge Bassora. La battaglia fu breve e violentissima. La città cadde e fu data alle fiamme. Questo evento terrorizzò a tal punto i cittadini di Abbàdàn, una città alla foce del Tigri, da convincerli a sottomettersi agli Zanj (che pretesero armi e schiavi).

Un paio di mesi dopo, Alì prese possesso anche dei territori a est. Il 14 agosto 871 cadde Ahvaz, capitale del Khùzistàn, in pratica senza combattere, visto che le sue milizie si erano ritirate prima dell’arrivo degli Zanj.

In meno di un anno, un avventuriero alla testa di un esercito di schiavi neri aveva conquistato città e territori, gettato nel terrore Basra, e creato un grave danno ai commerci di Bagdad, visto che controllava la foce del Tigri.

rivolta schiavi

Nel frattempo, alla guida del Califfato si trovava al-Mu’tamid, ma in realtà il potere era esercitato dal fratello Al-Muwaffaq, che riuscì a ristabilire, almeno in parte, il potere degli abbasidi. All’inizio fu costretto ad occuparsi della grave instabilità politica dell’Impero, ma all’inizio dell’estate dell’871 inviò un esercito per fronteggiare Alì.

Il comandante di questo esercito, Said, ottenne degli iniziali successi, ma poi subì gravi perdite a causa del solito attacco notturno. Al Muwaffaq lo sostituì con un altro generale, che però ebbe ancora più sfortuna, visto che le teste di cinquecento dei suoi uomini furono sparse nei dintorni di Basra.

In quel periodo, agli Zanj si unirono gruppi di Beduini. In realtà, gli Arabi guardavano i neri con disprezzo, ma la possibilità di unirsi alle loro razzie e saccheggi li convinse ad aggregarsi.  I nuovi arrivati fornirono Alì con un corpo di cavalleria leggera che ben conosceva il territorio.

Il 7 settembre 871, il generale Zanj Mohallabì si mise alla testa di un esercito formato da fanti neri e cavalleria beduina. L’obbiettivo era, ancora una volta, Basra. Riuscì a penetrare nella città e ad incendiare alcuni edifici, ma ottenne il completo controllo della città solo due giorni dopo. Ne seguì un vero e proprio bagno di sangue, con gli abitanti che venivano appositamente riuniti per essere fatti a pezzi in modo più spedito. Alcune stime parlano addirittura di 300.000 morti. Le donne e i bambini furono resi schiavi, e alcuni Kanj ebbero anche più di dieci schiavi come ricompensa.

Alì però non aveva intenzione di occupare la città. Il suo esercito avrebbe avuto enormi problemi in una battaglia campale o in un assedio, quindi preferì riportarlo alla sua capitale. Il Califfo, saputo del massacro, spedì subito il comandante Mowallad con le sue truppe, ma questi venne sconfitto nel solito agguato notturno.

Nell’872, fu lo stesso Mowaffak a guidare l’esercito abbaside, ma anche lui venne sconfitto dagli Zanj il 29 aprile, dopo aver perso in battaglia il suo comandante militare Moflih. Il fratello del Califfo rimase in zona, e riuscì anche a liberare alcuni dei prigionieri, ma alla fine il caldo, le malattie e un incendio nel campo base lo costrinsero a ritirarsi a Wàsit.

Nel gennaio 873, con i propri soldati ormai allo sbando, Mowaffak tornò a Sàmarrà, lasciando Mowallad alla testa del contingente di Wàsit.

SAMARRA, LA CAPITALE
Come avrete capito leggendo l’articolo, per un certo periodo Bagdad cessò di essere la capitale del Califfato. Fu l’ottavo Califfo abbaside, al-Mu’tasim, a spostarsi a Samarra nell’836, mentre il ritorno a Bagdad fu voluto da al-Mutadid nell’892. Samarra fu fondata proprio nell’836, e divenne presto un’importante metropoli. Il palazzo del Califfo era affiancato dai baraccamenti per le sue guardie (specialmente turche, che avevano creato diversi problemi a Bagdad), e nell’847 fu eretta la famosa Grande Moschea.  Con il ritorno degli abbasidi a Bagdad, lo splendore di Samarra declinò rapidamente, tanto che attorno al 940 era ormai deserta.

Con l’armata imperiale a debita distanza, nel maggio 873 Alì riuscì a prendere per la seconda volta Ahwàz. Occorre sottolineare che il comandante degli schiavi non occupava mai le città in modo permanente. Il suo primo obbiettivo era sempre quello di razziare e terrorizzare i nemici. Alcuni pensano che questo sia stato il suo limite, ma non si può sorvolare nemmeno sull’ipotesi contraria, ossia che Alì riuscì a mantenere il potere così a lungo solo grazie a un saggio sfruttamento delle condizioni geografiche del luogo.

I Kanj furono cacciati dalla Susiana solo mesi dopo, grazie all’azione delle milizie guidate da Musà il Turco, figlio di Boghà, ma anche lui non riuscì ad arrivare allo scontro decisivo.

Ad “aiutare” indirettamente la causa dei Kanj fu Yakub, il capostipite della dinastia saffaride che, partendo da est, stava puntando su Bagdad. Fortunatamente per l’Impero, Muwaffak riusci ad intercettarlo e distruggerlo fra Wàsit e la capitale nell’aprile dell’876.

Alì sfrutto la situazione spingendosi a nord, verso Wàsit, trovando l’aiuto di alcune tribù arabe. In quel momento, a sette anni dall’inizio della rivolta, comandava su quasi tutta la Susania. Ebbe anche modo di allearsi con Mohammed, un luogotenente curdo di Yakub che controllava parte di quella provincia, ma la cosa durò poco. Alla fine Yakub e Alì si limitarono a una tregua, che rimase in piedi fino alla morte del primo, nel giugno 879.

Il Califfo non perse tempo, e subito riuscì a concludere una pace con il successore di Yakub, il fratello Amir, in modo da potersi dedicare agli Zanj senza correre il pericolo di essere sorpreso alle spalle o sul fianco.

L’anno prima, gli Zanj avevano preso nuovamente Wàsit e altre città di Babilonia, ma, perseverando nel loro modus agendi, evitarono di stabilirvisi. Nonostante gli sforzi degli ufficiali di Mowaffak, Alì ed i suoi uomini arrivarono fino a Jarjaràyà,  a sole settanta miglia da Bagdad.

Ciononostante, proprio alla fine dell’879, anno del culmine del potere di Alì, Mowaffak riuscì, anche grazie alla nuova pace con Amir, a guadagnare terreno. Affidò a suo figlio, Abul Abbàs, il compito di espellere gli Zanj dai territori vicino a Wasìt. Abbàs riuscì a sconfiggerli più volte e concesse il perdono ad alcuni ufficiali catturati.  Questo nuovo atteggiamento rese più instabile il potere di Alì, visto che i suoi ufficiali avevano ora un importante incentivo per passare dalla parte degli imperiali.

Abbàs comunque si distinse per le proprie imprese in combattimento, tanto che una volta tornò dalla battaglia con venti frecce conficcate nella protezione di feltro che indossava sopra l’armatura.

L’offensiva di Abbàs era iniziata da meno di un anno, quando sopraggiunse anche il padre, alla testa di una grande armata. Mowaffak prese subito la città di Manìa, fondata dagli schiavi a poche miglia da Wàsit, e lì riuscì a liberare oltre cinquemila donne e bambini fatti schiavi a loro volta.

Mowaffak avanzò con calma, continuando a liberare migliaia di sudditi. Lasciò poi al figlio il compito di controllare i territori più vicini alla capitale degli Zanj, mentre lui si diresse in Susiana. Gli Zanj che stazionavano lì si ritirarono frettolosamente (Alì voleva concentrare tutta la sua forza militare in un solo punto). Il curdo Mohammed cercò subito la pace con Mowaffak, che quindi si unì di nuovo ad Abbàs e all’altro figlio, Hàrùn.

Nel febbraio 881, il Califfato era pronto a sferrare l’attacco decisivo contro gli Zanj, ormai costretti nel territorio intorno a Mokhtàra.

Nel frattempo, Mowaffak continuava a concedere l’amnistia agli Zanj che decidevano di passare dalla sua parte. Molti abbandonarono Alì e furono trattati con tutti i riguardi dagli uomini di Mowaffak.

Il fratello del Califfo iniziò l’assedio di Mukthara con grande calma, assicurandosi in primo luogo di tagliare i rifornimenti al nemico e mantenere stabili i suoi. D’altronde, la capitale degli schiavi aveva diverse fortificazioni (mura, pozzi, canali da inondare, ecc.) e, almeno all’inizio, il numero degli Zanj era superiore a quello dell’esercito di Mowaffak.

Negli scontri fra Zanj ed esercito, quest’ultimo utilizzò anche gli “uomini nafta”, che utilizzavano il fuoco Greco su uomini e fortificazioni.

L’esercito del Califfato riuscì più di una volta a penetrare le difese di Mukthara e a distruggere degli edifici prima di essere ricacciato. In particolare, il 10 dicembre 882, un’incursione guidata da Mowaffak portò alla distruzione della moschea. L’impresa costò cara al fratello del Califfo, perché uno schiavo bizantino lo ferì gravemente con una freccia.

Nei giorni successivi, sembrava che gli eventi stessero girando nuovamente a favore di Alì. Questi si era arroccato nella sua capitale sicuro che, prima o poi, un qualche evento interno all’Impero avrebbe costretto Mowaffak a distogliere buona parte delle sue forze dall’impresa. E in effetti, sempre nel dicembre 882, il fratello del Califfo decise che era giunto il momento di liberarsi dalla tutela di Mowaffak. La sua idea era quella di raggiungere il principe vassallo d’Egitto, Ibn Tùlùn, ma il governatore di Bagdad, Ibn Kondàj, riuscì a intercettarlo e a riportarlo presso la sua residenza di Samarra (febbraio 883).

Sfruttando questi eventi e il lungo decorso di Mowaffak, Alì riuscì a ripristinare parte delle difese e a resistere tutta la primavera (nonostante i nemici fossero riusciti a bruciare anche il suo palazzo). Le defezioni degli ufficiali intanto continuavano.

Nella battaglia del 21 maggio 883, le forze imperiali presero l’harem di Alì e bruciarono buona parte delle scorte di grano, ma gli Zanj riuscirono a respingerle con l’ennesimo sforzo.

Poi, nel giugno 883, all’armata imperiale si aggiunse quella di Lùlù, comandante delle milizie di Ibn Tùlùn (governatore dell’Egitto) in Siria Settentrionale. Così, il 5 agosto 883 le truppe imperiali piombarono in massa su Mokhtàra e la conquistarono. Alì si diede alla fuga, ma successivamente tornò indietro e sorprese gli imperiali intenti nel saccheggio della città. Riuscì ad allontanarli per qualche giorno, poi, l’11 Agosto Muwaffak prese definitivamente Mokhtàra.

Non si sa se Alì sia morto combattendo o abbia preferito il veleno. Fatto sta che la sua testa venne portata a Mowaffak quello stesso giorno.

Il 23 novembre 883, Abbul Abbàs entrò a Bagdad con la testa di Alì su una picca. La rivolta degli schiavi si era conclusa.

Alì, lo schiavo nero, il ribelle, colui che si riteneva (o faceva finta di ritenersi) il degno successore di Maometto, aveva tenuto testa alle forze imperiali per quattordici anni. Quella degli Zanj fu una delle ribellioni più incredibili della storia.


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19 pensieri riguardo “La Rivolta degli Schiavi Zanj (869-883)

  1. Articolo molto bello. Grazie Zwe.
    Tra l’altro, impressionanti le analogia con la rivolta di Spartaco.

    Solo:

    >> Musa riuscì a riportare in nord-Africa 30.000 vergini gote.

    Mmh…

  2. Forse non erano tutte vergini, ma i numeri sono possibili. Lo stesso Musa fece in tutto quasi 300.000 prigionieri nella conquista del nord africa occidentale (romani e berberi) e 60.000 di questi furono il bottino del Califfo.

    1. Stando al “Al-Bayan Al-Mughrib” di Ibn Idhari (uno dei maggiori storici dell’Islam), il prezzo degli schiavi si svalutò a tal punto che al mercato era possibile comprare un uomo, una donna e un bambino ad appena 50 dirham. Cosa di cui si lamentò lo stesso Musa.
      Per tornare a simili livelli di “abbondanza” bisognerà aspettare le campagne degli Ottomani…

  3. Bello!
    Mi domando come si procurarono le armi gli schiavi, essere tanti, “coraggiosi” e neri aiuta ma se non hai le armi non vai lontano.
    Anche ai tempi c’erano rifornimenti di armi ai rivoltosi?
    Oppure potevano permettersi di combattere con gli attrezzi da lavoro?

    1. In attesa delle seconda parte, puoi basarti sulla risposta di Dago. E poi la conoscenza del territorio dava loro un enorme vantaggio, visto che acquitrini, miniere di salnitro e canali la facevano da padrone…

  4. Immagino che la disparità fra chi usa una roncola e chi usa una scimitarra, per quanto grande, non sia nemmeno comparabile a quella tra chi usa una roncola e chi usa un AK47.

    Poi probabile abbiano fatto come gli uomini di Spartaco: prendevano le armi dei soldati sconfitti, assaltavano magazzini nelle città conquistate, da ultimo quando avevano reclutato esperti in numero sufficiente se le producevano loro stessi.

  5. Zwei solo per buttarla lì, ma hai mai sfiorato l’idea di realizzare una enciclopedia storica? O qualcosa di simile? Anche basandola su uno specifico periodo.

      1. Uno dei tanti premi/catene di Sant’Antonio che attraversano la blogsfera, ma col vantaggio di avere un nome e uno sponsor ideale (Ash de l’Armata delle Tenebre) più fighi della media 😀

  6. Buongiorno. Ottimo articolo, grazie al quale, ho conosciti il blog. Continuerò sicuramente a leggerlo. Avrei da segnalarle una cosa: non pensa, sia forze non del tutto calzante il termine di proletariato urbano in quel periodo? Forse plebe cittadina, si adatterebbe meglio al periodo storico in questione? Io, parto dall’ idea, che il proletariato urbano, sia un portato successivo della rivoluzione industriale.
    Buin lavoro comunque.

    1. Ciao Dino, e benvenuto. Effettivamente la tua annotazione terminologica è sensata, ma ogni tanto cerco di essere più divulgativo che scientifico. Comunque grazie per i complimenti e dai pure un’occhiata in giro!

  7. Ho fatto il pieno di endorfine leggendo questo articolo…
    Ora mi tuffo sulla poltrona e me lo godo un po’ mentre la mente vaga e, come sempre, grazie

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